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Resta in carcere Ahed Tamimi, simbolo della resistenza palestinese

Il processo comincerà il 31 gennaio. Lo hanno deciso i giudici militari israeliani che ieri non hanno concesso la libertà su cauzione alla 16enne palestinese arrestata per aver schiaffeggiato due soldati il mese scorso a Nabi Saleh

Quando il 2 luglio 2010 a Hebron la colona israeliana Yitaf Alkobi prese a schiaffi un soldato nessuno si agitò in Israele. La donna fu fermata, interrogata e poi lasciata libera di tornare a casa. Eppure Alkobi era ben nota alle forze militari e di polizia. Più volte era stata segnalata per la sua aggressività e per i lanci di pietre. Ma nessun ministro israeliano si espose per chiedere per lei una punizione esemplare come è avvenuto nel caso di Ahed Tamimi, la 16enne palestinese di Nabi Saleh arrestata un mese fa dopo aver schiaffeggiato due soldati israeliani davanti alla sua abitazione. Nessun editorialista israeliano, come il famoso Ben Caspit, scese in campo per difendere l’onore delle Forze Armate infangato dalle mani di Yitaf Alkobi che colpivano con forza il volto di un soldato. Tanta fu allora la comprensione per gli schiaffi della colona, tanta è oggi l’esortazione a punire senza attenuanti l’adolescente palestinese che pure poco prima del suo gesto aveva visto il cugino Mohammed di 11 anni cadere sull’asfalto ferito gravemente alla testa da un proiettile sparato dall’esercito.

Ieri i giudici militari israeliani hanno deciso che Ahed Tamimi, sulla quale ora gravano ben 12 capi d’accusa, resterà in carcere per tutta la durata del processo che comincerà il 31 gennaio, del giorno del compleanno della ragazza. Sua madre Nariman, arrestata per aver ripreso con il telefono la scena degli schiaffi – il video resta uno dei più virali sui social a livello mondiale – sarà a sua volta processata a partire dal 12 febbraio. Anche l’avvocato Gabi Lasky, che assiste Ahed e Nariman Tamimi, fa capire che le cose si sono complicate e parecchio. È evidente che la punizione esemplare invocata dalla destra, con il consenso di gran parte dell’opinione pubblica israeliana, si concretizzerà presto o tardi. «La gravità dei fatti di cui è accusata non offre altra alternativa che la detenzione», ha commentato ieri uno dei giudici dipingendo la ragazzina palestinese come una criminale incallita, una delinquente abituale. A casa Tamimi, a Nabi Saleh, si vivono ore sempre più difficili. Il padre, Basem, noto attivista, ha lanciato un nuovo appello alla liberazione della figlia, divenuta un simbolo della resistenza palestinese all’occupazione e ormai famosa in tutto il mondo.

Ahed Tamini forse non subirà una condanna a 10 anni, come rischia sulla carta, ma di sicuro rimarrà un bel pezzo nella prigione di Hasharon dove è rinchiusa già da un mese. E la stessa sorte subirà la madre. Nel frattempo nulla o quasi trapela sul procedimento nei confronti del colono 21enne Amiram Ben Uliel, rinviato a giudizio per aver dato fuoco nel luglio del 2015 alla casa della famiglia Dawabsha nel villaggio palestinese di Duma in cui morirono il piccolo Ali Dawabsha (18 mesi, arso vivo) e nelle settimane successive il padre Saad e la madre Riham. Da quelle fiamme uscì vivo ma con ustioni gravissime solo Ahmed Dawabsha, 6 anni, rimasto orfano. Ed è difficile non ricordare anche la sentenza ad appena 18 mesi di carcere militare inflitta al soldato Elor Azaria che il 24 marzo 2016 uccise a Hebron a sangue freddo un palestinese responsabile di un attacco all’arma bianca che giaceva a terra ferito e non più in grado di nuocere. B’tselem, una organizzazione non governativa israeliana che si occupa di violazione dei diritti umani, riferisce che oltre 300 minori palestinesi sono attualmente detenuti in Israele. E lo stesso esercito israeliano conferma che 1400 minori palestinesi sono stati processati nelle sue corti negli ultimi tre anni.

Altri bambini e ragazzi intanto rischiano di pagare la “colpa” di essere palestinesi. Sono quelli che vivono nei campi profughi in Libano, Siria, Giordania, Cisgiordania e Gaza, vittime della Nakba nel 1948. La decisione del presidente americano Donald Trump di ridurre drasticamente i fondi Usa all’Unrwa, l’Agenzia dell’Onu che assiste i rifugiati palestinesi, minaccia di avere conseguenze gravissime e immediate per i 500mila studenti che frequentano le scuole delle Nazioni Unite. «Viene messo in pericolo uno degli sforzi di sviluppo umano più riusciti e innovativi in Medio Oriente e l’accesso a scuole e servizi sanitari», avverte Pierre Kraehenbuehl, commissario generale dell’Unrwa, che parla di una «sfida tremenda» affrontata dall’agenzia per sostenere il suo mandato e preservare servizi chiave in tutti questi decenni per i rifugiati palestinesi. L’Unrwa sta affrontando la crisi finanziaria più grave della sua lunga storia. Gli Usa hanno deciso di versare nelle sue casse solo la metà della prima tranche da 125 milioni di dollari annunciata in passato, in risposta alla condanna fatta dai palestinesi del riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele fatta da Donald Trump il mese scorso, condanna avvalorata da una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu che ha fatto innervosire la Casa Bianca. Per compensare almeno in parte la riduzione degli aiuti Usa, il Belgio ieri si è impegnato a versare 19 milioni di euro in tre anni all’Unrwa. Per la Lega Araba il passo fatto da Trump «punta a liquidare la questione dei rifugiati».

Michele Giorgio

da il manifesto