Alcune note sulle polemiche del quarantennale del sequestro Moro
La critica della vittima, scrive Daniele Giglioli in un bel saggio di qualche anno fa, «presuppone sempre un certo coefficiente di crudeltà» (Critica della vittima, 2014, p. 12). E non si può che partire da questa considerazione se si vuole mettere nella giusta prospettiva la “polemica” montata intorno alle parole di Barbara Balzerani, che tra gli anni ’70 e gli anni ’80 fu militante e dirigente delle Brigate Rosse, in un momento storico in cui – secondo i dati del ministero dell’Interno – erano attive oltre 250 sigle armate, 36.000 cittadini furono inquisiti per banda armata e 6.000 di essi condannati a decenni di carcere, e si registrarono 7.866 attentati alle cose e 4.290 alle persone. Barbara Balzerani non si è “pentita” – pentimento che, non dimentichiamo, è solo una discutibile categoria giuridica, perché non possiamo sapere quanto pensino lei, i suoi compagni e le sue compagne dentro loro stessi e loro stesse – né “dissociata” dalla lotta armata: lotta armata che, pure, ha dichiarato chiusa con Mario Moretti e Renato Curcio nel 1988 (trent’anni fa), in una celebre intervista allo Speciale Tg1.
Barbara Balzerani è oggi una donna di 69 anni, libera dopo aver scontato 26 anni di carcere, che non ha conti in sospeso con la giustizia. Scrive romanzi (ne ha scritti, al momento, sei, tutti pubblicati o ripubblicati da DeriveApprodi), alcuni riguardanti anche la sua esperienza nelle Brigate Rosse e la successiva detenzione, altri no (come l’ultimo). Tranne che in occasione del documentario di Loredana Bianconi Do you remember revolution. Donne nella lotta armata (1997), non ha partecipato negli ultimi anni a trasmissioni televisive né ha rilasciato interviste sui principali media sull’esperienza delle Br. Qual è la colpa per cui è appena risalita agli “onori” delle cronache? Aver partecipato alla presentazione del suo ultimo romanzo, presso il centro sociale Cpa-Firenze sud, il 16 marzo, giorno del quarantennale del sequestro Moro (di cui fu fra gli autori e le autrici). Dopo essere stata già criticata, a gennaio, per un post sul proprio profilo facebook (!) che giustamente prevedeva le polemiche che si sarebbero addensate nei mesi successivi, la presentazione al Cpa non poteva che essere un’occasione ghiotta per i media. Una giornalista di Matrix si è dunque recata all’iniziativa e, di nascosto, ha registrato l’evento, riportando alcune parole di Balzerani che hanno fatto scalpore: «C’è una figura, la vittima, che è diventato un mestiere, questa figura stramba per cui la vittima ha il monopolio della parola. Io non dico che non abbiano il diritto a dire la loro, figuriamoci, ma non ce l’hai solo te il diritto, non è che la storia la puoi fare solo te».
Questa frase ha scatenato una ridda di polemiche, accompagnata dall’approvazione quasi unanime al Consiglio comunale di Firenze di una richiesta di sgombero del Cpa, dall’annuncio del figlio di Lando Conti, ucciso dalle Br nel 1986, della decisione di querelare Balzerani (per cosa?) e da vesti stracciate per il fatto che l’ex brigatista abbia parlato “senza contraddittorio”. Come se ci fosse bisogno di un contraddittorio per parlare del proprio libro all’interno di un centro sociale occupato, neanche fossimo nello studio di Mentana in regime di par condicio durante la campagna elettorale.
Ma facciamo un passo indietro. Come mai Balzerani si è espressa in questo modo? Pochi giorni prima, la trasmissione di La7 Atlantide, condotta da Andrea Purgatori, aveva mandato in onda due puntate dedicate al rapimento Moro – ma comprendenti anche un’ampia contestualizzazione storica dell’Italia del tempo –, contenenti alcuni spezzoni di un film-documentario di Mosco Levi-Boucault prodotto nel 2011 dalla tv franco-tedesca Arte, che riprendeva le testimonianze rese quasi dieci anni prima da alcuni brigatisti rossi, presenti il 16 marzo 1978 in via Fani: Mario Moretti, Prospero Gallinari (morto cinque anni fa), Raffaele Fiore e Valerio Morucci. Non è la prima volta, ovviamente, che vediamo dei brigatisti in tv, sia sufficiente pensare al magistrale La notte della repubblica (1989-90), nel quale Sergio Zavoli intervistò numerose/i ex brigatiste/i (ma anche i terroristi neofascisti Francesca Mambro e Valerio Fioravanti). Come non è stata la prima volta che gli/le ex brigatisti/e hanno preso parola: pensiamo al libro Noi terroristi. 12 anni di lotta armata ricostruiti e discussi con i protagonisti, scritto da Giorgio Bocca nel 1985. Niente di strano, dunque?
No, qualcosa di fondamentalmente diverso c’è, perché dagli anni ’80-’90 a oggi è cambiato il paradigma narrativo entro cui si ritiene legittimo di poter parlare di alcuni eventi. Se, come illustrato in un articolo su «Contemporanea» del 2009 dallo storico Emmanuel Betta, si partiva da una condizione di «decisa prevalenza di un punto di vista scarsamente attento all’esperienza delle vittime» in cui veniva «messo in discussione soprattutto il ruolo e il peso della parola degli ex militanti della lotta armata nella costruzione della conoscenza e della memoria della violenza politica», nel 2018 la situazione si talmente ribaltata che la trasmissione di Purgatori è stata considerata un’«anomalia», scatenando polemiche e provocando biasimo. Esso è provenuto non solo dal capo della polizia Franco Gabrielli – che, in modo forse inedito, ha detto la sua su chi ritiene possa e non possa andare in tv, definendo «oltraggio» il fatto di aver mandato in onda un’intervista ad alcuni ex brigatisti di dieci anni fa – ma soprattutto, appunto, dei familiari delle vittime. Tra essi si è distinta, tra gli altri, Rita Dalla Chiesa che, non paga di twitter, ha rilasciato un’intervista in cui ha affermato, dicendosi amareggiata – e presentandosi pure lei come “vittima”, nonostante suo padre sia stato ucciso dalla mafia – che gli ex brigatisti «non hanno diritto di raccontare quei tempi». Alla faccia della nota “massima di Voltaire” che Voltaire non ha mai detto, secondo la quale «non sono d’accordo con le tue idee ma darei la vita per fartele esprimere».
In una situazione in cui, nei fatti, nessuno e nessuna tra gli e le ex militanti delle Br – tra quelli/e non pentiti/e e non dissociati/e – ha rilasciato alcuna intervista, da più parti – e in particolare dai familiari delle vittime – è venuta la richiesta di togliere la parola a persone che non avevano pronunciato parola alcuna. A ben vedere, l’unica ex brigatista comparsa in tv è stata Adriana Faranda, dissociata, intervistata nella webserie Cronache di un sequestro da Ezio Mauro, ex direttore e firma importante della «Repubblica» (sul cui sito la webserie è presentata e promossa), cioè di uno di quei giornali che ritengono uno scandalo l’aver dato voce ai brigatisti, diretto per di più dalla «vittima del terrorismo» Mario Calabresi. Un cortocircuito narrativo che ha del grottesco.
Ma – al di là di ogni polemica – è in realtà proprio sul contenuto delle parole di Balzerani che ritengo indispensabile interrogarci: perché Balzerani – sembra quasi banale dirlo – ha ragione, le vittime non possono avere il monopolio della parola. Del resto, chi può averlo? È un’affermazione crudele, come prospettato da Giglioli? Forse sì, ma è necessaria per ricostruire una genealogia del paradigma vittimario che ha condotto alla situazione in cui una polemica come questa appare scontata. Perché se Balzerani ha ragione sul fatto che le vittime non possano avere il monopolio della parola, è a mio avviso riduttivo pensare che le polemiche che mirano a censurare le parole dei protagonisti della lotta armata siano solo una «spada di Damocle che questi signori intendono mettere sulle lotte attuali». Non è una situazione limitata all’Italia e non è una situazione circoscrivibile alla narrazione della lotta armata degli anni ’70 e ’80, infatti.
A partire dagli anni ’80, l’elaborazione del passato ha sempre più visto il conflitto della «coppia antinomica storia/memoria», come definita dallo storico Enzo Traverso nel suo Il passato: istruzioni per l’uso. Era il periodo dell’affermazione della memoria, che è sempre soggettiva e poco attenta alle comparazioni e alla contestualizzazione (p. 18). Era il trionfo della cosiddetta «era del testimone», secondo la celebre espressione di Annette Wieviorka: il testimone, però, è finito negli ultimi trent’anni per sovrapporsi prima e per essere soppianto poi dalla «vittima», termine con contenuto religioso che rimanda alla sofferenza e al sacrificio. E a questo concetto, infatti, è irrimediabilmente legato quello del «perdono», richiesto alla vittima per la «riabilitazione pubblica» o la «condanna» del carnefice: basti pensare, in Italia, alle polemiche sulla richiesta di estradizione di Cesare Battisti e all’onnipresenza mediatica di Alberto Torregiani, figlio del gioielliere che Battisti, secondo le risultanze processuali, avrebbe ucciso nel 1979.
A partire dalla metà degli anni ’80, dunque, il paradigma vittimario ha imposto la sua egemonia ovunque nel mondo occidentale. Si è partiti, negli Stati Uniti, con la teorizzazione della giustizia riparativa e del victim-oriented approach, cioè di un approccio basato sulle vittime, inizialmente pensato per i reati comuni (e i dubbi sul fatto che si potesse applicare anche alla violenza politica erano numerosi): la vittimologia (victimology) è oggi una disciplina riconosciuta, branca della criminologia, mentre la vittima ha trovato una nuova centralità in tutti i sistemi penali. Ma si è passati, soprattutto, per alcune iniziative delle Nazioni Unite che hanno fatto scuola: se nel 1985 il termine «vittima» entrava per la prima volta a far parte del vocabolario di questa istituzione internazionale, è del settembre 2008 un’iniziativa organizzata a New York dall’Onu in cui si sono state chiamate a raccolta cinquanta vittime di atti terroristici avvenuti in tutto il mondo (incluso, per l’Italia, Mario Calabresi, nonostante sia complicato ricondurre a un generico «terrorismo» la morte di suo padre). Senza discernere il diverso contesto in cui erano avvenuti tali attentati.
La vittima si è, quindi, gradualmente imposta sul modo in cui viene pubblicamente ricostruito il passato. Le caratteristiche che ovunque accomunano la memoria che deriva dalla centralità delle vittime, secondo lo storico Giovanni De Luna, sono «il familismo, innanzitutto, il prepotente riaffacciarsi delle famiglie e dei singoli individui in uno spazio pubblico colonizzato dal lutto e dal dolore. E poi una fortissima carica rivendicativa […]. E poi ancora la soffocante presenza delle emozioni: odio, vendetta, perdono, pietà, compassione» (La Repubblica del dolore, p. 16). «In questa competizione vittimaria», aggiunge De Luna, «la storia scompare e sulla scena restano solo vittime e carnefici» (p. 97).
Se questo è vero in generale, in Italia l’adozione di questo paradigma vittimario non è passata per alcuna riflessione epistemologica e si è intrecciata, inoltre, con la specificità italiana determinata dal rapporto difficile con le sue «memorie divise», con il particolare sistema televisivo e il suo legame strettissimo con le forze politiche, con la superficialità e la pigrizia – se non la vera e propria ignoranza – di coloro che scrivono articoli di giornali e servizi televisivi che, ad esempio, hanno condotto pochi giorni fa gli autori dello Speciale Tg2 ad affermare che le Brigate Rosse sarebbero state responsabili dell’omicidio di Valerio Verbano (militante di sinistra ucciso da alcuni neofascisti), di Mario Amato (magistrato ucciso dai neofascisti dei Nar) e di Emilio Alessandrini (magistrato ucciso da Prima linea… almeno in questo caso si parla di una formazione di sinistra!). Secondo De Luna, che riprende un articolo su «Liberazione» di Paolo Persichetti del 2008, in Italia negli ultimi anni il riferimento alle vittime ricorre talmente tanto spesso da poter essere visto come un «tentativo di tenere insieme la Resistenza e i “ragazzi di Salò”, le foibe e i lager, il terrorismo delle Br e la mafia attraverso la costruzione, nel segno della compassione per le vittime, di “una memoria avvinta dall’emozione e assorbita dalla sofferenza”» (p. 83).
Una lucida ricostruzione storica, partendo da questi presupposti, appare quasi impossibile. A questo proposito, Vanessa Roghi ha giustamente parlato di memoria disarmata delle vittime, «anche da un punto di vista interpretativo: […] niente può spiegare, in una dimensione privata, perché un padre, un marito, un fratello abbiano perso la vita. […] A prevalere è lo sguardo “disarmato” che diventa disarmante quando alla voce del testimone non si affianca nessun tentativo di racconto storico, e la retorica della memoria si sostituisce al racconto della storia».
Se già nel 2004 il presidente della Repubblica Ciampi attribuì una medaglia ai parenti delle vittime del “terrorismo”, il caso Moro ha finito con il costituire, in un certo senso, il fulcro delle politiche della memoria che danno corpo al tentativo di nation-building della nuova Italia “postideologica” dell’ultimo ventennio: non è un caso se il Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo è stata fissata, nel 2007, al 9 maggio, data dell’omicidio di Aldo Moro, che ha così “battuto sul campo” quella – concorrente – del 12 dicembre, anniversario della Strage di piazza Fontana del 1969. Si tratta, ovviamente, di un chiaro segnale interpretativo su cosa, nella «competizione tra vittime» di cui parla De Luna, sia giusto ricordare per dar vita a una nuova “tradizione inventata”.
Questo giorno della memoria è stato poi suggellato da alcune iniziative – politiche – di cui è stata principalmente fautrice la presidenza della Repubblica. Ad esempio, nel volume Per le vittime del terrorismo nell’Italia repubblicana, da essa curato nel 2008, compaiono 378 nomi, tra vittime delle stragi, vittime delle Brigate rosse, ma anche militanti dell’estrema sinistra e dell’estrema destra uccisi nel corso di manifestazioni di piazza o in seguito a singoli episodi che – francamente – poco hanno a che vedere con la categoria di “terrorismo”, anche laddove si attribuisca a essa una valenza euristica che è ancora oggetto di dibattito storiografico, rappresentando al momento piuttosto uno stigma morale. Le celebrazioni della giornata del 9 maggio del 2009, invece, sono state suggellate dall’incontro tra le vedove di Pino Pinelli e Luigi Calabresi davanti al presidente della Repubblica: si tratta della stessa modalità d’azione adottata in Italia nei confronti della memoria della Resistenza e della guerra civile del 1943-45, con la promozione dalla fine degli anni ’40 di incontri pubblici tra ex partigiani ed ex repubblichini. Solo che in quel caso protagonisti ne erano i “combattenti” non le “vittime” (e, in questo caso, i superstiti delle vittime), coloro che avevano fatto delle scelte, non coloro che le avevano subite: il paradigma narrativo è, negli anni, irrimediabilmente cambiato e oggi «la vittima è l’eroe del nostro tempo» (Giglioli, p. 9).
Ma come avvenuto, appunto, per la Resistenza – riguardo la quale sembra ormai essersi perso il valore della lotta antifascista in nome del «buoni e cattivi stavano da entrambe le parti» –, sembrano ormai essersi attenuate anche le specificità di ogni singola esperienza degli anni ’70-’80: in questa narrazione appiattente, le Br sono diventate uguali ai Nar, non c’è più differenza tra uccidere un obiettivo che si identifica come “nemico” e mettere una bomba in una stazione ammazzando decine di persone, non ci sono più differenze – in realtà abissali – tra le posizioni ideali dell’uno e dell’altro. In quanto “vittime”, tutte le “vittime” – i morti e i loro superstiti, vittime in quanto private dell’affetto dei loro cari – sono uguali: e da qui un fiorire di proposte come quella dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno di istituire un «giardino dedicato a tutte le vittime degli anni piombo» o quella del Pd, sempre a Roma, di costituire «una consulta cittadina sugli anni di piombo composta dai familiari di tutte le vittime romane».
Proprio per quanto riguarda la memoria e la storia lotta armata, è del 2015 la pubblicazione del Libro dell’incontro, che raccoglie l’esperienza di un gruppo di confronto di cui hanno fatto parte «vittime e responsabili della lotta armata degli anni settanta», poggiandosi sull’esperienza delle Commissioni verità giustizia del Sud Africa. Esperimenti come questi hanno indubbiamente un valore terapeutico: ma sono utili alla ricostruzione storica? Può cambiare la storia d’Italia, come recita la scheda del libro, un racconto che finisce simbolicamente con una preghiera, con il rifugio nella fede, che tutto appiana? Sicuramente no.
Bisogna tenere in considerazione, inoltre, le modalità secondo le quali viene attribuito lo status di vittima, se è vero che, come scrive Giglioli, «chi controlla una macchina mitologica […] tiene in mano le leve del potere» e che «l’ideologia vittimaria è oggi il primo travestimento delle ragioni dei forti» (p. 10), è un instrumentum regni (p. 12). Le vittime (tanto i “martiri” quanto le persone vittime della loro perdita) quasi non possono più essere soggette a critica o a biasimo: i parenti delle vittime hanno sempre ragione, mentre Aldo Moro è diventato una specie di santo e nessuno sembra potersi e volersi assumere – oggi – il coraggio che già nel 1980 aveva solo il dio di Giorgio Gaber, l’unico a poter dire, in un testo che oggi sarebbe forse censurato, «che Aldo Moro insieme a tutta la Democrazia cristiana/è il responsabile maggiore/di vent’anni di cancrena italiana./Io se fossi Dio/un Dio incosciente, enormemente saggio/c’avrei anche il coraggio di andare dritto in galera/ma vorrei dire che Aldo Moro resta ancora/quella faccia che era».
La stessa narrazione riguarda anche la contestata categoria di “terrorismo” alla luce del fatto che, come scrive Giglioli in un altro volume (All’ordine del giorno è il terrore, 2007), «il terrorismo è la violenza degli altri». L’attribuzione dell’etichetta e di “vittima” e di quella di “terrorismo”, amplificate dai media, finiscono così per diventare – separatamente, ma ancora più quando si presentano in coppia come nell’accezione di “vittima del terrorismo” – strumenti di legittimazione/delegittimazione nella scena pubblica: come scritto da Girolamo De Michele nel romanzo Con la faccia di cera, ad esempio, «se un operaio uccide un padrone è terrorismo, se un padrone uccide cento operai di tumore è normale amministrazione, è il prezzo del benessere, è schiuma ai bordi del fiume del progresso. […] Le medaglie alle vittime del terrorismo le hanno esaurite, e comunque sul petto degli operai non stanno bene: gli operai sono sporchi, puzzano di fatica e sudore. E i ministri hanno ben altro da fare che stringere le mani alle vedove e ai figli» (p. 120).
Sul piano politico-culturale – e, in questo, Balzerani non ha torto – il paradigma della vittima ha un effetto depotenziante nell’organizzazione delle lotte: come fa notare De Luna, infatti, «quando l’ammirazione di cui godono coloro che lottano per far riconoscere il proprio statuto di vittime diventa più grande di quella che si tributa a persone che hanno il coraggio di mettere a repentaglio la propria vita per difendere la libertà o la giustizia, si delinea un effettivo incoraggiamento alla costruzione di altrettanti recinti chiusi sulle proprie rivendicazioni, necessariamente in concorrenza gli uni con gli altri, sovradeterminati da una particolare esperienza dolorosa personale, così che tutto quello che scaturisce dalla centralità delle vittime, sembra comunque voler trasformare lo Stato in una “federazione” di interessi particolari» (De Luna, pp. 98-99).
Ma lo storico non può non interrogarsi anche sugli effetti per la sua disciplina dell’affermazione del paradigma vittimario. Se il testimone – come ad esempio dimostrato da opere magistrali come L’ordine è già stato eseguito di Sandro Portelli – era interrogato appunto per la sua capacità di «testimoniare» qualcosa di utile per la ricostruzione e l’elaborazione del passato, rappresentando spesso il punto di vista dei subalterni (cioè di coloro che non producevano le “fonti ufficiali”), il racconto della vittima è invece ridotto a una questione sentimentale: la vittima ha ragione perché ha subito e, quindi, è intoccabile e, scrive Giglioli, «chi sta con la vittima non sbaglia mai» (p. 9). Mentre un tempo chiunque poteva parlare in quanto “testimone” (quindi anche le/gli ex brigatiste/i, nel caso specifico), anche se non se ne condividevano le posizioni, ora la vittima ha sempre ragione e spetta a essa stabilire chi può parlare e chi no degli eventi che l’hanno resa tale: il passaggio successivo è quindi quello di togliere la parola agli autori delle azioni armate, censurare la loro presenza pubblica. Spogliarli, insomma, del ruolo di “testimoni” che indubbiamente hanno: molto di più, tra l’altro, dei superstiti delle vittime, che possono essere testimoni di un dolore, non di un evento.
Il paradigma vittimario non è privo di conseguenze anche sul piano della narrazione storica: che storia è quella delle vittime? Persichetti, nell’articolo già citato, afferma giustamente «sprovvisti dello statuto di vittime, vinti e subalterni spariscono nuovamente dalla storia, eclissati e inghiottiti dall’oblio. Sembra, infatti, che per poter lasciare traccia resti solo la triste via della competizione vittimaria, […] quasi a voler sancire che se non c’è vittima non c’è storia».
Alla fine non resta che chiedersi se un approccio del genere e, in generale, il modo in cui si sta affrontando il quarantennale del sequestro Moro – polemiche su chi può parlare e chi no, centralità delle vittime, diffusi accenni complottistici a presunti “misteri” ancora da scoprire e fantasiose accuse di “omertà” per i/le ex militanti che non avrebbero detto tutto (parlano troppo o parlano poco? Viene da chiedersi…), classifiche delle capacità narrative dimostrate o meno dai brigatisti e dalle brigatiste nei libri di cui sono autori e autrici o dibattiti sul buono o cattivo gusto di Balzerani nel fare quelle affermazioni, tenuti con lo stesso tono degli articoli sull’appropriatezza del look di Meghan Markle davanti alla regina – aggiunge davvero qualcosa a quello che ci potevamo dire fino al 15 marzo? Abbiamo imparato qualcosa di più? Abbiamo maggiori strumenti di comprensione? E anche per quanto riguarda il rapporto tra brigatisti/e, scena pubblica e media, cosa è cambiato rispetto a un anno fa? Sembra più che altro un gioco di ruolo il cui copione si ripete di volta in volta sempre uguale a se stesso.
Non sarebbe meglio – passati quarant’anni – «guardare con fiducia alla conoscenza storica» (p. 18), come ha scritto De Luna nel volume citato, e magari adattarsi ai tempi della ricerca che non sono esattamente gli stessi degli anniversari? Gli storici, del resto, sono pressoché gli unici che non hanno detto nulla e a cui non è stato chiesto nulla o quasi nelle numerose ricostruzioni del sequestro presentate da giornali – cartacei e online – e programmi televisivi. Eppure, negli ultimi anni, di ricerche accurate e importanti ne sono uscite, da La lotta armata a Genova di Davide Serafino (Pacini 2016) al fondamentale Brigate rosse. Dalle fabbriche alla campagna di primavera di Marco Clementi, Paolo Persichetti ed Elisa Santalena (DeriveApprodi 2017). Eppure, nonostante i tanti appelli alla «verità», convegni storici sul sequestro Moro come quello organizzato l’anno scorso presso i locali del Senato (Il caso Moro: la politica, la ricerca, la storia) vengono annullati perché i relatori chiamati a intervenire considerati troppo poco compiacenti. Forse si potrebbe partire da qui.
Ilenia Rossini