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E la chiamano “Libia”. Le condizioni disumane nei centri di detenzione “governativi”

Dopo il Tribunale permanente dei popoli e l’Ue anche l’Onu documenta l’inferno in cui vengono trattenuti i migranti nei centri di detenzione in Libia, un paese dove ogni città è sotto il controllo di una milizia diversa

Sono note da tempo le condizioni disumane nelle quali vengono trattenuti i migranti internati nei centri di detenzione in Libia, o meglio in quella che ancora chiamano “Libia”, anche se ormai ogni città è sotto il controllo di una milizia che gestisce diversi chek-point, centri di detenzione, punti di estrazione e di carico del greggio, la guardia costiera e il sistema di intercettazione in mare, in collaborazione con le “missioni europee” e con le autorità italiane. Condizioni disumane, documentate adesso anche nei rapporti delle Nazioni Unite, che dovevano essere ben note già lo scorso anno al momento della stipula del Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017 e del successivo Codice di condotta imposto alle ONG alcuni mesi dopo.

Un sistema di poteri complesso con il quale si è cercato di interagire solo per bloccare il passaggio dei migranti, con una serie di negoziazioni separate che hanno accresciuto lo scontro tra le diverse fazioni, nel quale si infiltrano agevolmente organizzazioni terroristiche, capaci di colpire nel cuore di Tripoli. Mentre i trafficanti lucrano ovunque sulla mancanza di vie legali di ingresso in Europa e sulla negazione del diritto di asilo, dal momento che la Libia, e tanto meno il governo Serraj a Tripoli, non hanno mai aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951. La vita umana in mare, come a terra, è un valore assoluto che non può essere barattato con il controllo dei confini.

La presenza delle agenzie delle Nazioni Unite non trasforma i porti libici in “place of safety”. Le attività dell’UNHCR e dell’OIM sono orientate alla “riduzione del danno”, individuando, nei centri governativi nei quali possono accedere, le persone più “vulnerabili” da evacuare (non più di mille lo scorso anno su almeno 70.000 persone detenute nei centri governativi), o alle quali proporre il cd. rimpatrio volontario assistito. Alcune migliaia di detenuti che, pur di sfuggire alle sevizie quotidiane ed ai ricatti ai quali sono sottoposti, scelgono “volontariamente” di essere rimpatriati nel paese di origine. Per tutti gli altri, decine di migliaia di persone, inclusi donne e minori non accompagnati, compresi quelli riportati a terra dalla cosiddetta Guardia costiera “libica”, gli stessi abusi dai quali, pur di fuggire, sono disposti anche a rischiare la vita nelle acque del Mediterraneo.

Dopo le più recenti vicende giudiziarie, che si collocano all’inizio di un’altra stagione di attacchi, malgrado il risultato intermedio del dissequestro della nave Open Arms, si profila l’ennesimo sforzo “concentrico”, politico, diplomatico e giudiziario, di rappresentare la Libia come uno stato diviso ma che, dopo il Memorandum d’intesa stipulato da Serraj con l’Italia il 2 febbraio 2017, almeno nella sua parte occidentale, sarebbe diventato un “paese terzo sicuro”. Un paese nel quale esisterebbero centri “governativi”, periodicamente visitati dall’UNHCR e dall’OIM, nei quali, secondo le autorità italiane, i diritti umani sarebbero garantiti tanto da fare diventare alcuni porti libici dei “place of safety“, porti sicuri di sbarco, nei quali ben si potrebbe aiutare la Guardia costiera ( non libica) ma di Tripoli, di Zawia, di Khoms o di Zuwara, nella riconduzione a terra, sotto minaccia delle armi,  dei migranti intercettati in acque internazionali. In alcuni di questi centri di detenzione “governativi” opererebbero ONG italiane, ci immaginiamo in quali condizioni di sicurezza per le persone che vengono assistite in loco senza essere ri-dislocate o evacuate. Non si vedono ancora gli effetti dei corsi di formazione sui diritti umani tenuti dall’OIM nei principali centri governativi.

I rapporti più recenti smentiscono la narrazione ufficiale, in versione ministeriale o diplomatica, che si vuole diffondere per rassicurare l’opinione pubblica e utilizzare ancora una volta le ONG come “capro espiatorio”, o paravento, del fallimento delle politiche migratorie europee ed italiane. Anche MSF documenta le attuali condizioni disumane dei centri libici, in particolare del centro di detenzione di Zuwara.

Le immagini dei militari libici in armi sulle motovedette cariche di migranti non si possono smentire. A cosa sono serviti i corsi di formazione se gli uomini libici a bordo delle motovedette, in parte donate dall’Italia, non lanciano neppure un salvagente o un mezzo collettivo di galleggiamento ? Sono immagini successive al Memorandum d’Intesa Italia-Tripoli ed al Codice di condotta Minniti.

Le armi si vedono, se non sono nascoste in tempo, i salvagente o altri mezzi di galleggiamento per i soccorsi non ci sono. Vedremo come e quando le autorità internazionali (IMO) riconosceranno una zona SAR libica. Non si comprende davvero a quale prezzo e come si possa negare l’evidenza. Si potrà accertare nelle aule di giustizia quanto siano taroccati alcuni servizi fotografici e giornalistici sulla sedicente guardia costiera “libica”, o sulle attività delle ONG in acque internazionali.

Un fallimento morale e politico che non sta nelle cifre degli “sbarchi”, in forte calo rispetto allo scorso anno, ma si nasconde in Libia, per effetto delle intercettazioni in alto mare delegate alle motovedette “libiche” e delle violenze inflitte ai migranti nei centri di detenzione, governativi e informali, e nei paesi confinanti a sud con il Fezzan. Là dove si vogliono “esternalizzare” i nuovi confini europei. Persino Gentiloni denuncia le condizioni disumane dei centri libici, come se parlasse soltanto dei centri non governativi, nei quali i nostri “servizi segreti” hanno permesso di fare luce. Peccato che le persone siano rimaste nella quasi totalità dove si trovavano, nelle mani degli stessi aguzzini che in qualche caso si sono trasformati in guardie di frontiera.

La condanna dell’Italia e dell’Unione Europea per concorso nei crimini contro l’umanità commessi in Libia, una condanna arrivata da parte del Tribunale permanente dei Popoli, si è basata su decine di testimonianze. Le ONG non sono solo bersagli, ma si confermano attori impegnati ogni giorno nella raccolta delle testimonianze. Sarà lunga, e si amplierà giorno dopo giorno, la lista dei testimoni che potranno documentare in qualunque sede quelli che sono stati gli effetti reali degli accordi tra l’Italia ed il governo di Tripoli. Su tutto questo sta già indagando la Corte penale internazionale, ci vorranno anni, ma si arriverà alla sanzione dei responsabili.

Tra le altre testimonianze pubblichiamo adesso il contributo della nostra amica Cornelia Toelgyes, di Africa ExPress

Libia, ecco come si vive (e si muore) nei centri di detenzione libici

Tripoli, 4 maggio 2018

Provengono tutti dal Corno d’Africa, da due nostre ex colonie. Sono trecentonovanta eritrei e centoquarantuno somali che dallo scorso ottobre sono stipati nel centro di detenzione a Gharyan, a poco meno di cento chilometri da Tripoli. Sono allo stremo dopo tanti mesi di prigionia in questo luogo squallido, dove cibo e acqua vengono distribuiti con il contagocce. Le condizioni igieniche del centro sono più che precarie.

Eppure queste persone si trovano in un luogo controllato dal governo libico, dunque “dovrebbe” dare certe garanzie, ma la stessa delegazione libica ha ammesso durante il vertice di Niamey, la capitale del Niger, che alcuni addetti alla sicurezza e responsabili di campi di detenzione per migranti sono compresi nell’elenco di persone verso le quali sono stati spiccati mandati d’arresto all’inizio di marzo, perchè implicati nel traffico di esseri umani.

I disperati di Gharyan, che hanno perso la fiducia in se stessi, distrutti nel fisico e nell’anima, oltre un mese fa hanno scritto una lettera all’UNHCR a Ginevra, chiedendo di essere evacuati quanto prima con i corridoi umanitari, come è successo ad altri profughi, detenuti insieme a loro. Fino ad oggi non hanno ricevuto risposta. Intanto continuano a marcire in questa lurida galera libica, abbandonata anche dagli operatori delle organizzazioni umanitarie che da tempo non l’hanno più visitata.

Lo stringer di Africa ExPress è in costante contatto con i congiunti di questi poveracci, ma anche direttamente con alcuni detenuti, che lo aggiornano regolarmente di quello che succede nel centro di detenzione di Gharyan. Di nascosto sono riusciti ad inviare qualche scatto rubato con difficoltà che pubblichiamo in esclusiva.

Alla fine di marzo un giovane detenuto, ormai disperato si è suicidato. Altri cinque sono morti di stenti e da settimane non si hanno più notizie di tre loro compagni. Si crede siano morti e fatti sparire.

La situazione dei migranti nel Paese arabo è drammatica, eppure l’Italia, con l’aiuto della Guardia costiera libica continua effettuare respingimenti, pur di arginare il flusso migratorio verso le nostre coste. A questo proposito, secondo quanto riportato dai giornali locali, Valter Girardelli, capo di Stato maggiore della Marina militare italiana, si è recato a Tripoli una decina di giorni fa, dove ha incontrato il suo omologo Salim Erhouma. Durante i colloqui si è discusso del sostegno italiano alla Libia, del monitoraggio delle imbarcazioni, con particolare attenzione all’immigrazione illegale.

La Guardia costiera libica ha effettuato molti interventi in questi primi mesi dell’anno, bloccando centinaia di persone in fuga e riportandole indietro nei centri di detenzione della Tripolitania. Molti di questi disgraziati stanno morendo di stenti, nel cinico silenzio della comunità internazionale.

Fulvio Vassallo Paleologo

da Adif