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Educare all’obbedienza: la conformità nella scuola, nel lavoro e nella vita

Nell’esprimere la mia piena solidarietà ad Antonio Mazzeo, mi preme sottolineare alcuni aspetti che la vicenda del procedimento disciplinare contro di lui intentato, per le critiche espresse sulla presenza dell’esercito ad eventi “educativi” organizzati per ragazze e ragazzi della scuola d’obbligo, mi pare portino alla luce. Già il collega Pietro Saitta, qualche giorno fa, ha ragionato, con la consueta lucidità, intorno ad alcune generali implicazioni storico-sociali della vicenda. Qui vorrei invece soffermarmi su alcuni effetti, per così dire “governamentali” (ossia, con Michel Foucault, un insieme di pratiche, istituzioni, tattiche anche minute attraverso le quali attuare “il governo dei viventi” e il controllo quotidiano dei corpi e delle loro funzioni vitali) che inevitabilmente conseguono da vicende che, come questa, prevedono la proposta di una sanzione nei confronti di un docente che esprime apertamente il proprio dissenso politico, etico e intellettuale da un certo modello di scuola.

Penso, in primo luogo, alla quantità e alla qualità di lavoro, anche emozionale, che la produzione di un procedimento disciplinare comporta. Perché esso possa essere proposto, infatti, occorre mettere su una precisa istruttoria: stabilire eventi, fissare atti, raccogliere dichiarazioni, cercare testimonianze, trascriverle, redigere un testo formale attraverso il quale imbastire un’accusa credibile, e preparasi a sostenerla. Con un minimo sforzo ironico e una leggera torsione caricaturale non è difficile – anche se in vero molto triste – immaginare colleghi che ascoltano, prendono segretamente nota, pronti a riferire ai propri dirigenti i quali, dal canto loro, scorrono allarmati urticanti pagine facebook, leggono con acribia locali quotidiani on line, cercano tracce indiziarie del “delitto” commesso. Di converso, però, tutto questo significa per “l’accusato” ricevere e leggere il capo d’accusa, chiedere un accesso agli atti, cercarsi un difensore, preparasi e sottoporsi ad un giudizio.

Quanto sforzo fisico, mentale, morale è necessario per produrre e sostenere un’accusa che possa portare alla “condanna” di un punto di vista critico, alternativo, che qualcuno ritiene invece lesivo della dignità di una istituzione pubblica? Io penso sia profondamente errato, intellettualmente ingiusto, costituzionalmente illegittimo e strumentalmente inefficace accusare un docente (di qualsiasi scuola di qualsiasi grado, dalla materna all’università) per le idee politiche che esprime, anche e soprattutto quando lo fa in riferimento all’istituzione presso la quale svolge il proprio lavoro. Però, anche se qualcuno non la pensasse così, ritenendo invece che certe idee critiche possano in qualche modo intaccare l’immagine di una istituzione, dovrebbe pur sempre ammettere il dato, irrefutabile e inquietante ad un tempo, dello spreco di energie mentali e di risorse intellettuali che una simile attitudine “sicuritaria” (volta cioè a salvaguardare la sicurezza, la purezza, la dignità, l’onore di una istituzione, a definire confini e a tracciare linee di inclusione/esclusione) comporta. Davvero noi che insegniamo non riusciamo a trovare modi più consoni e intelligenti di impegnare il nostro tempo lavorativo e quello emozional-educativo dei nostri studenti?

Il fatto è – ci dice Saitta – che negli scenari morali del tardo capitalismo neoliberista, siamo tornati a un modello di scuola e di educazione che deve (ri)educare all’obbedienza, all’osservanza, alla gerarchia e all’ordine: un modello prussiano. Vero, ma a me qui interessa riflettere non tanto sulle conseguenze “pedagogiche” che questo modello produce sui nostri figli, quanto piuttosto sugli effetti “governamentali” che esso ha sui corpi e le menti di noi docenti e sull’economia morale all’interno della quale il nostro corpo docente, sempre più dolente e inascoltato, finisce per vivere e lavorare. Che effetto fa insegnare (ancora una volta dalla materna telecamerizzata all’elementare del “tutti in fila per tre”, dalla media dell’alzabandiera alle superiori da accorciare e da accoppiare precocemente al lavoro, fino all’università dell’audit estremo e del continuo riesame) in un ambiente di lavoro trasformato in una sorta di macchina inquisitoriale? Come ci trasforma? Come trasforma il nostro modo di insegnare e ricercare?

Come tutte le macchine inquisitoriali a scopo punitivo/repressivo, come la macchina della kafkiana colonia penale, anche quella della “buona scuola” dirigista, verticale e repressiva e/o dell’università azienda, condotta con audace piglio manageriale e incorporata attitudine particolaristica, imprime i propri effetti sui (nostri) corpi. Intanto ci trasforma tutti in potenziali “inquisitori” e in possibili “inquisiti” (quanti sono i colleghi indisciplinati e inosservanti sottoposti a procedimento disciplinare per questioni ideali e “politiche” nelle nostre scuole, cittadine, regionali e nazionali?). Produce (una simile macchina) “accusatori” e “accusati”, “giudici” e potenziali “colpevoli”, “confessioni e accuse”, come ricordava anni fa un importante lavoro storico-antropologico sulla stregoneria. Pensate all’effetto disgregante di un corpo sociale, come è il corpo docente (di un singolo istituto, di una sola università, di una intera nazione), e all’effetto sui corpi reali di persone reali che deriva dallo scoprire che ciò che hai detto o solo adombrato credendo di parlare ad un collega si (possa) trasformare in una confessione “estorta” e in una “accusa” riportata nelle lettere di una burocratica relazione dirigenziale.

In effetti mi sembra proprio questo – disgregare un corpo, dei corpi, una classe, tutte le classi, un consiglio, tutti i consigli (da quelli di classe a quelli di istituto, da quelli dipartimentali a quelli, già de tempo smembrati dalla feroce logica del capitale, di fabbrica) – uno degli obiettivi “governamentali” di istituzioni “securitarie” nelle quali, alcuni consapevolmente, inconsapevolmente e ottusamente i più,  vogliono si trasformino anche i nostri spazi educativi. Ma non il solo, né il più facile da realizzare, né il più perverso.

Peggiore – perché molto più facile da ottenere, e spesso ottenuta solo attraverso la semplice possibilità che la macchina inquisitoriale si attivi: bastano pochi casi esemplari per ottenere un effetto duraturo – è la costruzione di un ambiente nel quale prevalga l’acquiescenza, l’abitudine incorporata a non dissentire, l’incapacità a non adeguarsi. Penso ai miei Consigli dipartimentali nei quali le poche, solite, voci indisciplinate e poco propense a farsi disciplinare, sempre più isolate, vengono accolte con sorrisetti beffardi o ammiccanti al potere, con scrollate di spalle e occhiatacce seccate, rivolte con moto pendolare a te che parli e all’orologio che scorre: l’ “inability not to follow” (l’incapacità a, e la presunta impossibilità di, non essere consenzienti) si è oramai impossessata anche di quegli spazi intellettuali all’interno dei quali dovrebbero elaborarsi, e potersi trasmettere, sapere critico e nuove visioni del mondo. Pensate alla rabbia che si prova quando, a partita conclusa, a Consiglio sciolto, vengono da te per dirti “car* sono proprio d’accordo con te, ma sai … e poi chi te lo fa fare?”

Chi ve lo fa fare Antonio e Pietro? Chi ce lo fa fare? Il sistema si è impallato, lo hanno fatto esplodere, lo abbiamo fatto esplodere, bloccato da pressioni “schismogenetiche” e negative: volte, cioè, alla dissoluzione del sociale. Una critica, in spazi veri di partecipazione e, soprattutto, in ambienti preposti alla formazione delle giovani generazioni, andrebbe condivisa, rilanciata, argomentata e poi magari distrutta e criticata; mai censurata e, soprattutto, mai uccisa con il silenzio. Ecco l’errore commesso qui e questa volta: sperare che le cose passassero inosservate e inosservate continuassero a governare i corpi e le menti di supposti soggetti al potere. Nelle sue dimensioni microfisiche e molecolari ogni costrizione del potere produce, però, taluni effetti inaspettati: resistenze le chiamerebbe Saitta, “ignoranzietà” la chiamavano i miei compagni di boccette in giovanili bar della periferia ciociara. Resistenze e durezze oppositive che non sono, certo, aggregazione e nemmeno coscienza (di classe), ma pratiche quotidiane che ci consentono ancora di recuperare, lottando, spazi e forme di vita.

Per questo, un grazie ad Antonio, a Pietro, a tutt* quelli* che stanno alimentando questo dibattito e a tutte le resistenti/i resistenti nelle scuole di ogni ordine e grado.

Berardino Palumbo

Berardino Palumbo (PhD Sapienza – Università di Roma) è Professore ordinario di Antropologia Sociale nel Dipartimento COSPECS dell’Università di Messina.
Ha svolto ricerche etnografiche in Ghana e in Italia (Campania e Sicilia). Tra i suoi interessi più recenti l’analisi dei processi di patrimonializzazione, delle politiche di oggettivazione culturale, dei rapporti tra patrimonializzazione e governance neoliberista, i rapporti tra mafia, necropolitiche ed economie neoliberiste, l’antropologia delle istituzioni e dello Stato nazione.
Oltre a cinque monografie (Madre-Madrina, Angeli 1991, Identità nel tempo, Argo 1997, L’UNESCO e il Campanile, Meltemi 2003, Politiche dell’inquietudine, Le Lettere 2009, Lo strabismo della DEA, Palermo 2018), ha pubblicato su riviste internazionali (Comparative Studies in Society and History, Journal of Modern Italian Studies, Ethnology, Terrain, Anthropological Quarterly, History and Anthropology) e sulle principali riviste nazionali.