Lunedì l’anniversario dell’assassinio di Valerio Verbano, giovane autonomo romano. Oggi (sab 20 feb) un corteo lo ha ricordato. Carla Verbano aspetta ancora giustizia.
Il divano dove è stato ammazzato Valerio è ancora al suo posto. Nulla, o pochissimo, è cambiato nella casa al quarto piano di Via Monte Bianco. Carla Zappelli Verbano non se n’è mai voluta andare. A quella porta trent’anni fa, il 22 febbraio 1980, bussò un commando di tre persone e ad aprire fu lei. Erano venuti ad uccidere suo figlio Valerio, 19 anni, uno studente del liceo Archimede, un compagno, un militante nell’area dell’autonomia. «Non si preoccupi, gli dobbiamo solo fare qualche domanda», le dicevano mentre legavano e imbavagliavano lei e il marito. Li sequestrarono per un’ora. Nelle orecchie di Carla rimane il ricordo di una lotta feroce. Valerio cercò di difendersi in tutti i modi. Gli spararono un colpo alla nuca. Un’esecuzione in piena regola, unica nel suo genere nonostante il clima degli anni di piombo.
Perché è rimasta qui?
Perché dovrei andarmene? Questa è la mia casa, in questa stanza è morto Valerio, proprio dove c’è quel gattino di peluche. Oggi ho messo lì davanti anche le orchidee che questa mattina (ieri, ndr) mi ha donato una delegazione del liceo Archimede, che è venuta alla consegna del premio dedicato a Valerio istituito dalla provincia di Roma. Nell’altra stanza, nell’88, è morto mio marito. Quando mi sveglio dò loro il buongiorno, prima di andare a dormire la buona notte.
Lei in questi anni ha letto carte processuali, verbali, ha cercato personaggi dell’epoca, si è trasformata in un’investigatrice. Da quanto dura questa ricerca?
In realtà da pochissimo. Tutto è riscoppiato nel 2005. Mi chiamò l’Ansa per chiedermi un parere sul fatto che uno dei Mattei chiedeva giustizia per i suoi due fratelli uccisi (nel rogo di Primavalle del ’73, ndr). Dissi che ne aveva tutto il diritto. Da quella dichiarazione sono partite molte cose. In me si è riaccesa la volontà di sapere, di capire.
Perché non prima?
Veramente non lo so. Per tanti motivi, in parte anche perché mio marito era un tipo molto schivo.
Siete stati lasciati soli, isolati?
Sì, devo dire di sì. Ovviamente non dagli amici di Valerio. Ma intorno a noi subito dopo l’assassinio fu il vuoto, non ci inviarono neanche uno psicologo. Per capire il clima: ci invitarono alla cerimonia per le Fosse Ardeatine. C’era il presidente della Repubblica Sandro Pertini. Mio marito aveva una stima immensa per lui. Alla fine della cerimonia ci portarono sul palco. E lui ci voltò le spalle e se ne andò. Non ci volle salutare. Ricordo ancora la faccia di mio marito. Sono cose dolorosissime, che ti fanno chiudere.
Lei invece ha sempre tenuto a non fare distinzioni tra le vittime.
Mi sento vicina a tutte le famiglie che hanno avuto un dolore come il mio.
Non teme di contribuire alla retorica della «pacificazione»?
No, sono sicura di quello che dico: un conto sono le vittime, un conto sono i carnefici e le precise responsabilità. Io faccio una distinzione molto netta tra l’area di destra e l’area di sinistra. So chi sono i fascisti, e non mi sono mai piaciuti. È una vecchia polemica tra me e l’attuale sindaco di Roma Gianni Alemanno. Lui farà delle cose importanti per Valerio, come dedicargli una strada e correggere la targa inaugurata da Veltroni nel 2006 al parco delle Valli, aggiungendo la parola «politica» dopo «vittima della violenza». Ma io mi ricordo di lui quando era un attivista di destra a Talenti. Quindi gli ho detto: ho il massimo rispetto per lei come istituzione. Ha capito benissimo cosa volevo dire.
L’anno scorso ha voluto incontrare anche gli ex leader dei Nar Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Com’è andata?
Sono venuti qui con la figlia, davanti a cui parlavano del loro passato come se nulla fosse. Sono rimasta sbalordita. Ma rispetto all’omicidio di Valerio dicono di non sapere nulla, che non è nel loro «stile». Hanno addirittura tirato in ballo la banda della Magliana, a cui si attribuisce di tutto ormai.
Che impressione ha avuto?
Fioravanti mi fa ribrezzo. E mentiva. Lui sa. Mio marito era convinto che facesse parte del commando. L’identikit fatto la sera stessa dell’omicidio da un nostro vicino di casa che vide scappare i tre era molto simile all’aspetto di Fioravanti.
Anche quella della testimonianza del vicino, un’altra storia strana…
La sera ci telefonò per dirci che aveva ritrattato tutto perché lo avevano minacciato. Quell’uomo era un impiegato del ministero dell’Interno come mio marito, lo sono tutti in questo palazzo che era del Viminale e poi è passato alla regione. Questionava sempre con Sardo, che era iscritto alla Cgil: «Ci devono far riscattare questa casa. Perché voi del sindacato non fate niente?». Guarda caso, neanche un mese dopo si trasferì con la famiglia in una bella casa sulla Cassia o sulla Flaminia. Io credo che qualcuno lo abbia pagato perché stesse zitto.
Ma forse il mistero più grande è quello del dossier…
Secondo me e mio marito è quello il movente dell’omicidio. Valerio indagava sulla destra eversiva e sui suoi rapporti con pezzi dello Stato. Lo sapevano tutti: quando fu arrestato un anno prima di morire gli fu sequestrato il dossier, e lo dissero in tv. Non so cosa contenesse, ma quando lo portarono via da qui era un grosso pacco di fogli, quando arrivò in mano al pm Amato (che fu ucciso pochi mesi dopo Valerio, ndr) era ridotto a una cartellina. È ancora lì, in Procura. Dicono che le foto annesse sono tutte sfocate. Strano: quando le vidi io erano nitidissime. Ma non è l’unica cosa inspiegabile. Io ancora non capisco come sia stato possibile che qualcuno abbia deciso di distruggere tutti i reperti: i due passamontagna, lo scotch, la pistola. Con i sistemi di oggi si sarebbe forse potuto trovare una traccia di dna, qualcosa..
Di fronte a questa montagna di incongruenze, sospetti depistaggi, come può ancora sperare di sapere?
Perché spero che qualcuno si penta. Che qualcuno voglia venire qui a dirmi la verità.
Perdonerebbe?
No, quello non posso farlo.
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