Serve ancora l’antifascismo? E soprattutto: è ancora vivo? Attraversa i nostri giorni e i nostri pensieri apportando senso e indicazioni di rotta? O è davvero un’ideologia perduta, come dicono i suoi avversari; una retorica in disarmo, come osservano molti critici? Potremmo dire, citando un famoso detto cinese, che l’antifascismo sta vivendo tempi interessanti, nel pieno di una tempesta che ne minaccia la sopravvivenza, per alcuni già avvenuta; tempi che possono però consentire di rimettere a fuoco non tanto l’antifascismo che abbiamo finora conosciuto, quanto la possibilità di trarre dai cruciali anni della resistenza e della guerra civile nuove fonti di ispirazione etica e politica. È la scommessa dei nostri giorni, la via d’uscita possibile da un’eclissi fin toppo annunciata.
Correva l’anno 2004 quando Sergio Luzzatto nel libretto Crisi dell’antifascismo (Einaudi 2004), parlava di una crisi legata alla fine delle ideologie e quindi al radicale mutamento del contesto politico generale. Oggi – come rileva Lisa Lanzone (Neofascisti per moda, antifascisti per retorica), citando il libro di Christian Raimo, Ho 16 anni e sono fascista (Piemme 2018) – assistiamo a un fenomeno nuovo, il fascismo come moda, soprattutto fra i giovani; un fascismo, pare, destoricizzato, fatto proprio dai giovanissimi attraverso simboli, slogan e parole d’ordine, senza una reale conoscenza di quel che fu il Ventennio, con l’abrogazione della democrazia, la guerra permanente fino al disastro del ’43 e tutto il resto. In parallelo, la crisi dell’antifascismo non è risolta, tutt’altro. L’antifascismo, nel discorso corrente, rischia d’essere relegato all’ambito nobile ma in fondo sterile della memoria, intesa come una lodevole pratica civile e culturale affidata a specialisti singoli e organizzati (in testa la vecchia e indebolita ANPI), curatori di una ritualità sempre più lontana dal sentire comune.
1. Neofascismo e postfascismo
La diagnosi sembra dunque infausta: cresce il fascismo fra i giovani, sia pure come moda, mentre invecchia e si affievolisce la forza morale e politica dell’antifascismo. Il quadro dev’essere però allargato. I movimenti esplicitamente neofascisti – in Italia gruppi come Forza Nuova e Casa Pound, in altre parti d’Europa organizzazioni e partiti anche molto più grandi – non esauriscono il campo segnato dall’onda nera che si sta abbattendo sul continente. Non sempre il ritorno dell’ideologia e della prassi che chiamiamo fascismo si accompagna al recupero di labari, motti e riferimenti storici agli anni Venti e Trenta. C’è un fascismo sostanziale, fatto di comportamenti e visioni del mondo, che lo storico Enzo Traverso (nel libro I nuovi volti del fascismo) chiama utilmente «postfascismo», con l’intento di descrivere «un fenomeno transitorio, in trasformazione, non ancora cristallizzato», un fenomeno che si aggiunge al neofascismo vero e proprio.
Parliamo di un brodo di coltura alimentato dalla crisi finanziaria esplosa dal 2008 e dall’arretramento delle democrazie di fronte allo strapotere delle tecnocrazie globali, per lo più finanziarie; dello smarrimento politico delle classi popolari e della crescita di rancore nelle classi medie impoverite. È un brodo di coltura nel quale crescono sentimenti xenofobi e immaginari recuperi di identità nazionali – pelle bianca e coesione patriottica – di sapore ottocentesco, pre-globalizzazione. Umberto Eco, in una conferenza negli Stati Uniti del ’95 pubblicata di recente, parlava di «Fascismo eterno» (titolo del libretto pubblicato da La nave di Teseo, 2018), spiegando che il fascismo è un’ideologia fuzzy, tutt’altro che monolitica, capace anzi di adattarsi alle circostanze.
Siamo dunque di fronte a un doppio fenomeno: al recupero esplicito, spesso esibito della tradizione storica fascista, si somma il ritorno, sotto nuove spoglie, al limite afasciste se non antifasciste, di un modello di società che riprende e aggiorna alcuni elementi tipici della destra novecentesca: il nazionalismo, sotto forma di insofferenza per l’Unione europea e per l’immigrazione; il culto del capo; la cura di un’identità collettiva idealizzata; un contraddittorio afflato anticapitalistico e autarchico; l’islamofobia e l’antiziganismo, con l’antisemitismo al momento mitigato da una certa simpatia per l’estrema destra al potere in Israele; l’autoritarismo, magari da conciliare con assetti istituzionali di democrazia formale.
È questa l’onda che sta investendo il continente e che sembra cogliere lo spirito dei tempi, annunciando radicali trasformazioni nelle democrazie europee.
2. Cambio di passo
Qual è allora, in simile contesto, la funzione dell’antifascismo? Quale il suo spazio, se uno spazio ancora c’è? Per abbozzare una possibile risposta possiamo partire da una delle cerimonie che ogni anno si tengono nei luoghi sacri della memoria, da Sant’Anna di Stazzema, in Toscana, luogo simbolo, con Monte Sole, della “guerra ai civili” scatenata dall’esercito tedesco in ritirata nella tragica estate del ’44 (oltre 400 persone trucidate, per lo più donne e bambini, in un’operazione tipicamente “eliminazionista”). L’orazione ufficiale, il 12 agosto 2017, fu affidata a un parlamentare piuttosto in vista della maggioranza di centrosinistra (non importa menzionarlo, data la tipicità del suo intervento, simile a quelli ascoltati negli anni precedenti e a quello che presumibilmente ascolteremo quest’anno). L’oratore incentrò il suo discorso sull’attualità dell’antifascismo, da non relegare dunque negli archivi della memoria come qualcuno vorrebbe, adducendo come dimostrazione del suo dire la cosiddetta legge Fiano, in quel momento all’esame del Parlamento. La legge Fiano, com’è noto, prevedeva di punire l’uso dei simboli del fascismo – bandiere, loghi ma anche gesti come il saluto romano – al fine di contrastare quella “moda” di cui parla Raimo nel suo libro. La legge che prendeva il nome dal deputato Emanuele Fiano, figlio di Nedo, sopravvissuto ad Auschwitz, è stata criticata da parte del mondo antifascista perché giudicata superflua, viste le normative già esistenti (per quanto poco applicate), ma non è questo il punto.
Il punto è che il parlamentare in questione svolgeva a Sant’Anna di Stazzema il suo “discorso antifascista” mentre nel Mediterraneo era in corso la campagna contro le navi delle ONG e mentre si stringevano accordi con le cosiddette “autorità libiche”, incaricate di fermare in qualche modo (in realtà sappiamo in quale modo) i cosiddetti “flussi di migranti”. Parlava, quell’oratore, mentre l’Europa intera chiudeva (e chiude) le sue frontiere esterne, mentre si combatteva in Siria la guerra più sporca degli ultimi decenni, mentre il Parlamento lasciava cadere la possibilità di approvare una legge di minima civiltà sullo “jus soli”. Potremmo allargare il quadro, ma quanto detto è sufficiente e ci consente di immaginare un altro antifascismo, meno formale e più attento all’aura del luogo, un minuscolo paese annientato dalla “grande storia” con tutti i suoi abitanti.
Proviamo a immaginare un 12 agosto a Sant’Anna di Stazzema gestito in altro modo. Mettiamo di avere come obiettivo la massima connessione col tempo presente, il desiderio di stabilire una relazione stretta fra il messaggio che ci trasmette la memoria della strage e quanto avviene attorno a noi. Chi sarebbe l’oratore principale della commemorazione? Quest’anno, forse, un esponente di Open Arms, o meglio ancora uno dei naufraghi tratti in salvo nel Mediterraneo nonostante gli ostacoli frapposti dal nostro governo. Entrambi – il volontario sulla nave come il naufrago – semplicemente raccontando per intero la propria esperienza e i propri pensieri, riuscirebbero a renderci coscienti che quanto avvenuto a Sant’Anna di Stazzema non è stata un’eccezione, bensì la regola, perché la guerra, ogni guerra, è soprattutto una guerra ai civili, sull’Appennino toscano nel ’44 come oggi nelle città della Siria, in Afghanistan, in Yemen e così via. Forse ci direbbero, entrambi gli oratori, che la cura e l’accoglienza del fuggiasco è ciò che rende un Paese libero e civile; farebbero forse notare che i 400 morti di Sant’Anna di Stazzema erano per lo più fuggiaschi, all’epoca si diceva sfollati, saliti in montagna per sfuggire ai combattimenti.
Non parlerebbero quegli oratori di una legge contro i simboli del fascismo ma forse chiederebbero di opporsi, in nome di chi perì nella guerra ai civili, a chi oggi vuole chiudere i porti, ignorando le leggi del mare e il principio di empatia e di umanità, unico valore positivo che scaturisce per contrasto al pensiero dei corpi sepolti a Sant’Anna; forse chiamerebbero a una resistenza civile per mantenere vive quelle parti della nostra Costituzione (e della nostra idea di democrazia) che affermano il principio di uguaglianza fra le persone, oggi messo in discussione da chi teorizza l’esistenza di barriere insormontabili fra cittadini residenti e stranieri, o anche fra “veri profughi” in fuga da Paesi in guerra e “profughi economici” da rispedire nei Paesi di origine.
È solo un esempio e altri potremmo farne. Il succo è che il periodo che va dal ’43 al ’45 è davvero all’origine nella nostra società democratica, ne è il fondo morale e psicologico in un modo che non abbiamo ancora esplorato fino in fondo. È compito di un nuovo antifascismo, di un antifascismo vivo, rompere quella guaina di retorica e di specialismo che sta soffocando l’enorme potenziale politico e culturale della memoria dell’antifascismo, una memoria da declinare al plurale, perché molte furono le forme di resistenza civile e di resilienza popolare (senza le quali, peraltro, non sarebbe esistito nemmeno il movimento partigiano in armi).
Piero Calamandrei, in un famoso discorso a un gruppo di studenti milanesi, disse, nel 1955, che la Costituzione «non è una carta morta, è un testamento, è un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati». Potremmo seguire, ampliare e aggiornare questa esortazione e immaginare un tour della memoria che oltre a Sant’Anna di Stazzema tocchi luoghi noti come Monte Sole, sede del più vasto eccidio compiuto in Italia, ma anche altri meno conosciuti e però altrettanto importanti per l’esempio che offrono e il messaggio che inviano a chi vive i tempi nostri.
3. E se ci mettessimo in marcia?
A Monte Sole, in un’ideale marcia del nuovo antifascismo, potremmo dare la parola a un “minore non accompagnato” arrivato da noi negli scorsi anni, magari a Lampedusa, e poi rimasto a vivere in Italia: sarebbe un modo per ricordare a noi stessi quando i “minori non accompagnati” eravamo noi, bambini – erano migliaia – sopravvissuti ai propri genitori falciati al fronte o periti sotto le bombe e nelle stragi. Quegli orfani, quei bambini traumatizzati, nel dopoguerra trovarono un’Italia che si riconosceva in loro e garantiva aiuto e soprattutto opportunità, a cominciare dalla scuola. Sono i bambini che hanno rifondato moralmente il nostro Paese. Era un’Italia, quella, dotata di una forza morale oggi in apparenza inarrivabile, ma si trattava pur sempre dei nostri genitori, nonni e bisnonni: in loro possiamo specchiarci, da loro possiamo trarre ispirazione, mentre il vento della storia vorrebbe chiuderci in un tetro egoismo di massa.
La nostra marcia farebbe tappa a Tossicia e Agnone, nel centro Italia, luoghi di detenzione dedicati a rom e sinti, finiti come gli ebrei nel buco nero delle leggi razziste. Erano campi di prigionia dei quali abbiamo perduto memoria e che dovremmo invece tenere presenti mentre si parla di “ruspe”, di “rom di passaporto italiano che purtroppo ci dobbiamo tenere”, di “popolazioni parassite”. Liliana Segre, ebrea scampata ad Auschwitz e senatrice a vita, nel suo intervento parlamentare durante l’insediamento del governo Conte ha messo in parallelo le leggi razziste del ’38 e certi propositi dei giorni nostri; lo stesso ha fatto, un paio di mesi più tardi, il presidente Sergio Mattarella. Tossicia e Agnone non sono parenti poveri della memoria della resistenza, bensì luoghi simbolo della nostra storia, luoghi che ci aiutano a pensare e a capire quel che avviene attorno a noi.
Dovremmo poi raggiungere, con la nostra marcia, le montagne sopra il lago di Como che separano l’Italia dalla Svizzera. Attraverso i diversi valichi, a piedi e di nascosto, con l’aiuto di gente del luogo (non erano partigiani, ma certamente resistenti), cittadini ebrei e militanti politici riuscirono a sfuggire all’arresto. Molti di loro furono aiutati nell’espatrio clandestino da finanzieri e guardie di frontiera – oggi pressoché dimenticati anche nella memorialistica – che disobbedirono agli ordini e ai compiti istituzionali. Anche loro non erano partigiani, ma seppero dire no e agire secondo giustizia, una giustizia più importante degli obblighi formali. Quei passeur, quei funzionari dello Stato disobbedienti sono i padri putativi dei moderni “solidali” che lungo le frontiere con la Francia, da Ventimiglia a Bardonecchia, aiutano gente sbarcata in Italia dall’Africa a passare oltre confine per raggiungere familiari e conoscenti, nonostante gli impedimenti normativi. Cédric Herrou, contadino e attivista provenzale più volte processato, è l’uomo simbolo di un movimento di disobbedienza civile che sta contrastando uno degli esiti più rivoltanti della campagna xenofoba in corso in Europa: l’istituzione del reato di solidarietà. Ecco una nuova linea di resistenza attiva.
Potremmo poi salire sopra un traghetto e raggiungere con la nostra marcia l’isola di Ustica, per visitare il “cimitero degli arabi”, dove sono sepolti molti partigiani libici deportati e morti nell’isola al tempo dell’occupazione italiana del Paese. È un’altra pagina misconosciuta della nostra storia e tuttavia decisiva per comprendere il nostro tempo. Quando parliamo della Libia e degli accordi che stiamo stringendo con le milizie e i governi del posto, quando vediamo cittadini eritrei e somali raggiungere Pozzallo o Lampedusa, avremmo l’obbligo di pensare al nostro recente passato, a quando eravamo colonialisti, alle nostre responsabilità verso la storia. Le migrazioni che ci coinvolgono hanno uno spessore storico e politico che il nostro Paese vorrebbe ignorare, perché troppo scomodo, troppo imbarazzante: meglio un generico “non possiamo accogliere tutti”, uno sbrigativo “prima gli italiani”. Potremmo affidare l’orazione ufficiale in una cerimonia del ricordo di questo pezzo dimenticato di resistenza e di antifascismo a un “nuovo italiano” proveniente dalle vecchie colonie.
4. Le molte Resistenze
Non serve, a questo punto, insistere oltre e indicare altre possibili tappe della nostra ipotetica marcia del nuovo antifascismo: l’idea è già chiara. Si tratta di compiere una doppia manovra. Da un lato occorre allargare lo sguardo alle diverse forme di resistenza attuate dalla popolazione italiana nel periodo 1943-45: Ercole Ongaro, nel libro Resistenza nonviolenta 1943-45 (Libri di Emil, 2013), ne ha individuate addirittura dieci. È un’operazione importante perché aggiunge all’epica della lotta partigiana – eroica e memorabile e però lontana dalla nostra vita attuale – l’esempio di azioni concrete, dal basso, compiute da persone comuni nel proprio orizzonte quotidiano. Chi aiutava i renitenti alla leva o i soldati alleati sbandati; chi nascondeva cittadini ebrei braccati a rischio di deportazione; le suore di servizio in carcere che garantivano il passaggio di informazioni fra i detenuti politici e le formazioni clandestine; gli operai che scioperavano nelle fabbriche del Nord Italia a guerra in corso; le donne che a Carrara scendevano in piazza per contestare l’ordine di sfollamento; i passeur lungo il confine; gli stessi politici antifascisti che si riunivano in un CLN mettendo da parte le divisioni ideologiche erano tutti resistenti e resilienti senza essere eroi, senza imbracciare il fucile. Ci hanno lasciato un esempio di antifascismo vivo: dire no e agire subito, concretamente, in direzione della giustizia, anche con piccoli ma significativi gesti.
La seconda operazione necessaria per superare l’attuale crisi, è la liberazione dell’antifascismo dall’ambito in cui oggi è relegato, in una sorta di militanza specialistica, riservata ai “vecchi” dell’ANPI e ai giovani del movimento “Antifa”, gli uni e gli altri cultori della lotta partigiana e custodi di quella memoria, oltre che attivi nella denuncia quotidiana dei nuovi fascismi. Tutto bene, ma il declino dell’antifascismo nel sentire comune della gente sarà fermato solo se l’enorme patrimonio etico e politico sedimentato fra il ’43 e il ’45 diventerà pane quotidiano, motivo di costante ispirazione, per i cittadini attivi nella società, come individui e come parte di organizzazioni.
L’eredità della resistenza, anzi delle resistenze, dev’essere insomma socializzata, compresa fino in fondo, esemplificata attraverso simboli e manifestazioni; dev’essere liberata da quella patina di retorica e di nostalgia che la ricopre; va inserita nei circuiti più vitali e meno rassegnati della società.
5. La nostra storia
Resta un ultimo dubbio. Che cosa ci spinge, alla fine dei conti, ad assegnare tanta importanza a quel biennio della storia italiana del ’900? A farne la principale fonte di ispirazione per il nostro presente?
Una possibile risposta è nella storia politica e sociale del nostro Paese per come l’ha raccontata Fabio Cusin, in un libro troppo ignorato, Antistoria d’Italia (uscito per Einaudi nel 1948, ora edito da Mondadori). Cusin rilegge la vicenda del nostro Paese, fin dal Medioevo, cogliendovi una singolare disposizione servile nella popolazione, mista alla faziosità e asocialità dei ceti dirigenti. Il fascismo, in questa chiave, è l’esito maturo di un’attitudine nazionale ed è con questa, dunque, che dobbiamo fare i conti. La capacità di dire no e agire di conseguenza, che fu dei partigiani e dei resistenti e resilienti non armati, è un caso si può dire senza precedenti nella storia del Paese: perciò a quelle persone, a quell’esperienza drammatica e straordinaria, maturata negli anni di una guerra odiosa e devastante, dobbiamo ancora guardare, con più attenzione e più partecipazione di quanto non abbiamo mai fatto.
Lorenzo Guadagnucci