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Egitto: 75 attivisti anti Al Sisi condannati a morte

La polizia massacrò 800 manifestanti ma i giudici egiziani hanno ‎condannato a morte 75 manifestanti e a ‎pesanti pene detentive oltre 600 per il lungo sit in del 2013 contro il colpo di stato dell’esercito. Cinque anni anche al noto fotoreporter “Shawkan” premiato dall’Unesco

Quattro anni dopo il massacro dei manifestanti a piazza Rabaa Adawiya al Cairo la ‎vendetta del regime è completa e senza misericordia. I giudici egiziani ieri hanno ‎condannato a morte 75 persone, tra cui alcuni leader dei Fratelli musulmani, e a ‎pesanti pene detentive oltre 600 per il lungo sit in del 2013 contro il colpo di stato ‎realizzato dalle Forze Armate, con a capo Abdel Fattah el Sisi, che il mese prima ‎aveva rovesciato il presidente islamista Mohammed Morsi. Decisi anche 47 ‎ergastoli. Uno di questi per il capo della Fratellanza, Mohammed Badie, già ‎condannato a più sentenze a vita. Gli imputati al processo in totale erano 739. Tra ‎i condannati c’è anche il fotoreporter pluripremiato – di recente anche dall’Unesco ‎‎- Mahmoud Abu Zeid, più noto come “Shawkan”, che comunque dovrebbe ‎lasciare la prigione entro pochi giorni perché la sua condanna a cinque anni di ‎carcere corrisponde al periodo di detenzione preventiva che ha già trascorso dietro ‎le sbarre‏.‏‎ In sua difesa in questi anni sono scesi i centri internazionali per i diritti ‎umani e per la liberta di stampa. Ma il regime è stato ugualmente inflessibile con ‎‎”Shawkan” accusato di far parte di un “gruppo terroristico” e di possesso di armi ‎da fuoco‏.‏‎ Accuse che il fotoreporter ha sempre negato con forza affermando di ‎aver fatto solo il suo lavoro in Rabaa Adawiya.‎

‎ Quello che si è appena concluso è stato un processo alle vittime e non agli ‎autori della strage dell’agosto 2013 di almeno 800 manifestanti riuniti in Rabaa ‎Adawiya contro il golpe. Il regime sostiene di aver affrontato in quei giorni una ‎‎”minaccia armata” e inizialmente aveva denunciato l’uccisione di 40 agenti di ‎polizia. Poi i poliziotti uccisi sono scesi a otto. Nessun membro delle forze di ‎sicurezza in ogni caso è stato condannato, e forse neppure indagato, per il ‎massacro dei civili riuniti nella piazza che el Sisi e gli altri generali golpisti ‎decisero di “evacuare” ad ogni costo. D’altronde che la magistratura egiziana sia ‎sottomessa al regime lo prova anche il brutale assassinio del giovane studente ‎italiano Giulio Regeni. Quasi due anni dopo la sua morte – attribuita un po’ da ‎tutti ad uomini dei servizi di sicurezza – si brancola nel buio, tra depistaggi e piste ‎false, con la procura egiziana che punta solo a guadagnare tempo sperando che la ‎famiglia Regeni e gli italiani rinuncino a conoscere la verità. Ciò rende una farsa il ‎recente viaggio al Cairo del vice premier pentastellato Di Maio, che in nome dei ‎buoni affari (soprattutto quelli dell’Eni) dell’Italia in Egitto, ha accolto con un ‎sorriso le poco credibili rassicurazioni date dagli egiziani sull’andamento delle ‎indagini ed rimasto colpevolmente in silenzio quando el Sisi ha pronunciato la ‎frase ‎«Giulio è uno di noi» provocando lo sdegno della famiglia Regeni. Il ‎governo M5S-Lega si è allineato a quello precedente del Pd che nel 2017 aveva ‎rimandato al Cairo il nostro ambasciatore chiudendo di fatto la crisi con il Cairo.‎

‎ Da quando è diventato presidente nel 2014 – al termine di una campagna ‎elettorale senza veri avversari – el Sisi e i suoi uomini hanno giustificato la ‎repressione con la necessità di combattere il “terrorismo”. Un pretesto usato per ‎colpire ogni voce non allineata. La scure del regime sì è abbattuta senza pietà ‎soprattutto sui Fratelli Musulmani ma anche sugli oppositori laici, di sinistra, su ‎stampa, blogger e attivisti dei diritti umani. Persino su alcuni dei protagonisti della ‎rivolta del 2011 contro il “faraone” Hosni Mubarak. Il regime di el Sisi si è ‎dimostrato più feroce di quello di Mubarak che pure è passato alla storia per ‎trent’anni di brutalità e repressione. La differenza oggi rispetto ad allora è che ‎mentre il “faraone” era contestato da tutti gli egiziani, el Sisi invece gode del ‎sostegno di una fetta consistente dell’opinione pubblica – identificabile con quella ‎parte di popolazione che teme un ritorno al potere dei Fratelli Musulmani – e ciò ‎rende più difficile contrastare la repressione e la sistematica violazione dei diritti ‎umani. A fornire munizioni al regime è anche la situazione del Nord del Sinai ‎dove l’esercito è impegnato da anni in una sanguinosa campagna contro le ‎formazioni jihadiste che si proclamano affiliate allo Stato islamico e che sono state ‎responsabili di massacri di soldati e civili cristiani in quella parte dell’Egitto. Una ‎clima che ha contribuito ad avvicinare ulteriormente la minoranza copta (circa 9 ‎milioni di persone) al presidente egiziano e a renderlo più forte.

‎ Le ultime condanne a morte si aggiungono alle centinaia decise dai giudici ‎egiziani in questi cinque anni. Mai l’Egitto negli ultimi decenni aveva vissuto un ‎periodo così nero per il rispetto dei diritti fondamentali. Neppure ai tempi di ‎Anwar Sadat che pure colpì senza pietà personalità laiche e progressiste che ‎avevano sostenuto il suo predecessore Gamal Abdel Nasser e contestato la sua ‎svolta filo americana. ‎

Michele Giorgio

da il manifesto