Sembra che il mondo debba diventare un immenso carcere o un luogo di pistoleri, e che il modello del pianeta sia diventato Rodrigo Duterte, il presidente delle Filippine che in nome della guerra alla droga fa giustizia sommaria con numeri da stragi di massa. Qualche mese fa Trump ha fatto l’oscena proposta di armare gli insegnanti per rendere le scuole più sicure.
La versione italiana, caricaturale nell’idiozia tragica, non si è fatta attendere: è della fine del mese di agosto il varo del piano Scuole sicure, una costosa operazione propagandistica del ministro degli Interni che ha stanziato 2,5 milioni di euro per installare telecamere nelle scuole e aumentare pattugliamento e sorveglianza fuori dagli edifici scolastici da parte delle forze di polizia locale. L’obiettivo dichiarato: contrastare e prevenire lo spaccio di sostanza stupefacenti.
Le parole d’ordine: contenzione, sorveglianza e disciplinamento. Un progetto pensato da incompetenti in materia, scritto con i piedi, rivoltante nell’ideazione, del tutto inefficace negli esiti.
Ai percorsi educativi nelle scuole sono indirizzati non oltre il 5% dei fondi, ma solo su progetti approvati dal Comitato per l’ordine e la sicurezza. Per chi si occupa di scuola, è un insulto. Per chi non si occupa di scuola, è evidente che non è una questione per addetti ai lavori, ma un tema di interesse pubblico, che ha a che fare con l’impronta che vogliamo dare al nostro stare insieme, alle relazioni sociali, oltre che con la funzione e la natura dei luoghi della conoscenza.
È come se questo governo di bulli andasse rieducato prima ancora che combattuto. È come se gli andasse spiegato tutto da capo. Tutte le conclusioni ormai lapalissiane che 45 anni di intervento legislativo e sul campo hanno mostrato con un’evidenza eclatante. Dobbiamo ridire da capo che la sfida è, in primo luogo, educativa, di informazione e consapevolezza? E che oggi più che in passato si tratta di fare i conti con il policonsumo e mettere in atto strategie di riduzione del danno? Che occorre soprattutto intercettare e rispondere alle fragilità di cui le dipendenze sono epifenomeno?
È una fatica improba quella di dover ribadire le evidenze, ma andrà fatto e sarà un lavoro di lungo raggio. Ma di fronte alla direttiva Scuole sicure non c’è da discutere. Questa infame e costosa operazione di propaganda rischia di essere anche dannosa. Marchiare alcune scuole, quelle prescelte per installare telecamere o dove appostare le forze di polizia, come “insicure” può innescare meccanismi di stigma e di discredito verso quelle comunità scolastiche e il territorio in cui sono inserite.
Quello che è ovvio è che, invece, si tratta di liberare le risorse e le energie di cui le scuole sono incubatrici, di raccontarle, valorizzarle, renderle patrimonio di tutti. Si tratta non di trincerare le scuole dentro le proprie mura ma di tenerle aperte: durante il pomeriggio, il fine settimana, ben oltre e al di là delle attività strettamente curricolari, perché è popolando i quartieri della creatività e in fondo della vita che nascono nelle scuole che si possono rigenerare i territori marginali, o deprivati, o a rischio di attività criminali.
Per questo eleggere quella securitaria, repressiva e di controllo come strategia cardine di contrasto allo spaccio e alle dipendenze è pericoloso, lo capisce un ragazzino delle medie. Perché allude ad un modello armato di relazioni tra le persone, che antepone la paura per quel che c’è fuori alla possibilità di contaminare il territorio, animarlo, rigenerarlo. Le scuole sicure le fanno i ragazzi che le attraversano, i quartieri sicuri le scuole che li abitano.
da il manifesto