«In sezione un detenuto non si massacra, si massacra sotto… Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto». È il 2 novembre 2009 quando una conversazione tra due guardie penitenziarie del carcere di Castrogno (Teramo), registrata illegalmente, diventa un caso nazionale. Il caso, però, finirà con un’archiviazione per l’impossibilità di dimostrare il fatto, e anche per l’omertà registrata proprio nell’ambiente carcerario.
Pochi giorni prima, il 22 ottobre, in un letto dell’Ospedale Pertini di Roma, muore Stefano Cucchi, mentre si trova sotto custodia cautelare. Grazie alla ferma determinazione della famiglia a far luce sull’accaduto, il suo caso è noto a tutti e ha portato al rinvio a giudizio di cinque carabinieri per omicidio preterintenzionale e abuso di autorità. Uno degli imputati, nove anni dopo, durante il processo Cucchi bis, ha confessato il pestaggio accusando due colleghi. Il 24 ottobre ci sarà la prossima udienza per l’audizione di ulteriori testimoni.
Ma quanti Stefano Cucchi ci sono in Italia? In quali condizioni vivono i detenuti, di cui un terzo sono in custodia cautelare, dunque in attesa di una sentenza definitiva?
Giuseppe Uva, 43 anni, in custodia cautelare non c’è mai nemmeno arrivato. Il 14 giugno 2008 l’uomo viene fermato a Varese mentre con un amico sposta delle transenne nel quartiere di Biumo, dopo aver guardato una partita e bevuto del vino. Uva viene prima portato alla caserma dei carabinieri di via Saffi, poi finisce all’Ospedale di Circolo per un Trattamento sanitario obbligatorio. Nel frattempo, mentre si trovava anche lui in caserma, l’amico chiamava il 118, sussurrando: “Venite, stanno massacrando di botte un ragazzo”. Uva muore la mattina successiva in ospedale, dopo tre iniezioni, per un arresto cardiaco dovuto a una patologia di cui soffriva. Il caso giudiziario è controverso. Finisce il 31 maggio 2018 con i 2 carabinieri e i 6 poliziotti imputati assolti dall’accusa di omicidio e sequestro di persona con formula piena dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano. Ora resta la Cassazione.
«Il punto di questa vicenda è anche che non c’è stato nessun titolo di trattenimento, non c’è stato un arresto, a Uva non è stato fatto alcun tipo di verbale», spiega Valentina Calderone, direttrice dell’associazione A buon diritto. «Dalla Caserma nessuno ha contattato un pm e nessuno ha giustificato il trattenimento. Ci sono state più di due ore di totale vuoto di legalità che secondo la parte civile configurano un sequestro di persona».
I casi seguiti dall’associazione, che fa un lavoro di “accompagnamento istituzionale alle famiglie e advocacy”, in questi anni, dall’omicidio Aldrovandi in poi, non sono meno di cinquanta. Non esiste peraltro una statistica di casi come questi, gli elementi in gioco sono troppi: dove avviene il fatto, l’omertà dei coinvolti, la situazione personale della vittima, quali strumenti economici e culturali ha per poter affrontare un percorso che dopo la denuncia è faticosissimo.
Un altro dei casi seguiti da A buon diritto è quello di Stefano Gugliotta, picchiato durante un fermo da parte di un agente in tenuta antisommossa avvenuto la sera del 5 maggio 2010, in occasione di una finale di Coppa Italia, a Roma. Il ragazzo, senza casco alla guida del motorino, stava andando con un amico ad una festa. Dopo il pestaggio viene prima trasferito in Questura, poi a Regina Coeli dove resta una settimana con le accuse di lesioni e resistenza a pubblico ufficiale. Stefano viene prosciolto grazie a un video girato col cellulare da un abitante del palazzo di fronte al luogo dell’accaduto. I medici refertano le ferite riportate dal giovane: lividi, lesioni alla testa, un dente rotto. Il risarcimento ammonta a 40mila euro. E i 9 agenti coinvolti sono stati condannati anche in Appello per lesioni gravi e falso, a seconda delle singole posizioni.
La Casa Circondariale di Regina Coeli (Roma), quella in cui Gugliotta ha trascorso una settimana, è uno degli Istituti visitati da Antigone nel 2017. L’associazione ha visitato 86 delle 190 carceri presenti in giro per l’italia e sono ormai vent’anni che si occupa di monitorare e verificare se i diritti dei detenuti vengono assicurati e ne rende conto in un Rapporto dettagliato, arrivato alla sua 14esima edizione. Gli Istituti oggi collaborano con più trasparenza. Regina Coeli ha un tasso di sovraffollamento del 156,1 per cento. E spesso proprio il problema del sovraffollamento nelle carceri dà il via a tutta una serie di problematiche (sanitarie, igieniche, trattamentali, educative) che abbassano la soglia di garanzia dei diritti dei detenuti. A Como, nel profondo nord, il tasso è del 200 per cento, a Taranto del 190 per cento. La crescita di quasi 2.000 detenuti nel corso dell’ultimo anno, che sono passati dai 56.289 del marzo 2017 ai 58.223 del marzo 2018 in alcune carceri ha reso la situazione sempre più invivibile e tesa. Il tasso di suicidi dietro le sbarre (numero dei morti ogni 10 mila persone) è salito dall’8,3 del 2008 al 9,1 del 2017: in numeri assoluti significa passare da 46 morti del 2008 a 52 morti del 2017.
Le botte e la malasanità spesso possono incontrarsi. Il diritto alla salute, peraltro è centrale in regime penitenziario. La storia del Signor Felice (nome di fantasia) è forse la storia di molti. L’uomo affetto da gravi problemi cardiaci e di deambulazione non ha visite mediche garantite e neanche la possibilità di svolgere la fisioterapia di cui avrebbe bisogno e racconta episodi di violenza a cui avrebbe assistito nel precedente penitenziario e che hanno fortemente inciso sulla sua condizione psicologica e fisica. L’art. 1 della Legge sull’Ordinamento Penitenziario impone che il trattamento penitenziario debba essere conforme ad umanità e assicurare il rispetto della dignità della persona. Una disposizione che risulta essere violata ogni volta che le necessarie cure vengano negate o ritardate, e questo purtroppo succede, come testimoniano le diverse segnalazioni ricevute da Antigone, dai detenuti e dalle loro famiglie.
La prima volta che Antigone si costituisce parte civile in un processo penale che vede imputati cinque agenti di polizia penitenziaria per violenze commesse a danno di due detenuti, Renne e Cirino, è il 27 ottobre del 2011. La Corte europea dei diritti dell’uomo, il 26 ottobre 2017, ha riconosciuto che Renne e Cirino furono vittime di torture e di trattamenti inumani e degradanti condannando lo Stato italiano a risarcire i due ex reclusi con 80 mila euro ciascuno. Da questa esperienza, Antigone, oltre ad offrire supporto, ha iniziato ad essere presente nei processi penali accanto alle persone detenute.
«Dimostrare in udienza fatti come questi è sempre molto complicato» – spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio Antigone. «Lo era ancora di più quando non c’era il reato di tortura e i tempi di prescrizione erano piuttosto rapidi. Il reato introdotto non è quello che avevamo disegnato noi ma pensiamo sia comunque una risorsa importante». Peraltro, il detenuto che denuncia una violenza o una negligenza è spesso esposto a rischio di ritorsioni.
C’è poi un ulteriore elemento da tenere in considerazione. Le denunce che arrivano ad Antigone sono situazioni che si protraggono per tempo. «Anche se è sbagliato – spiega Scandurra – purtroppo dai detenuti un certo livello di violenza è tollerato. Ci dicono “Sono stato picchiato ingiustamente, in maniera sproporzionata”. Mai affermano “sono stato picchiato”».
Di azione punitiva di inaudita violenza parla Giuseppe Rotundo che il 13 gennaio 2011 riesce a far uscire una lettera dal carcere indirizzata al suo avvocato in cui denuncia di essere stato vittima di un pestaggio da parte di tre agenti di polizia penitenziaria. «Carissimo avvocato, – scrive Rotundo – ciò che legge è sicuramente una sporca faccenda. La prego vivamente di provvedere ad inviare qui il più presto possibile un suo collaboratore (meglio se con la macchina fotografica) affinché possa documentare le mie condizioni di salute, sono stato ridotto in uno stato pietoso, il mio volto al momento in cui le scrivo è irriconoscibile, gambe e braccia sono contuse e gonfie, ho tutto il corpo dolorante e pieno di ematomi. Sono stato ridotto in questo stato da un gruppetto di agenti di custodia (…) Il medico interno si è limitato al minimo indispensabile, è comprensibile poiché sono coscienti che hanno commesso una vera e propria spedizione punitiva di inaudita violenza (…) n.b. Metto il mittente di altro detenuto poiché ho seri motivi per ritenere che col mio nome e cognome questa lettera non giungesse a destinazione cioè a lei». Il processo si trova attualmente in fase dibattimentale davanti al Tribunale di Foggia e nasce da una riunione di due procedimenti in quanto anche i tre agenti di polizia hanno a loro volta denunciato di essere stati assaliti dal detenuto. La prossima udienza è fissata per il 25 ottobre 2018 e la prescrizione è oramai sempre più vicina.
«Gli agenti dicono di averlo portato in una cella di isolamento in seguito ad un litigio verbale e che stava benissimo, tesi che però cozza con quanto detto da testimoni importanti, che confermano di averlo visto in quelle condizioni, quasi non riconoscendolo», commenta Simona Filippi, legale di Antigone. «Inoltre, in carcere quello che denuncia in generale è l’infame. La cosa molta è molto seria, basti pensare al fatto che ci sono dei reparti specifici in cui stanno i detenuti che denunciano. Esistono ancora delle regole non scritte che tutti rispettano e che lo stesso Rotundo ha rispettato, denunciando superando quella soglia di tolleranza».
Il Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa alla fine dell’anno scorso ha reso pubblico il rapporto della sua visita compiuta in Italia ad aprile 2016. Il Cpt ha raccolto denunce di maltrattamenti, tra cui l’uso non necessario ed eccessivo della forza da parte di carabinieri, agenti di polizia, e di custodia, in praticamente tutte le strutture detentive visitate. Inoltre, secondo il Cpt, le persone in custodia cautelare non sempre beneficiano delle garanzie offerte dalla legge.
«Oggi i detenuti sono più propensi a raccontare. Noi abbiamo avuto un aumento notevole delle segnalazioni in questi anni» – spiega Scandurra. Ma questo non vuol dire per forza che ci sia stato un aumento dei casi ma «che sembra più normale denunciare e lamentarsi». Inoltre, l’istituzione del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute ha aiutato.
E proprio il Garante dei detenuti di Lazio e Umbria, Stefano Anastasia, nel mese di agosto ha presentato un esposto alla Procura di Viterbo per la morte di un 21enne, Hassan Sharaf. Il detenuto avrebbe finito di scontare la pena il 9 settembre, all’interno del carcere punitivo di Viterbo, ma il 23 luglio scorso è stato trovato impiccato nella cella di isolamento dove era stato trasferito da appena due ore. Entrato in coma, è morto il 30 luglio nell’ospedale locale di Belcolle. Suicida, secondo le autorità penitenziarie. Il terzo dall’inizio dell’anno. Il Garante, in occasione di una visita, avrebbe ascoltato quel ragazzo che aveva denunciato violenze e lesioni da parte degli agenti di Penitenziaria mostrandone i segni, tanto da chiederne un trasferimento mai arrivato. Secondo Anastasia sono almeno dieci i detenuti che hanno denunciato violenze subite in quell’Istituto.
«Questo problema in Italia esiste», conclude Scandurra. «Prova ne siano quei pochi casi che conosciamo e che generalmente riguardano abusi e violenze nei confronti di italiani, con una famiglia alle spalle. Di Stefano Cucchi ce ne sono tanti, di famiglie Cucchi purtroppo ce ne sono poche. Per ogni Stefano Cucchi ce ne sono molti che non riescono a ottenere quel livello di attenzione. Tra gli stranieri si può immaginare ce ne siano anche di più».
Francesca Mandelli