Omicidio Bianzino: Rinviato a giudizio agente polizia penitenziaria
- novembre 25, 2009
- in carcere, vittime della fini-giovanardi
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Ci sarà un processo sulla norte di Aldo Bianzino. Certo, il capo di imputazione è «monco, manca l’accusa di omicidio colposo o, almeno, l’omissione di soccorso aggravata dall’evento morte», spiega a Liberazione Paola Giovanna Lai, legale del comitato per verità e giustizia per Aldo, ammesso tra le parti civili. Tutto ciò è accaduto ieri mattina a Perugia, a 25 mesi dalla morte, ufficialmente per aneurisma, del falegname piemontese che s’era trasferito da tempo in un casale sull’appennino. Viveva con suo figlio Rudra, 14 anni, e la seconda moglie Roberta. A Perugia vivono altri due figli nati da un precedente matrimonio. Aldo lavorava, suonava il flauto rituale – seguiva una spiritualità appresa in India – e coltivava la canapa che si fumava. Questo e non altro il crimine che lo ha portato in galera, il 12 ottobre 2007, assieme a Roberta. Lei sola uscirà viva dal carcere poche ore dopo. Morirà anche Roberta, nessuno potrà dimostrare che questa storia non le ha accorciato la vita. Il processo, che inizierà il 28 giugno prossimo, riguarderà quindi la condotta omissiva di un secondino teramano, unico imputato di omissione di soccorso, omissione di atti di ufficio e falso perchè fu truccato il registro di accesso alla sezione: i controlli non erano stati svolti dalla guardia penitenziaria indicata ma da un terzo agente. Secondo il gup l’imputato, in servizio la notte tra il 13 e il 14 ottobre, avrebbe omesso di informare il medico di guardia dei lamenti di Aldo. In questi mesi, alcuni incidenti probatori (parentesi di processo nell’ambito delle indagini preliminari) hanno consentito di acquisire sia le testimonianze di detenuti che sentirono Bianzino suonare il campanello sia di altre voci, su cui si appiglia la difesa, su un presunto diverbio tra l’agente sotto accusa gli stessi detenuti testimoni a carico. Nel corso dell’udienza di oggi, l’avvocato di alcuni familiari, Massimo Zaganelli, ha chiesto invano al pm di contestare l’aggravante della morte come conseguenza dell’omissione di soccorso. Ciò non toglie che quel capo d’accusa potrebbe essere integrato qualora, nel corso del processo, ne siano rinvenuti gli estremi. E anche che il procedimento possa essere accorpato con l’eventuale processo per omicidio. Il pm ha già chiesto l’archiviazione per una denuncia a carico di ignoti. L’istanza di opposizione sarà discussa a Perugia l’11 dicembre prossimo.
«È una strada dura ma oggi è stato fatto il primo passo», è stato il commento di Donatella Donati, un altro dei legali a rappresentare i familiari di Bianzino. Alcuni appartenenti al Comitato, inoltre, hanno manifestato fuori dal palazzo di giustizia.
Molti osservatori, all’indomani del caso Cucchi, non hanno potuto fare a meno di notare le analogie sospette tra l due morti. Entrambi consumatori di sostanze, come pure Federico Aldrovandi e la stragrande parte dei reclusi in Italia. Sui corpi di entrambi lacerazioni, fratture, ecchimosi. Aldo aveva il fegato come strappato e le costole rotte. Difficile credere che le avessero ridotte così i tentativi di rianimazione. La tenacia dei familiari e del comitato è riuscita a sventare i tentativi di archiviazione. Altre madri – di Nicky Aprile Gatti, Marcello Lonzi, Manuel Eliantonio, Giuseppe Saladino, la lista non sembra aver fine – sperano che l’effetto Cucchi, ossia un’attenzione mediatica non intermittente o distratta, possa riaprire le loro speranze di verità e giustizia.
Un mese dopo la morte di Stefano Cucchi, invece, un agente di custodia ha avuto un sussulto di memoria, è andato l’altroieri a Matrix e s’è fatto intervistare offrendo la nuca alla telecamera, come per un pentito di mafia. Alla rete ammiraglia Mediaset ha detto che, riaccompagnando Cucchi dal tribunale a Regina Coeli lo avrebbe sentito dire che aveva avuto «la scorsa notte un incontro di boxe». Cucchi avrebbe paralto coi suoi compagni di viaggio stupiti dalla faccia gonfia di botte. Anche l’agente è sicuro: «Si vedeva che era stato pestato». Una testimonianza catodica che sembra spostare indietro le lancette dell’orologio dell’inchiesta. Che sembra chiamare in causa i carabinieri che lo hanno arrestato e lo hanno “ospitato” in una camera di sicurezza nella caserma di Tor Sapienza. Ma che non scagionerebbe le guardie carcerarie. In sopralluogo a sorpresa – poco prima di Matrix – il testimone gambiese avrebbe riconosciuto i sotterranei di piazzale Clodio dove vide la polizia penitenziaria trascinare Cucchi pesto in cella. Forse a causa di una traduzione inadeguata sembrava che l’uomo non avesse riconosciuto quel posto nel sopralluogo del 21 novembre di cui la trasmissione avrebbe mostrato il verbale. Ora è possibile che i due siano messi a confronto, anche perché l’agente di Matrix era stato già sentito il 10 novembre dai pm aveva verbalizzato che Cucchi gli avrebbe detto di essere caduto dalle scale e uno dei detenuti commentò con la storia del sacco da pugilato. Pestaggi e depistaggi e scaricabarile. Il quadro sembra intorbidirsi ma non muta la sostanza: «Stefano non è morto da solo», ribadisce Fabio Anselmo, l’avvocato della famiglia. Nelle prossime ore attesi altri incidenti probatori con detenuti che erano in quel sotterraneo.
«È una strada dura ma oggi è stato fatto il primo passo», è stato il commento di Donatella Donati, un altro dei legali a rappresentare i familiari di Bianzino. Alcuni appartenenti al Comitato, inoltre, hanno manifestato fuori dal palazzo di giustizia.
Molti osservatori, all’indomani del caso Cucchi, non hanno potuto fare a meno di notare le analogie sospette tra l due morti. Entrambi consumatori di sostanze, come pure Federico Aldrovandi e la stragrande parte dei reclusi in Italia. Sui corpi di entrambi lacerazioni, fratture, ecchimosi. Aldo aveva il fegato come strappato e le costole rotte. Difficile credere che le avessero ridotte così i tentativi di rianimazione. La tenacia dei familiari e del comitato è riuscita a sventare i tentativi di archiviazione. Altre madri – di Nicky Aprile Gatti, Marcello Lonzi, Manuel Eliantonio, Giuseppe Saladino, la lista non sembra aver fine – sperano che l’effetto Cucchi, ossia un’attenzione mediatica non intermittente o distratta, possa riaprire le loro speranze di verità e giustizia.
Un mese dopo la morte di Stefano Cucchi, invece, un agente di custodia ha avuto un sussulto di memoria, è andato l’altroieri a Matrix e s’è fatto intervistare offrendo la nuca alla telecamera, come per un pentito di mafia. Alla rete ammiraglia Mediaset ha detto che, riaccompagnando Cucchi dal tribunale a Regina Coeli lo avrebbe sentito dire che aveva avuto «la scorsa notte un incontro di boxe». Cucchi avrebbe paralto coi suoi compagni di viaggio stupiti dalla faccia gonfia di botte. Anche l’agente è sicuro: «Si vedeva che era stato pestato». Una testimonianza catodica che sembra spostare indietro le lancette dell’orologio dell’inchiesta. Che sembra chiamare in causa i carabinieri che lo hanno arrestato e lo hanno “ospitato” in una camera di sicurezza nella caserma di Tor Sapienza. Ma che non scagionerebbe le guardie carcerarie. In sopralluogo a sorpresa – poco prima di Matrix – il testimone gambiese avrebbe riconosciuto i sotterranei di piazzale Clodio dove vide la polizia penitenziaria trascinare Cucchi pesto in cella. Forse a causa di una traduzione inadeguata sembrava che l’uomo non avesse riconosciuto quel posto nel sopralluogo del 21 novembre di cui la trasmissione avrebbe mostrato il verbale. Ora è possibile che i due siano messi a confronto, anche perché l’agente di Matrix era stato già sentito il 10 novembre dai pm aveva verbalizzato che Cucchi gli avrebbe detto di essere caduto dalle scale e uno dei detenuti commentò con la storia del sacco da pugilato. Pestaggi e depistaggi e scaricabarile. Il quadro sembra intorbidirsi ma non muta la sostanza: «Stefano non è morto da solo», ribadisce Fabio Anselmo, l’avvocato della famiglia. Nelle prossime ore attesi altri incidenti probatori con detenuti che erano in quel sotterraneo.
Checchino Antonini
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