Dal 2000 ad oggi sono morti in carcere 1.537 carcerati, di questi ben 547 si sarebbero tolti la vita. Secondo gli ultimi dati nel 2009 sono venuti a mancare 154 prigionieri, di cui 63 per suicidio. Questo significa che il tasso di suicidi ogni dieci mila detenuti è di 12,20. A fornire i dati è il dossier “Morire di carcere”, redatto da Ristretti Orizzonti, il giornale dalla Casa di Reclusione di Padova e dall’Istituto di Pena Femminile della Giudecca che dal 1998 cerca di dare voce ai detenuti e ai loro problemi.
Non tutti i suicidi, però, sono stati catalogati come tali. Sempre secondo Ristretti Orizzonti, che ha raccolto le denunce e le testimonianze di molti familiari, dal 2002 fino ad oggi ci sono almeno trenta casi di morti sospette sulle quali sarebbe necessario indagare in maniera più approfondita. Si tratta, ad esempio, di Stefano Guidotti, 32 anni, che si sarebbe ucciso nel carcere di Rebibbia, a Roma, il primo marzo del 2002. Detenuto per associazione mafiosa ed estorsione, Guidotti è stato trovato impiccato alle sbarre del bagno, ma le escoriazioni presenti sul viso, le macchie di sangue rinvenute sul pavimento e il materiale utilizzato per realizzare il cappio hanno insospettito i familiari e i carabinieri che si sono occupati delle indagini. Sempre nel 2002 nel carcere di Bari ad “uccidersi” è Gianluca Frani, 31 anni, paraplegico. “Come può una persona su una carrozzina – si chiedono i parenti – riuscire ad impiccarsi al tubo dello scarico del water senza che nessuno si accorga di nulla?”. Domanda alla quale ancora oggi non è stata data alcuna risposta.
Così come alla morte di Marcello Lonzi avvenuta il primo ottobre del 2003 nel penitenziario di Livorno. Il giovane, di soli 29 anni, sarebbe deceduto a causa di un infarto, dopo aver battuto la testa. Ricostruzione che non convince in alcun modo la famiglia di Lonzi che da subito ha parlato di omicidio, visto che il corpo del ragazzo era coperto di lividi. Ma in carcere c’è anche chi si lascia andare, perché incapace di resistere e sopportare la violenza che quotidianamente si respira nei penitenziari. E’ il caso dell’albanese Sotaj Satoj, 40 anni, morto nel reparto di Rianimazione dell’Ospedale di Lecce. Gli agenti hanno piantonato il cadavere per ore, senza nemmeno accorgersi della morte dell’uomo, pensavano si trattasse di un estremo escamotage per fuggire. Satoj era arrivato in Italia su un gommone al bordo del quale era stata trovata della droga. Accusato di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, l’albanese aveva sempre dichiarato la propria innocenza e aveva scelto di mettere in atto lo sciopero della fame come estrema prova di non colpevolezza. Dopo tre mesi di mancata alimentazione, Satoj è morto senza che sul suo caso sia stata fatta chiarezza. E nel 2007 nel carcere di Monza a perdere la vita è stato Gianluca Concetti, 40 anni. In preda ad una crisi psicotica, il detenuto ha allegato la sua cella ed è scivolato sbattendo la testa. Secondo i medici, a causa della sua fragilità psichica, Concetti non poteva neppure essere rinchiuso in una prigione.
E anche sul versante femminile la situazione non sembra migliore. Almeno quattro donne, Maria Laurence Savy, Francesca Caponetto, Emanuela Fozzi e Katiuscia Favero, sono morte per cause da accertare. Ennesime vittime di un’organizzazione che necessita quanto prima di una riforma che ripensi il sistema carcerario nel suo insieme.
Non tutti i suicidi, però, sono stati catalogati come tali. Sempre secondo Ristretti Orizzonti, che ha raccolto le denunce e le testimonianze di molti familiari, dal 2002 fino ad oggi ci sono almeno trenta casi di morti sospette sulle quali sarebbe necessario indagare in maniera più approfondita. Si tratta, ad esempio, di Stefano Guidotti, 32 anni, che si sarebbe ucciso nel carcere di Rebibbia, a Roma, il primo marzo del 2002. Detenuto per associazione mafiosa ed estorsione, Guidotti è stato trovato impiccato alle sbarre del bagno, ma le escoriazioni presenti sul viso, le macchie di sangue rinvenute sul pavimento e il materiale utilizzato per realizzare il cappio hanno insospettito i familiari e i carabinieri che si sono occupati delle indagini. Sempre nel 2002 nel carcere di Bari ad “uccidersi” è Gianluca Frani, 31 anni, paraplegico. “Come può una persona su una carrozzina – si chiedono i parenti – riuscire ad impiccarsi al tubo dello scarico del water senza che nessuno si accorga di nulla?”. Domanda alla quale ancora oggi non è stata data alcuna risposta.
Così come alla morte di Marcello Lonzi avvenuta il primo ottobre del 2003 nel penitenziario di Livorno. Il giovane, di soli 29 anni, sarebbe deceduto a causa di un infarto, dopo aver battuto la testa. Ricostruzione che non convince in alcun modo la famiglia di Lonzi che da subito ha parlato di omicidio, visto che il corpo del ragazzo era coperto di lividi. Ma in carcere c’è anche chi si lascia andare, perché incapace di resistere e sopportare la violenza che quotidianamente si respira nei penitenziari. E’ il caso dell’albanese Sotaj Satoj, 40 anni, morto nel reparto di Rianimazione dell’Ospedale di Lecce. Gli agenti hanno piantonato il cadavere per ore, senza nemmeno accorgersi della morte dell’uomo, pensavano si trattasse di un estremo escamotage per fuggire. Satoj era arrivato in Italia su un gommone al bordo del quale era stata trovata della droga. Accusato di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, l’albanese aveva sempre dichiarato la propria innocenza e aveva scelto di mettere in atto lo sciopero della fame come estrema prova di non colpevolezza. Dopo tre mesi di mancata alimentazione, Satoj è morto senza che sul suo caso sia stata fatta chiarezza. E nel 2007 nel carcere di Monza a perdere la vita è stato Gianluca Concetti, 40 anni. In preda ad una crisi psicotica, il detenuto ha allegato la sua cella ed è scivolato sbattendo la testa. Secondo i medici, a causa della sua fragilità psichica, Concetti non poteva neppure essere rinchiuso in una prigione.
E anche sul versante femminile la situazione non sembra migliore. Almeno quattro donne, Maria Laurence Savy, Francesca Caponetto, Emanuela Fozzi e Katiuscia Favero, sono morte per cause da accertare. Ennesime vittime di un’organizzazione che necessita quanto prima di una riforma che ripensi il sistema carcerario nel suo insieme.
Benedetta Guerriero
fonte: Peacereporter
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