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Una circolare politica ai prefetti, mentre si diffondono le prassi illegittime e discriminatorie

La lettera di Salvini ai Prefetti

Nella giornata internazionale dei diritti dei migranti (18 dicembre) è stata diffusa ai prefetti la Circolare del Ministero dell’interno a firma del prefetto Piantedosi, capo di Gabinetto del Ministro, avente ad oggetto il Decreto legge n.113, convertito con modificazioni dalla legge 1° dicembre 2018, n.132. Quasi contemporaneamente il Ministero dell’interno diffondeva tramite internet un opuscolo informativo sulla nuova normativa, nel tentativo forse di rassicurare gli operatori, e la stessa opinione pubblica, sulle conseguenze “positive” della nuova legge sia in termini di risparmio finanziario che sotto il profilo della sicurezza dei cittadini. In realtà si tratta di un contenitore di fake-news, funzionali agli interessi elettorali del ministro dell’interno, che vuole conquistare consensi utilizzando la sua carica di governo, e continua a diffondere informazioni distorte e distorcenti, come è stato verificato da un fact checking dell’ARCI.

Entrambi i documenti condividono una forte impronta propagandistica e non forniscono risposte ai numerosi dubbi ( anche di costituzionalità) che derivano dalle eterogenee disposizioni contenute nel decreto e poi nella legge di conversione. La circolare continua ad affidare alla discrezionalità dei prefetti le prime applicazioni della nuova normativa, e permette prassi amministrative differenziate e discriminatorie, come si è già visto in tutte le regioni italiane. La situazione di grave dispersione sui territori, prodotta dai provvedimenti proposti dal governo e quindi approvati dalle Camere, appare dunque destinata ad aggravarsi, come a Crotone, anche alla luce della circolare ministeriale del 18 dicembre scorso.

La circolare, ed il correlato documento informativo diffuso dal ministero dell’interno, fanno riferimento al “ruolo proattivo” assunto dall’Italia nel controllo della frontiera marittima, senza spendere una sola parola sulle frontiere terrestri, e sulla forte contrazione degli “arrivi irregolari” che ormai si stima oltre l’80 % rispetto al 2017. Neanche un cenno a oltre 1400 vittime sulla rotta libica, quest’anno. Come se i soccorsi in mare fossero da ritenere la prima causa dell’immigrazione irregolare in Italia, si ribadisce la politica di impedimento degli sbarchi nei porti italiani dopo i salvataggi in alto mare al fine di costringere gli stati europei  ad una ripartizione dei migranti soccorsi “secondo i principi di solidarietà affermati nei Trattati europei”. Una solidarietà che l’Italia non dimostra nei confronti dei migranti abbandonati alla Guardia costiera “libica” e delle ONG, “colpevoli” di soccorso. In questo caso il “ruolo proattivo” viene abbandonato.  O affidato alla magistratura penale.

La stessa tesi, quella sottostante alla circolare, che durante la scorsa estate, ha prodotto il caso Diciotti, ed i tanti casi di omessa indicazione di un porto di sbarco da parte del ministero dell’interno. Non si comprende davvero come questo richiamo possa concorrere ad una migliore applicazione della normativa in materia di immigrazione e  sicurezza, appena introdotta dal governo, e poi approvata dal Parlamento. Come appare di impronta politica, e non certo chiave di lettura delle norme recentemente introdotte, il richiamo all’impegno dell’Italia per perfezionare gli strumenti internazionali e gli accordi finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare, quello che è stato l’unico canale di ingresso nel territorio italiano per oltre il 90 per cento delle persone che negli scorsi anni potevano ottenere il riconoscimento di uno sttaus di protezione. Senza accordi di riammissione con i paesi di origine che garantiscano il rispetto dei diritti umani qualunque proposito di rimpatri di massa si profila come vessatorio e allo stesso tempo velleitario. Di fatto, la nuova normativa assicura soltanto la riproduzione della clandestinita’.

Si fa poi riferimento alle Direttive ministeriali del 4 e del 23 luglio 2018 in materia d protezione umanitaria e di accoglienza dei richiedenti asilo, per mettere in evidenza come le modifiche legislative adesso introdotte fossero state già “anticipate” con atti di indirizzo ministeriale, che tra l’altro avevano pesantemente influenzato le attività decisionali delle Commissioni territoriali con un drastico calo dei riconoscimenti di status per protezione umanitaria ( ad ottobre il 13 per cento, ed a novembre il 5 per cento appena, un quarto delle percentuali dell’anno precedente). Anche in questo caso la circolare non chiarisce la portata della nuova normativa ma sembra “vantare” il suggello legislativo ottenuto dal Parlamento nell’abbattimento dell’istituto della protezione umanitaria, già previsto dall’art. 5 comma 6 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998.

Secondo la circolare si è inteso così, assieme alla revisione dei “meccanismi di intervento in mare per contrastare i trafficanti di esseri umani”, ricondurre “nel medio periodo l’intero sistema nazionale ad una gestione ordinata e sostenibile, basata su canali legali di ingresso (quali ?), e sul rimpatrio degli immigrati in condizioni di soggiorno irregolare ( come ed in quanto tempo ?).

Il vero nucleo fondativo della riforma legislativa è ricondotto alla nota deliberazione n.3 del 2018 della Corte di Conti, che affermava l’esigenza di “evitare di riconoscere un “diritto di permanenza indistinto” a tutti coloro che sbarcano e quindi ammettere un accoglienza di moilti mesi ( se non anni) durante i quali i migranti, non avendone titolo, vengono di fatto inseriti nei cd. percorsi di formazione professionale finalizzati all’integrazione, con oneri finanziari gravisi a carico del bilancio dello Stato”. Una affermazione in contrasto con la realtà, perchè i tempi si allungavano a dismisura per inefficienze della pubblica amministrazione e per i ritardi nella formalizzazione delle richieste di asilo, ed anche falsificante perchè non corrisponde al vero che la maggior parte dei migranti accolti nel sistema di accoglienza più diffuso ( i Centri di accoglienza straoirdinaria) vedessero garantiti “percorsi di formazione professionale finalizzati all’integrazione”, spesso neppure garantiti nei centri del sistema SPRAR. I ritardi dei trasferimenti dal ministero dell’interno agli enti locali hanno spesso vanificato le pur limitate possibilità di integrazione che erano petviste dai progetti o dai rapporti convenzionali. Per non parlare dell’omesso controllo sui ritardi degli enti gestori  nei pagamenti delle competenze dovute agli operatori. “Percorsi di formazione professionali finalizzati all’integrazione” che adesso vengono drasticamente ridimensionati proprio per effetto del più recente schema di capitolato di appalto predisposto dal ministero dell’interno.

La circolare ministeriale non dà conto delle modalità applicative della nuova normativa dopo l’abolizione della protezione umanitaria, accrescendo anche la confusione tra le nuove tipologie di permesso di soggiorno “per casi speciali”, ma tende soltanto a giustificare, con il paravento della legge 132 del 2018, le precedenti prassi di dubbia legittimità adottate nell’accesso alla procedura e nel ricorso alle strutture temporanee di prima accoglienza. Si fornisce poi copertura a quelle decisioni delle Commissioni territoriali che erano state ribaltate da sentenze della magistratura, ed è questo uno degli aspetti più gravi dell’intero provvedimento. La moltiplicazione delle tipologie di “casi speciali” nasconde una grave deviazione da una lettura costituzionalmente orientata della normativa vigente consolidata in giurisprudenza, e rimarca l’arbitrio del legislatore incurante del dettato costituzionale ( art. 10). Con il risultato di produrre una grave incertezza che alimenterà ulteriormente il contenzioso.

Si osserva a tale riguardo come ““Quando descrive i nuovi permessi di soggiorno che avrebbero ‘razionalizzato’ la protezione umanitaria, la circolare include nella protezione per ‘casi speciali’ anche i permessi per calamità naturale o per atti di particolare valore civile. È scorretto: il decreto legge convertito sostiene un’altra cosa e la circolare non può annoverare tra i ‘casi speciali’ fattispecie che la legge nomina e inquadra diversamente”.
Si dichiara l’intento di superare l’approccio emergenziale che invece la nuova normativa rischia di riprodurre, anche se il calo degli arrivi è tanto rilevante ( come è alto il numero dei migranti che stanno lasciando il nostro paese perchè espulsi dal sistema di accoglienza e ormai privi di prospettive di soggiorno legale, che poi sembra il vero obiettivo perseguito dal governo). Se arrivano meno migranti degli scorsi anni, e l’intera normativa sembra orientata in questa direzione, se ne stanno rimettendo sulla strada molti di più di quelli che negli anni precedenti uscivano fisiologicamente dal sistema di accoglienza. Come dire che, cessata un’emergenza, se ne deve riprodurre immediatamente un’altra.

La circolare fornisce una interpretazione fuorviante della “protezione umanitaria” come era prevista fino al 4 ottobre scorso dal Testo Unico 286 del 1998 ( art. 5 comma 6), sulla base di dati manipolati per dimostrare che ” non si è rilevata un adeguato strumento di integrazione”,  e che avrebbe anzi moltiplicato i casi di “marginalità sociale”. Quando tale marginalità è derivata semmai dal mancato sostegno alle misure di integrazione previste dal sistema SPRAR, che è rimasto sottodimensionato, e privo di sbocchi lavorativi, non certo per colpa delle persone che vi erano ospitate o vi lavoravano, salvo pochi casi di violazioni accertate. Così come appare del tutto privo di argomentazioni giustificative il rilievo che tale situazione avrebbe portato i titolari di protezione umanitaria verso “circuiti criminali”. La circolare ministeriale sembra restare più vicina alla propaganda che ha strumentalizzato casi di cronaca molto gravi, piuttosto che fondare le sue linee interpretative su una rigorosa ricognizione di dati. Che in campo penale dimostrano la bassissima propensione a delinquere dei titolari di status di protezione internazionale o umanitaria che sia (stata). La circolare ignora del tutto che la maggior parte dei titolari di protezione umanitaria, una volta fuori dal sistema di acoglienza, è stata costretta ad accettare lavori precari non contrattualizzati, subendo gravi forme di sfruttamento che evidentemente il governo trova conveniente nascondere per fare risaltare il dato della scarsa integrazione dal ridotto numero di conversioni  (3.200 in tre anni) in permessi di soggiorno per lavoro.

La circolare fa riferimento alla mancata riconducibilità della “protezione umanitaria” a “obblighi europei”, ma tace del tutto il fondamento costituzionale dell’istituto, applicazione dell’art. 10 della Costituzione, riconosciuta da numerose sentenze della Corte di Cassazione, che il ministero dell’interno sembra ignorare completamente. Non si è trattato certo di una “razionalizzazione”, come asserisce la circolare, quanto piuttosto di un sostanziale svuotamento dell’istituto, in violazione di un precetto costituzionale, come già rilevato dal CSM  e da varie organizzazioni non governative.

La casistica indicata dalla circolare si limita a richiamare parzialmente quanto già previsto dalla Legge n.132, senza fornire un solo spunto che ne chiarisca la portata applicativa, ma siamo certi che altre circolari seguiranno, soprattutto via via che le sentenze della giurisprudenza smonteranno pezzo per pezzo la nuova disciplina imposta dal governo ad un Parlamento che ha dovuto procedere all’approvazione di un unico “maxiemendamento” con un voto di fiducia. Dopo che era caduto nel vuoto l’appello rivolto alle camere dal Presidente della Repubblica quando aveva firmato il Decreto legge 113 ad ottobre.

L’abolizione della protezione umanitaria come istituto generale, derivante dal precetto vincolante dell’art.10 della Costituzione, avrà conseguenze particolarmente gravi per i soggetti più vulnerabili. Secondo l’ARCI, per quanto riguarda le vittime di tratta, “con la nuova legge le Commissioni Territoriali, che erano i soggetti che fino a oggi individuano i casi più a rischio, non avranno facoltà di proteggerle in assenza dei requisiti per la protezione internazionale. È previsto per le vittime solo un permesso di 6 mesi esclusivamente in caso di denuncia (parliamo di persone sole e per la maggior parte prive della libertà e controllate a vista che solo rischiando la vita possono recarsi al commissariato per denunciare) o se rientrano nel sistema antitratta (da anni insufficiente e inutilmente in attesa di un potenziamento)”.

La circolare espone la novella legislativa senza fornire alcun indirizzo interpretativo quando si richiamano le maggiori difficoltà probatorie imposte ai richiedenti asilo, con le nuove procedure accelerate, da applicare anche nelle cd. “zone di transito”, nelle quali sarà essenziale garantire un monitoraggio indipendente ed un pieno esercizio dei diritti di difesa. Occorrerà la masima vigilanza sulle nuove forme di limitazione della libertà personale che la legge 132 non disciplina, in violazione degli articoli 10 e 13 della Costituzione, ma che la circolare richiama, senza però fornire una disciplina compiuta. Rimangono nel vago, e sostanzialmente rimesse alla discrezionalità di polizia, soprattutto nelle fasi di esecuzione dei provvedimenti di allontanamento forzato, le cause di inammissibilità della domanda di protezione previste dall’art. 9 della legge 1

Rimane del tutto indefinito l’altro strumento “deflattivo” introdotto dal Parlamento con la legge 132, la lista dei “Paesi di origine sicuri”, per la quale sarà necessario un Decreto del Ministro degli affari esteri, di concerto con i ministri dell’interno e della giustizia, nonchè sulla base delle informazioni fornite dalla Commissione Nazionale per il diritto di asilo. Come se questa ipotesi risultasse conforme alla previsione più ampia dettata dall’art. 10 della Costituzione italiana, una questione sulla quale la circolare non aggiunge nulla rispetto al testo della legge, ma che sarà portata, non appena passerà il decreto attuativo, davanti la Corte Costituzionale.La circolare omette conseguentemente anche qualsiasi richiamo esplicativo al concetto, ancora più opinabile, di “zona sicura all’interno di un paese terzo”, criterio decisionale che in altri paesi europei sta subendo un drastico ridimensionamento da parte della giurispudenza (che blocca le procedure di rimpatrio forzato). Come si verificherà anche in Italia.

A questi concetti geografici non si può certo ricollegare “la presunzione iuris tantum di manifesta infondatezza dell’istanza”, di fatto il capovolgimento dell’onere della prova, che la circolare suggerisce, ancora una volta in contrasto con il dato costituzionale e con la consolidata giurisprudenza che si è formata nel nostro paese sulla riconducibilità della protezione umanitaria all’art. 10 della Costituzione. Non basta modificare la denominazione di un istituto per sottrarlo alla copertura costituzionale.

La circolare fa poi riferimento alla nuova configurazione del sistema di accoglienza, con la nuova denominazione attribuita ai centri SPRAR, adesso ridefiniti SIPROIMI ( Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati), mentre si specifica che ai richiedenti asilo “vengono dedicate le strutture di prima accoglienza (CARA e CAS) all’interno delle quali permangono, come nel passato, fino alla definizione del loro status” ( inclusi i tempi degli eventuali ricorsi).

Come mette in evidenza il Fatto Quotidiano la circolare sembrerebbe fare giustizia delle prime frettoose applicazioni del Decreto legge 113 , che avevano lasciato sulla strada centinaia di titolari di protezione umanitaria o riichiedenti asilo. “Chi oggi è titolare di una protezione per motivi umanitari – la forma di tutela abolita dalla nuova legge – non deve essere mandato via dai centri di accoglienza almeno fino al termine del suo permesso. Allo stesso modo, i migranti già presenti nei centri Sprar (quelli con gli standard più elevati), pure se con le nuove norme perderebbero il diritto a rimanere in queste strutture, non possono essere esclusi dal sistema d’accoglienza “fino alla scadenza del progetto in corso”.

La “lettera” di Salvini ai prefetti, perchè di questo si tratta e non di una circolare applicativa, richiama almeno quanto previsto dalla legge e quindi che “i minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo rimangono, al compimento della maggiore età, nel Sistema di Protezione (adesso ridenominato) fino alla definizione della domanda di protezione internazionale ( articolo 12, comma 5 bis). Una formulazione ancora troppo generica, che non specifica nulla per i casi di ricorso contro eventuali dinieghi, e soprattutto non da alcuna certezza che in tutti i provvedimenti riguardanti il minore sia davvero garantito il suo “superiore interesse” come previsto dalle Convenzioni internazionali. Toccherà ai tribunali minorili fornire decisioni che possano garantire effettivamente tutti i diritti fondamentali dei minori stranieri non accompagnati. Ed molto dipenderà dalle decisioni dei Tribunali ordinari sui ricorsi presentati nei casi, sempre più numerosi, di dinieghi pronunciati dalle Commissioni territoriali. Come se non bastasse, si riducono i fondi destinati ai Comuni che offrono accoglienza per i minori stranieri non accompagnati.  Potranno chiedere contributi al Fondo nazionale solo “nei limiti delle spese già sostenute a legislazione vigente.

La circolare richiama solo di sfuggita la detenzione amministrativa, adesso fino a 180 giorni, nei centri di permanenza per il rimpatrio (CPR) , e non menziona affatto i centri Hotspot, che rimangono totalmente rimessi alla discrezionalità delle forze di polizia, al di là delle scarne previsioni legislative contenute nell’art. 10 ter del testo unico n.286/98. In queste strutture potranno essere trattenute le persone migranti fino a 30 giorni, e rimangono nel vago le possibilità di convalida del trattenimento, perchè di questo si tratta, da parte dell’autorità giudiziaria. Perplessità al riguardo erano state espresse anche dall’UNHCR, nella fase di conversione del decreto, ma non erano state prese in considerazione, e sono trascurate anche dalla circolare. Sembra che si diano per scontati rimpatri di massa che i paesi di origine stanno continuando a rifiutare, anche quelli che hanno concluso con l’Italia accordi di riammissione. Le politiche di rimpatrio non dovrebbero diventare materia di propaganda elettorale.

Malgrado i tanti richiami della Corte dei Conti, che pure nella circolare si richiama tanto frequentemente, si ribadisce quanto previsto dalla legge 132, che per l’attivazione di nuovi CPR è stato autorizzato per un periodo non superiorea tre anni dalla data di entrata in vigore del provvedimento, il ricorso alla procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara, ferma restano l’esigenza di rivolgere l’invito ad almeno cinque operatori econmici ( articolo 2 comma 2). Una procedura della cui legittimità è possibile dubitare, alla luce della vigente disciplina nazionale ed europea in materia di appalti.

Nella seconda parte della circolare ministeriale del 18 dicembre si trattano i temi della sicurezza contenuti nel decreto n.113 ( DASPO urbano, Poteri di ordinaanza dei sindaci, Occupazioni arbitrarie di immobili, Finanziamento ai comuni per esigenze di sicurezza, Dotazioni della polizia municipale ed uso delle armi taser) e quindi nella legge di conversione n.132 del 2018. Si tratta di una materia complessa, che interferisce con le materie fin qui trattate, ma che considereremo in un successivo intervento. Le norme che penalizzano tutte le situazioni tipiche nelle quali può incappare una persona priva di permesso di soggiorno o  espulsa dal sistema di accoglienza, come le occupazioni abitative o i casi di resistenza a pubblico ufficiale, a fronte della ridotta possibilità di eseguire effettivamente centinaia di migliaia di espulsioni con accompagnamento forzato, rendono strettamente interconnesse le due parti del provvedimento di legge, appunto titolato immigrazione e sicurezza.Ma la sicurezza o viene garantita a tutti, migranti inclusi, oppure non potrà essere davvero garantita per nessuno. Un concetto basilare, più volte espresso dal Papa e dal Presidente della Repubblica, ma totalmente estraneo alla cultura di chi ha legiferato senza alcun riguardo per i richiami costituzionali e per il valore assoluto della vita.

Le norme relative alla criminalità mafiosa appaiono del tutto ancillari al resto del provvedimento, quasi una copertura ideologica,  e lasciano seri dubbi sulla possibilità che, attraverso prestanome, i condannati per reati tanto gravi possano rientrare in possesso dei propri beni, una volta consentite le vendite ai privati dei beni confiscati. Gli interventi autoritativi dei Prefetti, al di fuori dei casi di scioglimento per mafia dei consigli comunali possono implicare gravi lesioni ai poteri delle autonomie locali. Anche in questo caso, come vedremo, si potrà prospettare un vasto contenzioso.

Di certo la Circolare non offre criteri applicativi conformi al testo costituzionale, come peraltro sarebbe stato anche difficile garantire, alla luce del testo esitato dal Parlamento con la legge 132 del 1° dicembre 2018. Tocca ancora una volta alle organizzazioni non governative fornire le chiavi interpretative, anche al fine di preparare i necessari ricorsi.

  1.  La modifica della denominazione del permesso non fa decadere le tutele e le garanzie riconosciute a tutti coloro che hanno già maturato i  diritti alla residenza e alla carta d’identità. L’Anagrafe di Palermo ha negato l’iscrizione a cittadini stranieri con regolare permesso di soggiorno per motivi umanitari e addirittura ha rifiutato di accogliere le istanze con la motivazione che il decreto Salvini avrebbe abolito il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Questa interpretazione retroattiva del decreto non è ammissibile. Se gli uffici dell’Anagrafe insistessero su questa interpretazione retroattiva del  Decreto Salvini, e quindi della legge n.132 del 1° dicembre 2018, di testo peraltro diverso, si dovrebbero proporre ricorsi al giudice civile per comportamenti discriminatori della pubblica amministrarzione.
  2.  I ricorsi contro i provvedimenti di diniego “assoluto” adottati dalle Commissioni a partire dal 4 ottobre 2018 devono contenere una serie di eccezioni di costituzionalità anche alla luce del diverso testo della legge di conversione n.132 del 1° dicembre, rispetto al testo originario del decreto legge n.133 del 4 ottobre 2018. La circolare confonde i cd. “casi speciali” con altre ipotesi che possono ancora comportare il riconoscimento di uno status di protezione per la ricorrenza di una causa di inespellibilità, come affermato dall’art. 19 del vigente Testo Unico n. 286 del 1998.
  3. La mancata corresponsione delle somme dovute ai centri di accoglienza per i richiedenti asilo, con le conseguenze prodotte da alcune circolari di diverse prefetture italiane, a partire dalla Prefettura di Potenza, sta portando alla chiusura molte strutture con la conseguente creazione di migliaia di senza fissa dimnora. Su questo punto la circolare ministeriale non porta ancora elementi risolutivi, e dunque si dovranno impugnare tutte le circolari prefettizie rivolte ai titolari dei centri di accoglienza e le misure di cessazione o di revoca dell’accoglienza.
  4.  Il Trattenimento amministrativo  nei centri per il rimpatrio non può avere finalità di prevenzione e di ordine pubblico, pena la sua radicale illegittimità, ma deve essere finalizzato all’effettivo rimpatrio e rimane privo di fondamento quando appare evidente che tale rimpatrio non è possibile. Qualsiasi limitazione della libertà personale, anche quella all’interno degli Hotspot o di altre strutture individuate dalle questure, come le zone di transito aeroportuale, sono soggette ai limiti dettati dall’art. 13 della Costituzione italiana. Si deve intensificare il monitoraggio dei voli di rimpatrio e vanno sospesi tutti i rimpatri verso paesi che non rispettano i diritti umani, come l’Egitto, paese verso il quale sono riprese le procedure di allontanamento con accompagnamento forzato, già sospese in precedenza.

Fulvio Vassallo Paleologo

da Associazione Diritti e Frontiere – ADIF

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OSSERVAZIONI DELL’ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI SUL DECRETO-LEGGE N. 113/2018 C.D. “SICUREZZA”DISPOSIZIONI IN MATERIA CIVILE

PREMESSA

La Costituzione italiana prevede e garantisce una serie di diritti fondamentali, tra cui, all’art. 10, terzo comma, il diritto di asilo, attribuito, senza condizioni ed eccezioni, né vincolo di reciprocità, allo «straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana». Come è noto, nelle costituzioni contemporanee le libertà non sono soltanto quelle negative della tradizione liberale, ma anche quelle positive, volte a rendere la vita delle persone, di qualunque condizione od origine, degna di essere vissuta, nell’inscindibile legame tra diritti fondamentali e dignità della persona umana. Le «libertà democratiche», di cui parla l’art. 10, terzo comma, della Costituzione italiana, hanno un senso se la persona abbia un minimo di condizioni di sussistenza, indispensabili alla tutela della sua dignità.L’istituto del diritto di asilo è più ampio del riconoscimento dello status di rifugiato – introdotto dalla Convenzione di Ginevra del 1951, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge n. 722 del 1954 – o della protezione sussidiaria – introdotta per la prima volta con la direttiva n. 2004/83/CE, per rispondere all’esigenza di offrire protezione a situazioni meritevoli di tutela in base al diritto pattizio ed europeo già vigente a fronte della tassativa elencazione dei motivi di persecuzione previsti dalla Convenzione di Ginevra.Per il riconoscimento dello status di rifugiato, infatti, non è sufficiente che lo straniero dimostri che, nel proprio paese, i cittadini non godono dell’effettivo esercizio delle libertà democratiche, ma è necessario, secondo le fonti normative appena richiamate, che ricorra il «giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche», mentre hanno diritto alla protezione sussidiaria coloro che, pur non potendo dimostrare di aver subito specifici atti persecutori, abbiano ugualmente il fondato timore di dover subire un grave danno (pena di morte, trattamenti inumani e degradanti, tortura, minaccia grave alla vita o alla persona derivante da violenza indiscriminata), se facessero ritorno nel proprio paese d’origine.L’istituto del diritto di asilo costituzionale è quindi senz’altro più ampio delle due forme di protezione previste dalla Convenzione di Ginevra e dalle cc.dd. direttive qualifiche (2004/83/CE e 2011/95/UE) che hanno introdotto e disciplinato la protezione sussidiaria.Sino all’entrata in vigore del decreto legge n.113/2018 in commento, la norma di riferimento era l’art. 5, comma 6 del Testo Unico Immigrazione (decreto legislativo 25 luglio 1998 , n. 286, nel prosieguo TUI) che così disponeva: “Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia , quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo chericorrano seri 4 motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Il permesso di soggiorno per motivi umanitariè rilasciato dal Questore secondo le modalità previste dal regolamento di attuazione”. Con il recepimento della normativa di derivazione eurounitaria, che ha introdotto la protezione sussidiaria, e l’introduzione della norma appena citata, autorevole dottrina e la giurisprudenza costante della Corte di Cassazione hanno affermato che sia stata data piena attuazione al diritto di asilo costituzionale, che, pertanto, non trova più una autonoma diretta applicazione (v., per tutte, Cass. n. 10686/2012, 16362/2016, ma anche tutta la giurisprudenza successiva in materia)La stessa Corte di Cassazione, sulla scia di quanto affermato dalla migliore dottrina giuridica, infatti, aveva più volte affermato la immediata portata precettiva del diritto di asilo costituzionale, anche in mancanza di una legge che ne specificasse le condizioni di esercizio e le modalità di godimento (v. SSUU sentt. n. 4674/1997, Cass. n. 907/1999 e Cass 8423/2004).La Suprema Corte riconduce l’istituto della protezione umanitaria nell’alveo dei diritti umani fondamentali (Cass. SSUU ordinanza n. 19393/2009), unitamente allo status di rifugiato ed alla protezione sussidiaria, includendo in tale forma di protezione ogni situazione meritevole di tutela per obbligo costituzionale od internazionale. Il quadro normativo costituito dalle ipotesi tipiche previste dagli artt. 18 e ss del TU Immigrazione era integrato anche dalle norme costituzionali edinternazionali, alle quali faceva espresso riferimento il menzionato art. 5, comma 6 e, cioè, dall’ art. 2 della Costituzione e dall’ art. 10, comma 3 della Costituzione, da un lato, e, dall’ altro lato, dalla Convenzione di Ginevra del 28/7/ 1951 , dal Protocollo di New York del 31/1/967, ratificato dall’Italia con la legge n. 95/1970 , dall’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, dall’art. 19 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, dall’art 8 CEDU ratificata dall’Italia con legge n. 848/ 1955, dalla Convenzione di Istanbul ratificata con legge n. 77/2013, trattati e convenzioni ai quali lo Stato italiano ha aderito, obbligandosi quindi a rispettare il sistema di garanzia e di tutele in essi contenuto ( si veda da ultimo Cass. 4455/2018). La base assiologica di questo istituto di chiusura è l’impostazione personalistica della civiltà giuridica contemporanea, che si riflette sia nella normativa internazionale e sovranazionale, sia nelle singole legislazioni nazionali. La tutela della persona umana e della sua vita privata e familiare – secondo la formula dell’art. 8 CEDU – impone che ogni individuo abbia diritto di soggiornare e rimanere in uno Stato diverso da quello di origine, se nel proprio fosse destinato a subire condizioni ed atti incompatibili con la propria dignità (v. G. Silvestri, relazione al corso della SSM – Catania – 14 settembre 2018; Cass. Sent. n. 4455/2018).

ESAME DELLE DISPOSIZIONI A)Tipizzazione delle fattispecie di protezione umanitariaIl decreto legge n. 113/2018, entrato in vigore lo scorso 5 ottobre, abroga il comma 6 dell’art 5 del TUI (art 1 comma 1 D.L. 113/2018) e qualsiasi riferimento, nella normativa generale, al permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il decreto in commento mira ora a rendere del tutto eccezionali e tipizzate le ipotesi di protezione umanitaria, sostituendo i permessi di soggiorno per motivi umanitari con cinque tipi di permessi di soggiorno, che danno al titolare una condizione giuridica più precaria rispetto alla disciplina previgente ( disciplina che prevedeva un permesso della durata di due anni e consentiva l’accesso al lavoro, al servizio sanitario nazionale, all’assistenza sociale e all’edilizia residenziale): 1) Il permesso per “protezione speciale”, della durata di 1 anno (rinnovabile finché dura il pericolo, che consente il lavoro, ma che non è convertibile in permesso di soggiorno per lavoro) rilasciato su richiesta della Commissione territoriale per la protezione internazionale allorché non riconosca allo straniero lo status di rifugiato ovvero lo status di protezione sussidiaria, ma ritenga impossibile il suo allontanamento per il rischio di subire persecuzioni o torture; 2) il permesso “per calamità”, della durata di 6 mesi (rinnovabile, che consente l’accesso al lavoro, ma non è convertibile in altro permesso di soggiorno), rilasciato e rinnovato allo straniero che non possa rientrare nel Paese di appartenenza in condizioni di sicurezza a causa di una “situazione di contingente eccezionale calamità”; 3) il permesso “per cure mediche” (della durata di 1 anno, rinnovabile, che sembra non consentire l’accesso al lavoro, ma non è convertibile in altro permesso di soggiorno) rilasciato allo straniero che documenti di versare in “condizioni di salute di particolare (nel testo licenziato dal Senato si sostituisce con l’aggettivo “particolare” l’originario “eccezionale”) gravità” che impediscano il rimpatrio senza ledere la sua salute; 4) il permesso “per atti di particolare valore civile”, rilasciabile su indicazione del Ministro dell’Interno; 5) permessi di soggiorno “per casi speciali”, rilasciati in altre ipotesi tipiche in cui finora era rilasciato un permesso per motivi umanitari: a) protezione sociale (con permesso di durata di 6 mesi, rinnovabile finché perdurano le esigenze giudiziarie) delle vittime di delitti di violenza o grave sfruttamento che sono in pericolo per avere collaborato o essersi sottratte ai condizionamenti dell’organizzazione criminale e partecipino ad un programma di assistenza e integrazione sociale; b) vittime di violenza domestica che denuncino l’autore del reato; c) particolare sfruttamento lavorativo su denuncia del lavoratore sfruttato che denunci il datore di lavoro. 6 In definitiva, alle ipotesi tipiche già previste dal testo unico negli artt. 18 e ss. – ora ridenominate “casi speciali” – vengono aggiunte due ipotesi ulteriori (art 1 comma 1 n. 2 lettere g e h DL 113/2018): il permesso di soggiorno: per “cure mediche” a fronte di condizioni di salute di particolare gravità, e per “eccezionali calamità”. Si tratta, come visto, di permessi di soggiorno che hanno durata e disciplina diverse, solo alcuni sono convertibili in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Essi vengono rilasciati direttamente dal questore ed il rifiuto è impugnabile innanzi al giudice ordinario. Il rito (come in passato per le ipotesi tipiche previste dagli artt. 18 e ss TU Immigrazione) è quello sommario ex artt. 702 bis e ss. C.p.c., ma l’organo giudicante è collegiale. Viene abrogato l’appello (art. 1 comma 5 DL 113/2018). Ai casi speciali, sopra indicati, viene aggiunta una ulteriore ipotesi tipica chiamata “protezione speciale” che segue l’iter procedurale previsto per il riconoscimento della protezione internazionale (art 1 comma 2 DL 113/2018): sarà, infatti, la commissione territoriale che, se non riterrà di riconoscere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, potrà riconoscere la protezione speciale, trasmettendo gli atti al questore per il rilascio del relativo permesso di soggiorno, nei casi in cui ricorrano le ipotesi di cui all’art 19 commi 1 e 1.1. del TU immigrazione, ossia i divieti di espulsione in caso vi sia il rischio di persecuzioni nel paese di origine od il rischio che il richiedente nel proprio paese possa essere sottoposto a tortura (tali ipotesi erano in precedenza ricomprese nella protezione umanitaria). Si tratta di un permesso di soggiorno che ha durata di un anno (termine dimezzato rispetto a quello per la previgente protezione umanitaria), e non è convertibile in permesso di lavoro (al contrario del permesso per motivi umanitari). *************************************Le ipotesi tipiche e speciali che sostituiscono il permesso di soggiorno per motivi umanitari, previste espressamente nel decreto, non coprono, quindi, il perimetro del diritto di asilo costituzionale e degli obblighi internazionali dell’Italia (es. art 33 della Convenzione di Ginevra, art. 3 ed art 8 CEDU, art. 19 Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea, Convenzione di Istanbul, ecc.). Né ciò sarebbe possibile per la peculiarità dei diritti della persona – alla cui tutela è posto anche l’art 10 comma 3 della Costituzione – letti ed interpretati dalla Corte Costituzionale “nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione sempre più attenta ai valori di libertà e dignità della persona” (Corte Cost. n. 161/1985), e non suscettibili di essere ricondotti in un catalogo predeterminato di situazioni od ipotesi ristrette, come vorrebbe fare la normativa in commento. 7 Restano privi di copertura, ad esempio, il divieto di estradizione per reati politici, il diritto al rispetto della vita privata e familiare, il “diritto fondamentale di ogni individuo alla libertà dalla fame”, il diritto “ad un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia, che includa un’alimentazione, un vestiario, ed un alloggio adeguati” (art. 11 patto internaz. dir. econ. sociali e culturali), cioè quelle condizioni che permettono di condurre una vita dignitosa, e, più in generale, tutte le molteplici situazioni di fatto che non sono aprioristicamente determinabili ma che conseguono ad una situazione di sistematica violazione dei diritti umani, o all’inserimento sociale e lavorativo nel tessuto sociale del nostro Stato e che paiono meritevoli di tutela, se rapportate con le condizioni esistenti nel Paese di origine o destinazione, che hanno indotto la persona ad abbandonarlo (v. Cass. Sent 4455/2018 citata). Restano formalmente escluse da tutela, dunque, tutte le situazioni alle quali l’Italia dovrebbe dare seguito in base agli obblighi costituzionali o internazionali che, precedentemente, erano formalmente inseriti all’interno della dizione dell’abrogato art. 5, co. 6, TUI.Se è vero che l’art 10 della Costituzione ha immediata portata precettiva e gli obblighi internazionali, primo fra tutti quello di non refoulementconsiderato assoluto ed inderogabile dalla giurisprudenza della CEDU e della Corte di Giustizia UE, impongono al nostro paese di non espellere i richiedenti che si trovino nelle condizioni previste dalle norme internazionali, resta il problema della disciplina concretamente applicabile in tali casi: a quale permesso di soggiorno avrà diritto il richiedente: di quale durata e con quali diritti? convertibile o meno in permesso di soggiorno per motivi di lavoro?In definitiva, pur considerando le esigenze di certezza alla base di qualsiasi intervento legislativo di tipizzazione, vi sono ambiti ( e la protezione internazionale è certamente tra questi) in cui non è pensabile di fare a meno di una clausola generale proprio per l’impossibilità di prevedere ex ante tutte le ipotesi che in concreto richiedano tutela.Conseguenza della tipizzazione restrittiva dei casi di protezione umanitaria sarà inevitabilmente la moltiplicazione del contenzioso, e con essa l’aggravio del lavoro rimesso alle neo-costituite sezioni specializzate in materia di immigrazione, già oltremodo sovraccariche, con rischi di interpretazioni difformi e con la concreta impossibilità di decidere i procedimenti nei tempi imposti dalla legge (L. 46/2017) o comunque ragionevoli.L’auspicio è, quindi, che in sede di conversione il legislatore tenga conto della necessità di mantenere una clausola aperta quale era quella del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Tale possibilità è 8 espressamente prevista dalla c.d. direttiva rimpatri (n. 2008/115/CE, art 6), dall’Art. 6, co. 5, lett. c, del Codice frontiere Schengen – regolamento 2016/399 -, dall’art. 17(2) regolamento Dublino 2013/604, dagli articoli 19 e 25 del Codice visti – regolamento 810/2009, e ne hanno usufruito, sia pure con modalità diversificate, almeno 20 dei 28 Paesi dell’Unione europea (Austria, Cipro, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Italia – fino ad oggi -, Lituania, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito, Romania, Slovacchia, Spagna, Svezia e Ungheria).Sul punto anche il Presidente della Repubblica, nella lettera inviata al Presidente del Consiglio dei Ministri contestualmente all’emanazione del decreto legge in materia di Sicurezza e Immigrazione, ha sentito l’obbligo di sottolineare che, comunque, “restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato”, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo, e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’art. 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia”. B)Eliminazione dell’appello L’art. 1 del decreto legge in commento, con l’inserimento dell’art. 19-terdel decreto legislativo n. 150/2011, stabilisce che l’ordinanza ex art. 702 ter c.p.c. che definisce la controversia in materia di diniego o di revoca dei permessi di soggiorno temporanei per esigenze i carattere umanitario è inappellabile ma ricorribile in Cassazione. Già in occasione dell’entrata in vigore del D.L. n. 13/2017, convertito nella L. n. 46/2017, che aveva abolito l’appello per i procedimenti di protezione internazionale, l’A.N.M. aveva messo in luce la problematicità di questa scelta. In un procedimento che ha ad oggetto la tutela dei diritti fondamentali della persona, le esigenze di celerità non possono comportare una compromissione delle garanzie che giunga a prevedere l’abolizione dell’appello; in un sistema dove è un rimedio generalizzato – pur non costituzionalizzato – anche per cause bagatellari, può, infatti fondatamente dubitarsi della ragionevolezza di tale disparità di trattamento.Tale disparità di trattamento, inoltre, potrebbe non essere compatibile con i criteri enunciati in via generale dalla Corte di Giustizia che ha elaborato, in una giurisprudenza ormai risalente, due principi – equivalenza ed effettività − alla luce dei quali essa valuta le norme processuali nazionali, «compensando» così la frammentaria (o inesistente) armonizzazione normativa. 9 Il principio di equivalenza impone che i mezzi previsti per la tutela di situazioni soggettive conferite dal diritto dell’Unione non siano meno favorevoli di quelli applicati per la tutela di situazioni analoghe conferite da norme interne. Esso richiede una valutazione comparativa tra le caratteristiche dei mezzi di tutela posti a garanzia dei diritti garantiti da normative nazionali e di quelli attribuiti (in modo diretto o indiretto) dal diritto dell’Unione rispetto a situazioni analoghe (v., tra le altre, le sentenze CGUE del 26 gennaio 2010 nella causa C-118/08, Transportes Urbanos, del 28 gennaio 2015 nella causa C-417/13, OBB Personenverkehr).E’ chiaro, quindi, che l’abolizione dell’appello nelle cause relative alla protezione internazionale, che trovano il proprio fondamento nel diritto UE, non rispetta il principio di equivalenza essendo l’appello un rimedio generalizzato per i diritti riconosciuti dal diritto interno.C) Trattenimento del richiedente asiloIl D.L. introduce una nuova ipotesi di trattenimento del richiedente asilo (art 3 comma 1 DL 113/2018 lettera a), attraverso l’inserimento del comma 3 bis all’art 6 del D.lvo n. 142/2015 (che costituisce il recepimento della cd. direttiva accoglienza 2013/33/UE), che può essere disposta al solo fine di verificarne l’identità o la cittadinanza. E’ previsto un trattenimento per un periodo massimo di 30 giorni nei cc.dd. Hot spot (strutture di cui all’art 10 ter comma 1 del TUI) e, ove in tale periodo non sia stata possibile tale verifica, è previsto un ulteriore periodo massimo di 180 giorni di trattenimento nei centri di permanenza per il rimpatrio (CPR). La norma contiene erroneamente il riferimento al solo comma 5 dell’art 14 del TUI, ma deve ritenersi che valga il riferimento a tutta la norma di cui all’art 14 che disciplina il procedimento di convalida del trattenimento secondo le scansioni previste dall’art. 13 della costituzione. La norma non sembra prevedere il procedimento di convalida per il trattenimento negli Hotspot, ma esso deve ritenersi applicabile anche a tale fase del trattenimento, pena la manifesta illegittimità costituzionale per violazione dell’art 13 della Costituzione.Desta perplessità la previsione di un trattenimento che può arrivare anche fino a 7 mesi per i soli fini identificativi.Se è vero che l’art 8 della direttiva UE 2013/33 (c.d. “direttiva accoglienza”) stabilisce che tale forma di trattenimento può essere adottata nei confronti dei richiedenti asilo”, la stessa norma dispone, però, che “gli Stati membri non trattengono una persona per il solo fatto di essere un richiedente” e stabilisce, altresì, che il trattenimento deve essere disposto caso per caso in circostanze eccezionali e solo ove non sia possibile applicare misure meno afflittive. 10La norma introdotta troverà, invece, applicazione per la quasi totalità dei richiedenti asilo i quali, proprio perché fuggiti dal proprio paese per conflitti o persecuzioni ed arrivati in Italia dopo un difficile percorso migratorio (si pensi al passaggio nei centri di detenzione libici), saranno di regola sforniti di documenti di viaggio.La previsione in commento non trova giustificazione nella finalità dichiarata. L’art. 2 comma 7, ultimo periodo, del TU immigrazione (D.lvo n. 286/1998), in ossequio alle convenzioni internazionali in materia cui l’Italia ha aderito ed al diritto eurounitario, vieta a qualsiasi autorità o pubblico servizio di contattare le autorità diplomatiche o consolari dello straniero: a) che intenda presentare domanda di asilo o la cui domanda sia pendente in sede amministrativa; b) la cui domanda sia stata rigettata ma lo straniero si trovi nei termini previsti dalla legge per esercitare il diritto a presentare ricorso in sede giurisdizionale, ovvero il ricorso sia pendente innanzi all’autorità giudiziaria; c) cui sia stato riconosciuta la protezione internazionale.L’identificazione del richiedente asilo – da effettuarsi in base al regolamento UE EURODAC ( 613/2013 del 26 giugno 2013) ed al regolamento UE EUROPOL (794/2016 del 11 maggio 2016), introdotti ai fini dell’applicazione del Regolamento di Dublino e del contrasto alla criminalità organizzata ed al terrorismo – prevede procedure veloci che consistono nel rilievo delle impronte digitali e nel fotosegnalamento, con inserimento dei relativi esiti nella banca dati europei. Nel sistema precedente solo il rifiuto reiterato di sottoporsi alla procedura di identificazione (art 10 ter TU immigrazione) veniva considerato rischio di fuga giustificante il trattenimento.Non si giustifica, pertanto, un trattenimento che può arrivare anche a 7 mesi complessivi per una procedura di identificazione, prevista dai regolamenti indicati e già applicata nei cc.dd. hot spot, che può essere conclusa in poche ore.La previsione, poi, della possibilità che il trattenimento possa avvenire in “strutture idonee nella disponibilità dell’Autorità di Pubblica Sicurezza”, sembra costituire violazione dell’art. 10 della direttiva accoglienza (2013/33/UE) che prevede che il trattenimento possa di regola avvenire in appositi centri di trattenimento, ove, sempre in forza del medesimo art. 10, possano accedere, senza limitazioni, rappresentanti dell’UNHCR, familiari del richiedente, avvocati, consulenti e rappresentati delle ONG, accessi questi ultimi che paiono non compatibili con le attività che ordinariamente si svolgono nei locali nella disponibilità dell’autorità di pubblica sicurezza.Le esigenze sopra descritte, derivanti da obblighi di legge, non vengono soddisfatte dall’aggiunta – contenuta nella parte finale del comma 1 dell’art 4, nel testo licenziato al Senato della legge di conversione – del periodo “Le strutture ed i locali di cui ai periodi precedenti, garantiscono  condizioni di trattenimento che assicurino il rispetto della dignità della persona”, integrando queste ultime la pre-condizione minima di qualsiasi restrizione della libertà personale che, però, non garantisce il rispetto degli ulteriori diritti fondamentali, come sopra richiamati. D) Ampliamento dei reati ostativi L’art. 7 del DL 113 del 2018 amplia il catalogo dei reati che, in caso di condanna dello straniero, possono condurre all’esclusione del riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria (artt. 12 lett. c e 16 lett. d bis D.Lvo n. 251/2007). L’esclusione del riconoscimento, in conformità a quanto previsto dalla Convenzione di Ginevra e dalla direttiva qualifiche, è attualmente legata alla commissione di gravi crimini di diritto internazionale od interno: crimini contro la pace, crimini di guerra o crimini contro l’umanità, come definiti dagli strumenti di diritto internazionale; reati gravi (la gravità è valutata tenendo conto della pena prevista in Italia non inferiore nel minimo a 4 anni o nel massimo a 10) ovvero atti particolarmente crudeli; atti contrari agli scopi ed ai principi delle Nazioni Unite; i reati previsti dall’art 407 comma 2 lettera a) del c.p.p. (si tratta di reati gravi e che destano particolare allarme sociale, quali quelli di criminalità organizzata, omicidio, rapina, sequestro di persona a scopo di estorsione, traffico ingente di sostanze stupefacenti, ecc.). Ciò sulla base del bilanciamento tra i concreti rischi per la vita e l’integrità dell’avente diritto e le esigenze di sicurezza dello Stato, tenuto conto della possibilità di applicare, al richiedente che permanga pericoloso dopo l’espiazione della pena, le misure di sicurezza o di prevenzione previste dal nostro ordinamento.Un’interpretazione del dettato normativo che sia conforme alla Convenzione di Ginevra, nonché alla Direttiva c.d. “Qualifiche”, impone di considerare – in ogni singolo caso di presunta pericolosità per la sicurezza dello Stato ovvero di condanna definitiva per uno dei reati elencati – l’effettiva pericolosità sociale del soggetto, determinata da una complessità di fattori previsti dal diritto penale, quali ad es. entità della pena comminata, eventuale applicazione di misure alternative alla detenzione o altri benefici, inclusione in percorsi rieducativi e di reinserimento sociale (cfr. UNHCR Manuale operatore). Ciò nonostante, l’allargamento dei reati, che dovrebbero essere indice di sicura pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica e per la collettività, a fattispecie quali la resistenza o minaccia a pubblico ufficiale non aggravate, a fronte dei gravissimi comportamenti e della gravità estrema delle condotte previste dagli strumenti internazionali, non può che destare perplessità in ordine alla ragionevolezza di tale previsione (la direttiva procedure, 2013/32/UE, al considerando 24, prevede che per la nozione di ordine pubblico il diritto nazionale possa contemplare 12la condanna per un reato grave) e ciò tanto più a fronte delle conseguenze del semplice avvio del procedimento penali e di cui infra e ciò tanto più a fronte delle conseguenze del semplice avvio del procedimento penali e di cui infra. E)Obbligo di lasciare il territorio in pendenza di ricorso giurisdizionale avverso la decisione della Commissione territoriale L’art 10 comma 1 del DL 113/2018 prevede che in caso di sottoposizione a procedimento penale del richiedente, già sottoposto a trattenimento in quanto ritenuto costituire un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, o, negli altri casi, di condanna non definitiva del richiedente per i reati ostativi al riconoscimento, la Commissione Territoriale deve provvedere all’immediata audizione, con decisione contestuale. In caso di rigetto della domanda, il richiedente ha in ogni caso l’obbligo immediato di lasciare il territorio nazionale, anche in pendenza di ricorso contro la decisione della commissione, il provvedimento di espulsione con immediato accompagnamento alla frontiera è immediatamente esecutivo anche se viene presentato ricorso contro tale provvedimento.Tale norma, oltre che collidere con il principio di non colpevolezza, viola le garanzie previste per assicurare un approfondito esame della domanda: – il diritto del richiedente ad essere informato in ordine ai propri diritti, di allegare documenti o memorie e di contattare rappresentanti dell’UNHCR secondo quanto previsto dall’art 10 D.lvo n. 25/2008, che costituisce attuazione delle direttive procedure 2005/85/CE e 2013/32/UE; – il considerando 20 nuova direttiva procedure – 2013/32/UE – stabilisce che “In circostanze ben definite per le quali una domanda potrebbe essere infondata o vi sono gravi preoccupazioni di sicurezza nazionale o di ordine pubblico, gli Stati membri dovrebbero poter accelerare la procedura di esame, introducendo in particolare termini più brevi, ma ragionevoli, in talune fasi procedurali, fatto salvo lo svolgimento di un esame adeguato e completo e un accesso effettivo del richiedente ai principi fondamentali e alle garanzie previsti dalla presente direttiva”;- il considerando 34 della stessa direttiva prevede che “Le procedure di esame delle esigenze di protezione internazionale dovrebbero essere tali da consentire alle autorità competenti di procedere a un esame rigoroso delle domande di protezione internazionale”. Viola, inoltre, il diritto ad un ricorso effettivo sancito dall’art 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, dall’art. 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, nonché dalle direttive procedure: la direttiva 2005/85/CE – prima direttiva procedure – al considerando n. 27 afferma che “è un principio fondamentale del diritto comunitario che le decisioni relative a una domanda di asilo e alla revoca dello status di rifugiato siano soggette ad un rimedio effettivo dinanzi a un giudice a norma dell’articolo 234 del trattato”; principio 13ribadito dal considerando 50 della nuova direttiva procedure. E’ chiaro che il diritto ad un ricorso effettivo comprende il diritto del richiedente ad essere ascoltato ed a poter interloquire con il difensore, facoltà che sarebbero rese impossibili dal suo rimpatrio.Tanto più a fronte delle gravi conseguenze che comportano il semplice avvio del procedimento penale (essendo quindi sufficiente anche una singola denuncia) o la condanna non definitiva per uno di tali reati, previsione che consente di dubitare della sua conformità al principio costituzionale di non colpevolezza (art 27 Costituzione) e del diritto di difesa ex art 24 della Costituzione, perché l’immediata espulsione impedirebbe al richiedente di difendersi anche nel procedimento penale ove non si è giunti ad una sentenza definitiva di condanna.Tale fondamentale principio è stato recentemente ribadito dalla Corte di Giustizia (Grande Chambre, C-181/16, sentenza del 19 giugno 2018) che ha esplicitamente affermato che “La direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, nel combinato disposto con la direttiva 2005/85/CE del Consiglio, del 1° dicembre 2005, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, nonché alla luce del principio di non-refoulement e del diritto ad un ricorso effettivo, sanciti dall’articolo 18, dall’articolo 19, paragrafo 2, e dall’articolo 47 della Carta, dev’essere interpretata nel senso che non osta all’adozione di una decisione di rimpatrio ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva stessa, nei confronti di un cittadino di un paese terzo che abbia proposto domanda di protezione internazionale, direttamente a seguito del rigetto di tale domanda da parte dell’autorità competente ovvero cumulativamente con il rigetto stesso in un unico atto amministrativo e, pertanto, anteriormente alla decisione del ricorso giurisdizionale proposto avverso il rigetto medesimo”, ma purché “lo Stato membro interessato garantisca la sospensione di tutti gli effetti giuridici della decisione di rimpatrio nelle more dell’esito del ricorso”. Tale principio è stato ribadito in numerose altre pronunce: si veda anche Corte di giustizia dell’Unione Europea, sentenza 30 maggio 2013, C-534/11, Arslan, secondo cui: a) l’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 2008/115/CE (cd. direttiva rimpatri) del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, in combinato disposto con il considerando 9 di quest’ultima, deve essere interpretato nel senso che tale direttiva non è applicabile al cittadino di un paese terzo che ha presentato una domanda di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2005/85/CE del Consiglio, del 1° dicembre 2005, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, e ciò durante il periodo che intercorre tra la presentazione di tale domanda e l’adozione della decisione dell’autorità 14di primo grado che si pronuncia su tale domanda o fino all’esito del ricorso che sia stato proposto avverso tale decisione (nello stesso senso, tra le altre, Cass civ. 19819/2018 e Cass. Pen. 49242/2017 in materia di espulsione quale misura di sicurezza).Viola, altresì, il divieto di respingimento per il caso in cui il richiedente rischi di essere sottoposto a persecuzione, pena di morte o trattamenti inumani e degradanti. Tale divieto è, infatti, assoluto e non comprimibile al pari del divieto di tortura (art 33 della convenzione di Ginevra, art 3 della CEDU, art 19 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, art. 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici). Nella Convenzione contro la Tortura viene espresso il carattere assoluto di tale obbligo, senza eccezioni o clausole di esclusione rispetto ad esso e la Corte EDU ha più volte ribadito il carattere assoluto del principio di non-refoulement, non bilanciabile nemmeno con l’interesse alla sicurezza dello stato (v. ad es. Chahal c. France, 15 novembre 1996, Saadi c. Italia, sentenza del 28 febbraio 2008). “Pertanto, gli Stati hanno l’obbligo di procedere a esami individuali e di assicurare ai richiedenti le garanzie proprie di un procedimento equo, prevedendo il diritto di appello avverso le decisioni negative” (così Comitato Onu contro la tortura, 9 febbraio 2018, General Comment n. 4 sull’attuazione dell’articolo 3 della Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti del 1984 nel contesto dell’articolo 22).F) Domanda reiterataed allontanamento dallo StatoAd obiezioni di illegittimità si prestano le norme introdotte dall’art. 9 del decreto in commento in tema di domanda reiterata. Infatti, la situazione del paese di origine, così come la condizione del richiedente, potrebbero essere profondamente mutate dopo un primo rigetto. L’introduzione di una nuova ipotesi di reiterazione della domanda al comma 1 dell’art 2 del D.lvo n. 25/2008, nel testo licenziato al Senato (vd. art 9 comma 1 che inserisce la lettera b bis), appare comprimere eccessivamente il diritto del richiedente ad un ricorso effettivo, in considerazione della diversa procedura cui la domanda reiterata è sottoposta. Infatti, si considera reiterata la domanda anche nel caso in cui il richiedente abbia esplicitamente ritirato la prima domanda e nel caso vi sia stata l’estinzione del primo procedimento a seguito di sospensione per 12 mesi conseguita all’allontanamento del richiedente dalle strutture di accoglienza o nel caso lo stesso si sia sottratto alla misura del trattenimento negli Hotspot e nei CPR. Si tratta, quindi, di casi in cui il richiedente non è stato sentito e non vi è stata una decisione nel merito, che viene parificata alle ipotesi di reiterazione della domanda a seguito di rigetto nel merito.Particolarmente grave è poi la previsione secondo la quale (comma 2 lettera d), in caso la domanda reiterata venga presentata durante 15l’esecuzione di un provvedimento di allontanamento, questa non viene nemmeno esaminata.Tale disposizione, che introduce l’art 29 bis nel d.lvo n. 25/2008, e la disposizione che abroga la norma che prevedeva la possibilità per il richiedente di presentare osservazioni in caso di reiterazione della domanda e prima della dichiarazione di inammissibilità, appaiono in contrasto con l’art 40 della direttiva procedure (2013/32/UE), che, in materia di domande reiterate testualmente prescrive: “Per decidere dell’ammissibilità di una domanda di protezione internazionale ai sensi dell’articolo 33, paragrafo 2, lettera d), una domanda di protezione internazionale reiterata è anzitutto sottoposta a esame preliminare per accertare se siano emersi o siano stati addotti dal richiedente elementi o risultanze nuovi rilevanti per l’esame dell’eventuale qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva 2011/95/UE.” Fbis) Paesi di origine sicuri L’art. 7-bis del decreto legge, nella versione approvata al Senato, introduce nel corpo del d.lgs. n. 25/2008 un nuovo articolo 2 bis, rubricato “Paesi di origine sicuri” che prevede l’elaborazione con decretodel Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, di concerto con i Ministri dell’Interno e della Giustizia, di una lista ufficiale, periodicamente aggiornata, di Paesi di origine “sicuri” nell’ottica di semplificare la definizione delle domande di protezione per il caso in cui il richiedente provenga per l’appunto da uno dei Paesi inclusi nella lista. La norma stabilisce altresì i criteri in base ai quali un paese di origine, non appartenente all’Unione Europea, può essere considerato sicuro.La possibilità per gli Stati membri di dotarsi di tale lista, ai fini della semplificazione dell’esame delle domande di asilo, era prevista già dalla direttiva UE/25/2008 e successivamente dalla direttiva 2013/32/UE (c.d. direttiva procedure) agli articoli 36 e 37, ma di tale facoltà non si era finora avvalso il legislatore italiano.Nei dodici paesi europei in cui si è ricorsi a queste liste (per la lista dei paesi adottati dai 12 stati della UE si veda https://ec.europa.eu/home-affairs/sites/homeaffairs/files/what-we-do/policies/european-agenda-migration/background-information/docs/2_eu_safe_countries_of_origin_it.pdf) ci sono stati numerosi contenziosi anche in ordine ai paesi che vi erano stati inseriti.Inoltre, si rinvengono divergenze significative tra i diversi paesi sia sotto il profilo sostanziale della scelta o dell’interpretazione di alcuni criteri che ai sensi della direttiva definiscono sicuro uno Stato di origine o uno Stato terzo, sia sotto il profilo procedurale.Se il richiedente proviene da uno dei paesi di origine inseriti nella lista dei paesi sicuri, la domanda è rigettata, salvo che il richiedente provi che il paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso si trova. 16Il provvedimento di rigetto può essere motivato facendo solo riferimento alla circostanza che il richiedente non abbia dimostrato la sussistenza di gravi motivi per ritenere non sicuro il paese di origine in relazione alla sua situazione particolare (il comma 5 dell’art 7 bis modifica l’art. 9, comma 2 del D.lgs. 25/2008 introducendovi il comma 2 bis). Si realizza così, una sostanziale inversione dell’onere della prova, reso oltremodo gravoso dalla previsione, in tali ipotesi, di una procedura accelerata e da una formale attenuazione del dovere di cooperazione istruttoria dell’organo giudicante.Senonché, trattandosi di un atto amministrativo interministeriale, emanato sulla scorta di criteri normativi, appare dubbio che esso, quanto all’identificazione del Paese sicuro, possa considerarsi vincolante. Venendo, infatti, in gioco diritti costituzionali, rimane fermo il potere dell’autorità giurisdizionale ordinaria di riconsiderare l’inserimento di un Paese nella lista dei Paesi sicuri mediante congrua motivazione, tanto più ove la predetta indicazione si discosti dai criteri di inserimento pure previsti dalla norma generale (così parere approvato dal CSM sul testo licenziato al Senato). Resta, fermo, in ogni caso, come anche raccomandato dalla Commissione Europea, il dovere del giudice di procedere all’esame pieno ed individualizzato della domanda di protezione internazionale, dovendosi comunque indagare a fondo le esigenze di protezione internazionale di ciascun richiedente asilo in ossequio agli obblighi costituzionali ed internazionali ed al fine di evitare il rischio di violare il divieto di trattamenti inumani e degradanti.Occorre, inoltre, tenere conto, del parere adottato dall’Agenzia europea per i diritti fondamentali, n. 1/2016 (fra-2016-opinion-safe-country-of-origin-01-2016_en) in vista dell’adozione della proposta della Commissione di un regolamento su un elenco comune in tutta l’Unione europea (COM(2015)452). L’Agenzia riconosce che una classificazione comune di Paesi di origine sicuri può servire a rendere più rapide le decisioni sulle procedure di asilo, ma mette in guardia sul rispetto degli obblighi che incombono su tutte le autorità nazionali tenute ad assicurare un accertamento sulla situazione individuale dei richiedenti asilo.Il diritto di asilo, infatti, non rientra tra quelli negoziabili e, quindi, l’elenco, non può essere l’unico strumento disponibile per accelerare le domande di asilo. In particolare, l’Agenzia Ue chiede il rispetto di alcuni diritti inviolabili: la garanzia nell’attuazione del principio di non refoulement, la protezione dalle espulsioni collettive, la piena applicazione del diritto al ricorso giurisdizionale, la tutela dei minori non accompagnati e il diritto a non essere discriminati. Fter) manifesta infondatezza della domandaL’art 7 bis inserisce nel d. lvo n. 25 2008 l’art. 28 ter (domanda manifestamente infondata), ampliando notevolmente le ipotesi in cui la domanda del richiedente asilo può essere dichiarata manifestamente 17infondata, con le gravi conseguenze, sul piano delle garanzie difensive,che tale pronuncia comporta (procedura accelerata ed esclusione dell’effetto sospensivo automatico con la proposizione del ricorso giurisdizionale avverso la domanda di rigetto). Mentre in precedenza era previsto che la domanda doveva considerarsi manifestamente infondata quando il richiedente aveva sollevato questioni che non avevano alcuna attinenza con i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, la disposizione normativa in commento aggiunge ipotesi che introducono automatismi in situazioni che non pare possano rientrare nel concetto di manifesta infondatezza (nello stesso senso il parere approvato dal CSM già citato), in un’ottica sostanzialmente sanzionatoria (come ad esempio il caso in cui il richiedente abbia rifiutato di sottoporsi al rilievo dattiloscopico, o sia entrato illegalmente nel territorio nazionale e senza giustificato motivo non abbia presentato tempestivamente la domanda di asilo).F quater) Rientro in zona diversa da quella di origineL’art 10 comma 1, nel testo licenziato al senato, inserisce la lettera bter) al comma 1 dell’art 32 del D.lvo n. 25 del 2008, in base al quale la Commissione territoriale può rigettare la domanda nel caso in cui “in una parte del territorio del paese d’origine il richiedente non ha fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corre rischi effettivi di subire danni gravi o ha accesso alla protezione contro persecuzioni o danni gravi e può legalmente e senza pericolo recarvisi ed essere ammesso e si può ragionevolmente supporre che vi si ristabilisca”.La norma, nella sua genericità, appare di difficile interpretazione non risultando chiari i parametri di valutazione da seguirsi per ritenerne la concreta applicabilità: in particolare, non sembra chiarito se siasufficiente solo la mancanza di rischio o sia necessario che alla persona venga fornita una protezione effettiva e una assistenza materiale. Certo è che l’esame dei presupposti indicati dalla norma dovrà essere rigoroso. La valutazione in ordine alla possibilità che il richiedente si trasferisca in un’altra zona non può che essere legata alla effettiva volontà del richiedente asilo, non essendo consentite “deportazioni di fatto”, inoltre, dovrà essere considerata in concreto la situazione della zona in questione, in particolare se la stessa risulti già investita dal fenomeno dei cd. “sfollati interni”, in qual caso il richiedente non sarà esente da pericoli o danni gravi, in considerazione delle concrete condizioni di vita in tali zone; dovrà, inoltre, tenersi conto delle effettiva possibilità di conseguire condizioni di vita dignitose in luogo diverso da quello di origine.Fquinquies) RisorseLa previsione di ulteriori sezioni delle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione Internazionale, al fine di velocizzare 18l’esame delle domande di protezione internazionale (art 9 ultimo comma del testo licenziato al Senato), appare misura del tutto inutile per il fine così dichiarato, se non si procederà contemporaneamente ad un serio potenziamento in termini di risorse, umane e non solo, delle sezioni specializzate in materia di immigrazione, tanto più necessario alla luce del poderoso aumento del contenzioso che scaturirà dalla applicazione del DL n. 113/2018. G) Disposizioni in materia di accoglienza dei richiedenti asiloL’articolo 12 del DL 113/2018 dispone un forte ridimensionamento del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (o SPRAR), istituito nel 2002 e che ospita attualmente 35.881 persone, coinvolgendo circa 1.200 comuni italiani, limitandone la funzione all’accoglienza di chi già ha ottenuto la protezione internazionale con pronuncia definitiva.Circa la metà degli attuali ospiti dei centri SPRAR dovranno essere sistemati nei Centri di accoglienza straordinaria (o CAS), gestiti dai prefetti e non dalle amministrazioni locali, che seguono protocolli di emergenza, hanno standard di accoglienza più bassi e nessun obbligo di rendicontazione.Nel sistema SPRAR gli enti locali, in maniera volontaria, presentano progetti di accoglienza al Ministero dell’Interno che, con l’ausilio del Servizio Centrale, gestito dall’ANCI (Associazione Nazionale dei Comuni Italiani), li valuta e li finanzia attraverso il Fondo Nazionale per le Politiche ed i Servizi dell’Asilo (alimentato dai finanziamenti che confluiscono dal Fondo Europeo per i Rifugiati). I Comuni gestiscono poi direttamente, o attraverso enti del Terzo Settore, i progetti sul territorio. Le risorse richieste per finanziare i progetti, sono spese secondo linee guida e regole molto stringenti, che non sono previste per i centri gestiti dal Ministero dell’Interno. Solo quanto effettivamente speso viene rimborsato. Ogni spesa va documentata e la documentazione deve essere raccolta e inviata al Servizio Centrale che ne verifica la congruenza. Per ogni voce di spesa ci sono dei limiti, superati i quali le spese non possono essere recuperate. Per i Cas, invece, non sono previsti standard minimi dei servizi da rendere ed un obbligo stringente di rendicontazione, ma solo un registro delle presenze (non a caso gli scandali più recenti in relazione alla gestione dell’accoglienza – v. quanto emerso nel processo cd mafia- capitale – hanno riguardato principalmente tali centri). I centri SPRAR sono, nella quasi totalità dei casi, normali appartamenti, case inserite senza alcuna straordinarietà nel tessuto urbano. Le persone accolte, firmano un contratto d’accoglienza che prevede diritti e doveri e sono responsabili della casa nella quale vivono. Fin dal primo giorno avviano, con il sostegno degli operatori sociali, un percorso verso un’autonoma inclusione sociale: formazione linguistica, formazione lavorativa, tutoraggio e accompagnamento per l’integrazione sociale. I richiedenti asilo o rifugiati sono seguiti dagli operatori singolarmente. L’ente gestore si fa carico di verificare la condizione psicologica della 19persona in un ambiente protetto, prendendosi il tempo necessario per far emergere eventuali traumi e violenze subite (tutto ciò in base alle stringenti linee guida previste per il sistema SPRAR). I CAS ed i CARA devono, invece, offrire solo i servizi minimi (il letto ed un pasto), non hanno obblighi di rendicontazione così stringenti e consistono perlopiù in megastrutture che ostacolano l’integrazione sul territorio creando anche problemi di sicurezza. In molti casi, la mancanza della cura necessaria per ogni persona accolta, si trasforma in disagio sociale. Nei grandi centri d’accoglienza molti richiedenti asilo diventano “emarginati” o vengono abbandonati senza alcun progetto che consenta di costruire un percorso di uscita autonomo e senza nulla da fare durante l’intera giornata. Riteniamo, pertanto, che tale scelta non solo non corrisponda agli standard previsti dagli artt. 17 e 18 della direttiva accoglienza (2013/33/UE), ma costituisca anche un rischio concreto per la sicurezza dei territori. Strutture quali i C.A.R.A., che ospitano migliaia di persone di diverse etnie, alle quali non viene offerta alcuna possibile attività di formazione o lavorativa – anche in servizi gratuiti di pubblica utilità – non può che dar luogo a fenomeni di emarginazione e violenza od alimentare il rischio che i richiedenti asilo diventino facile preda dello sfruttamento lavorativo o della criminalità.Gli standard di accoglienza che prevedono il coinvolgimento degli enti territoriali, al fine di favorire l’integrazione sul territorio, l’ospitalità di piccoli gruppi, l’obbligo per i richiedenti di seguire corsi di lingua e di formazione professionale e di svolgere lavori socialmente utili, non solo favoriscono l’integrazione, ma possono essere utili per la stessa comunità che li accoglie e costituiscono garanzia per la sicurezza dei territori ove i richiedenti vengono accolti.Il sistema diffuso di accoglienza SPRAR non a caso è assurto a modello, buona prassi, anche per altri paesi europei, mentre il sistema previsto dagli artt. 9 e 11 del D.lvo n. 142/2015, così come modificato dal D.L. 113/2018, delinea un sistema di accoglienza esclusivamente emergenziale, che prima si prevedeva dovesse valere per il minor tempo possibile in attesa del trasferimento in un centro del sistema SPRAR (in conformità a quanto previsto dall’art 18 par. 9 della direttiva accoglienza). L’art 11 del D.lvo cit. prevede, infatti, che in tali centri vengano soddisfatte solo le esigenze essenziali dell’accoglienza.H) Disposizioni in materia di iscrizione anagrafica L’art. 13 D.L. 113/2018 prevede che il permesso di soggiorno per richiedenti asilo, pur avendo valore di documento di riconoscimento, non possa più costituire titolo per l’iscrizione anagrafica.La relazione accompagnatoria del decreto non chiarisce in modo soddisfacente la ratio di tale norma.