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Abolire il carcere si può

Continua il dibattito all’appello  dell’Osservatorio Repressione per la costruzione di un movimento antipenale. Ospitiamo l’intervento dell’ Associazione Yairaiha Onlus

Negli ultimi anni abbiamo faticosamente portato avanti alcune specifiche battaglie, abolizione dell’ergastolo e del 41 bis, in quanto massima espressione della vendetta di Stato e della cancellazione delle garanzie costituzionali.

La fase storica e politica che stiamo attraversando impone una riflessione adeguata che metta in discussione il sistema securitario e il sistema carcerario, di per sé fallimentare, disumano e disumanizzante il cui unico compito è dare l’idea di sicurezza senza che questa passi attraverso le garanzie sociali necessarie al raggiungimento del benessere di una comunità.

L’emergenzialismo elevato a sistema, ha prodotto, e continua a produrre, una ipertrofia della legislazione penale e penitenziaria, in nome di surrettizie emergenze criminali artatamente alimentate. Basterà leggere e analizzare i dati relativi ai fenomeni criminali nell’ultimo decennio, disponibili sul sito della Direzione Investigativa Antimafia, per capire che la reale funzione del carcere è altra. La pretesa funzione ed efficacia del carcere e dei suoi apparati è sconfessata dai numeri, è sconfessata dalle percentuali di recidiva, è sconfessata dal degrado in cui versano le strutture e dalle condizioni disumane in cui sono relegate oltre 60.000 persone. Ulteriormente questi dati dovranno essere letti nel quadro più generale delle politiche sociali ed economiche. Gli elementi che emergono sono molteplici: a fronte di un calo sostanziale della quantità e qualità dei reati abbiamo un inasprimento delle pene ed un aumento delle fattispecie di reati. Dunque, se i reati comuni sono in calo e il potere militare della criminalità organizzata è stato pressoché annientato, perché si continuano ad ampliare e moltiplicare le fattispecie penali, ad inasprire i regimi penitenziari e a voler costruire nuove carceri?

Il carcere è lo specchio dei tempi che stiamo vivendo. Degrado e abbandono, indifferenza ed emarginazione. Alienazione. Dentro come fuori. Le responsabilità sono sistemiche ma non si riesce ad individuare chi, tra i tanti attori coinvolti nella farraginosa macchina penale, se ne debba assumere onere e responsabilità. Uno scaricabarile. L’umanità reclusa è stata trasformata in numeri da cancellare, assieme all’art. 27 svuotato, oramai, del suo onere a garanzia e tutela della dignità, anche di coloro che sbagliano.

Le leggi sono state immaginate e concepite per superare la vendetta individuale di fronte ai torti subìti; alle pene, attenzione, non al carcere, nelle intenzioni dei padri costituenti è stato dato il compito ri-educare le persone che i torti hanno commesso. Un compito difficile quello che l’articolo 27 la Costituzione assegna allo Stato perché deve non solo dare gli strumenti per il superamento della mentalità deviante, ma deve anche, e soprattutto, rimuovere gli ostacoli sociali, economici e culturali che hanno permesso la devianza. Si potrebbe addirittura osare e scorgere un orientamento abolizionista nei padri costituenti. E già agli inizi del secolo numerosi studiosi mettevano in discussione l’efficacia del “sistema cellulare” definendolo spropositato, teso ad ottenere pentimento, costoso, barbarico e brutale, definendo la cella “un focolare di odio contro la società”. E ancora “Il sistema cellulare elimina e atrofizza l’istinto sociale che già è molto atrofico nei delinquenti; rende inevitabile la pazzia fra i detenuti o la consunzione (per onanismo per insufficienza di moto di aria)”.[1]>>

Se già tra la fine dell’ottocento e i primi del novecento, si certificava l’inutilità e i danni prodotti dalla detenzione, come è possibile che a distanza di oltre un secolo la nostra società accetti passivamente non solo la detenzione ma anche l’abolizione delle misure alternative? La riforma dell’ordinamento penitenziario penta leghista ha riportato il sistema penale indietro nei secoli, intossicato dal mantra della “certezza della pena”.

Il processo di destrutturazione della retorica giustizialista imperante che vede nello stato penale carcerocentrico l’unica soluzione possibile per sconfiggere il “male” variamente inteso, a nostro avviso è iniziato da un po, ora si tratta di concentrare gli sforzi e la produzione di materiali e iniziative in un processo collettivo che sappia far comprendere cos’è il carcere, e quali i suoi fini reali, alla società. Alle persone private della libertà chiediamo un passaggio ulteriore, quasi uno scatto d’orgoglio e dignità: smetterla di essere “carne da macello” in un sistema che non li vuole né consapevoli né “rieducati”. Il carcere è un sistema produttivo e, in quanto tale è regolato dai meccanismi di domanda/offerta esattamente come un qualsiasi altro settore produttivo e, per funzionare, deve produrre crimine e criminali altrimenti fallisce. Ma del fallimento dell’istituzione carceraria potremmo scriverne trattati, solo che non si ammette perché altrimenti tutto il carrozzone penale verrebbe a cadere. Dobbiamo pretendere che vengano sconfitte le cause del crimine non che ne vengano cancellati i prodotti. Pretendere la certezza dei diritti prima della certezza della pena.

E’ necessario, oggi più che mai, provare a far nascere collettivamente una nuova sensibilità diffusa affinché si superi non solo la retorica securitaria, ma la necessità stessa della segregazione fisica, della privazione della libertà, come unico dispositivo correttivo dei mali sociali. Ritornare ad essere “comunità sociale” contro lo Stato penale.

Associazione Yairaiha Onlus

[1] RICCI, L’evoluzione della vita notturna nella segregazione cellulare continua, in Scuola Positiva, 1901,513, 577; COLUCCI, Gli effetti della cella nei corrigendi, in Scuola Positiva 1905, 265; E. FERRI Sociologia criminale, TORINO, 1892.

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