La legalità costituzionale, che comprende in sé il diritto all’inviolabilità della propria integrità psico-fisica e dunque il diritto a non essere maltrattati e torturati, non si ferma sulla soglia di una caserma dei carabinieri.
A quasi due lustri dalla morte di Stefano Cucchi, dopo anni di indagini, dopo processi finiti nel nulla, dopo maldicenze e ingiurie nei confronti della famiglia di Stefano, dopo deviazioni e tentativi di infangare ingiustamente alcuni agenti di Polizia penitenziaria, giunge, inaspettata alla luce dei precedenti storici, e per questo ancora più importante, la decisione del Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri di chiedere al Ministero della difesa di costituirsi parte civile nel prossimo procedimento penale per depistaggio, che vede il coinvolgimento di alcuni militari, i quali, come abbiamo sentito e visto nelle scorse settimane, avrebbero fatto di tutto per occultare una verità invece composta da pestaggi, violenza, torture, indifferenza e morte.
È questa una decisione, successivamente confermata dal presidente del Consiglio, che restituisce dignità allo Stato e allo stesso tempo ripaga le vittime delle tante offese e calunnie subite.
Le istituzioni italiane molto debbono a Ilaria Cucchi e ai suoi genitori. Senza la loro caparbietà, senza il loro infinito dolore, senza la fatica di un’instancabile Ilaria, capace di fare da muro contro calunniatori e miserabili anonimi aggressori, e senza la strategia, di certo non difensiva per usare una metafora calcistica, dell’avvocato Anselmo e degli altri legali, Stefano Cucchi sarebbe stato uno dei senza nome e dei senza storia che sono morti nelle mani dello Stato. Lui invece ha un nome, ha un volto, ha un’anima, ha una storia grazie a Ilaria e a chi, con lei, ha lottato stoicamente per la giustizia e la verità.
Nei casi di tortura e maltrattamenti il raggiungimento della verità storica attraverso il processo non può che essere un affare di Stato. Non è qualcosa che riguarda solo una madre, un padre o una sorella. La violenza istituzionale è sempre una questione che riguarda l’intera comunità. Non è ridimensionabile a un delitto tra privati ma è un crimine di rilevanza pubblica. È lo Stato che deve preoccuparsi di proteggere i propri cittadini dai suoi custodi infedeli. È lo Stato che deve difendere la memoria delle vittime di tortura dai loro carnefici. È lo Stato democratico che viene ferito quando la legalità si ferma sul portone di una caserma, di un commissariato, di un carcere, di un centro per migranti.
Ieri il Generale Giovanni Nistri ha scritto che il dolore di Stefano è il nostro dolore. Ha ragione. Il dolore di Stefano, il dolore di Ilaria è il dolore di tutti noi. Deve essere il dolore di chi rappresenta le istituzioni, le quali non devono mai sottrarsi alla giustizia. La divisa non dà diritto all’immunità penale. Di fronte a tutti i casi di abusi, maltrattamenti, tortura lo Stato dovrebbe sempre costituirsi parte civile.
La decisione annunciata dal comandante generale dell’Arma non ha precedenti significativi. Nella storia dell’Italia repubblicana le forze dell’ordine sono state sempre protette, come abbiamo visto accadere a Genova per le torture alla scuola Diaz e alla Caserma di Bolzaneto, da un insano spirito di corpo che nuoce alla verità e alla democrazia. Lo spirito di corpo non fa bene alla trasparenza; è l’elogio della reticenza.
La retorica delle male marce a protezione dello spirito di corpo è solo una formula auto-assolutoria.
La decisione del Generale Nistri, dunque, speriamo contribuisca a spiegare a tutti che la giustizia viene sempre prima dello spirito di corpo.
Patrizio Gonnella
da il manifesto