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La schiavitù non è un pranzo di gala

Caporalato e sfruttamento lavorativo nel rapporto tra potere politico e giudiziario. Il caso della sentenza Nardò come paradigma. Cosi la legge Martina contro il caporalato potrebbe avere l’effetto di bloccare tutti i processi in corso per schiavitù cominciati prima del 2016

Era il 30 luglio del 2011, tra le immense campagne al confine tra le province di Brindisi, Lecce e Taranto. Quel giorno nei pressi della masseria Boncuri, nel comune di Nardò, si levò alta la voce dei braccianti africani giunti in quel periodo da ogni parte d’Italia per la raccolta delle angurie e dei pomodori.

Sciopero ora”. Era l’urlo della protesta che risuonava da un megafono improvvisato maneggiato da Ivan, 26enne studente camerunense di ingegneria al Politecnico di Torino, arrivato qualche giorno prima in Puglia per la raccolta. La stagione delle angurie quell’anno era andata male, con più della metà del raccolto che era rimasto a marcire nei campi. Così i braccianti africani speravano di “rimediare” qualche soldo in più con i pomodori. Ma, dopo i primi giorni di caldo e fatica, quando avevano scoperto che avrebbero guadagnato 3 euro e mezzo per ogni cassone da 100 chili, avevano incrociato le braccia. Circa 40 braccianti avevano smesso di lavorare, chiedendo di trattare direttamente con le aziende. Come funzionava il sistema alla base dello sfruttamento della manodopera, lo spiegarono allora l’associazione Finis Terrae, e le Brigate di solidarietà attiva, organizzazioni che da due anni mantenevano attivo un presidio socio-legale presso la Masseria Boncuri di Nardò nell’ambito della campagna “Ingaggiami. Contro il lavoro nero”.

«A monte ci sono cinque, sei aziende, che coltivano circa 600-700 ettari destinati a cocomeri e pomodori. Esse affidano la raccolta e la vendita ad altre, seguendo le regole del subappalto. Il sistema funziona come uno spazio politico nel quale le convenienze cambiano rapidamente». Denunciando dunque l’esistenza di una forma consolidata di sfruttamento di lavoro migrante nell’agricoltura, in pratica il sistema del nuovo caporalato, un fenomeno in base al quale le inchieste giudiziarie condotte dalla Procura antimafia di Lecce ipotizzeranno negli anni a venire la fattispecie di riduzione di schiavitù. È lì che accadeva, nella Puglia delle lotte sindacali di Peppino di Vittorio, in quella contemporanea progressista guidata da Nichi Vendola.

«Lo sciopero di Nardò costituisce un punto di svolta importante – spiegava allora Alessandro Leogrande, osservatore attento – Per la prima volta i braccianti stranieri, impiegati nella massacrante raccolta del pomodoro, si sono rivoltati contro i loro sfruttatori. Non è stata una rivolta esacerbata da una aggressione razzista, come nel caso di Rosarno». E ancora: «È stata una protesta matura, che ha avuto al centro della propria denuncia le condizioni di lavoro e di sfruttamento, i rapporti di forza nelle campagne, la rappresentanza».

Dopo gli scioperi di Nardò. Negli anni a venire, poi, di quei caporali se ne sono occupati i magistrati. Anche se le prime denunce risalgono già al 2009, ad opera di Finis Terrae e del progetto Libera (da non confondere con l’associazione fondata da don Luigi Ciotti). Ma è il 23 maggio del 2012 quando la procura antimafia di Lecce e i Ros dei carabinieri mettono sotto scacco un’organizzazione internazionale che per anni aveva sfruttato i lavoratori migranti reclutandoli direttamente in AfricaE in cella ci finirono, allora, in sedici, anche numerosi imprenditori, con i capi di imputazione più vari che comprendevano, per alcuni di loro, «la riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, uniti all’intermediazione illecita e allo sfruttamento del lavoro».

Non soltanto. Il 13 luglio del 2017 nel processo Sabr, nato appunto da quella operazione, la Corte di Assise di Lecce in primo grado aveva pronunciato una sentenza “storica” condannando 13 imputati e riconoscendo il reato di «riduzione in schiavitù di lavoratori stranieri» che sarebbe stato commesso secondo i giudici anche da alcuni imprenditori italiani. Tra di loro, c’era Pantaleo Latino, considerato il dominus di un cartello di aziende agricole, il quale si occupava anche di reperire «i locali fatiscenti in cui venivano alloggiati gli extracomunitari utilizzati sui campi». La sentenza riconobbe anche il risarcimento per le parti civili che si erano costituite nel giudizio, la Cgil nazionale, la Flai Cgil Lecce, la Regione Puglia, l’associazione Finis Terrae, oltre che in favore di sei braccianti, tra cui Yvan Sagnet, bracciante camerunense a capo della rivolta del 2011.

Sono passati dieci giorni, invece, dalla sentenza di secondo grado della Corte d’Assise d’Appello di Lecce che ha stravolto l’impianto di quel giudizio stabilendo che «il reato di caporalato legato alla schiavitù è stato introdotto nell’estate del 2011 mentre in questo procedimento si contestano fatti avvenuti tra il 2009 e il 2011». E ancora, in sostanza i giudici, accogliendo la tesi della difesa hanno assolto 11 imputati, tra questi l’imprenditore Pantaleo Latino, il “re delle angurie’”, che era ritenuto dall’accusa proprio «a capo del sodalizio criminale transnazionale dedito allo sfruttamento e riduzione in schiavitù dei migranti impegnati nella raccolta delle angurie nelle campagne di Nardò».

Yvan Sagnet, oggi presidente della Rete NoCap e cavaliere al merito della Repubblica italiana, ha commentato: «Siamo arrabbiati perché pensiamo, come parti civili e come lavoratori, che il fatto ci sia: noi abbiamo subito nelle campagne questo tipo di reato». Una sentenza, dunque, che rischia di far venire meno lo stesso risarcimento riconosciuto alle parti civili. Una pronuncia, questa, che secondo l’ex Sindaco di Nardò e parlamentare di Forza Italia Rino Dell’Anna, restituisce l’onore perduto alla comunità locale

Oltre il danno c’è la beffa. Racconta Gian Luca Nigro dell’associazione Finis Terrae: «La legge 199/2016, conosciuta come la legge di contrasto al caporalato, nata proprio sulla spinta dello sciopero di Nardò sembra avere come effetto il rovesciamento del suo intento». Ovvero, prosegue Nigro: «La legge assorbe la gran parte della fattispecie individuate dall’art. 600 del codice penale, producendo così il rischio che quanto avvenuto per la sentenza d’appello del processo Sabr possa avvenire anche in altri processi che abbiano come capo d’imputazione principale la riduzione in schiavitù». Conclude: «Di fatto la legge n. 199 sta diventando lo strumento per esautorare i processi aperti prima della sua approvazione. Siamo di fronte a un processo di normalizzazione. Ne è la prova l’emanazione delle linee guida sui controlli alle aziende, indicate in una recente circolare del ministero del Lavoro che sembrano voler essere un deterrente, invece che una spinta all’emersione del lavoro nero e del caporalato».

Il caporalato italiano in agricoltura. Un’analisi del contesto. Uno dei capitoli della relazione 2018 della Commissione parlamentare antimafia contiene un focus specifico su “Mafie, migranti, tratta degli esseri umani e nuove schiavitù” in cui si chiarisce, invece, che «esiste una profonda relazione tra l’odierno contesto globale delle migrazioni, con i corrispondenti flussi economico-sociali, e il fenomeno della moderna schiavitù contemporanea». Non solo. Secondo quanto è stato rilevato dal rapporto Istat che risale all’anno precedente, dal titolo «L’economia non osservata nei conti nazionali», si registra «un salto di qualità dell’infiltrazione mafiosa nella filiera agroalimentare, fatta di gestione dell’intermediazione illecita di manodopera ma soprattutto di tratta internazionale degli esseri umani».

Ci sono poi i dati diffusi nel luglio scorso dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, il quale ha calcolato che «sono 400mila oggi in tutta Italia i lavoratori agricoli stagionali esposti al rischio dello sfruttamento lavorativo e del sistema del caporalato, la maggior parte dei quali sono stranieri che si trovano anche in condizioni di forte vulnerabilità sanitaria, sociale, occupazionale». Il centro studi del sindacato ha calcolato anche che esistono sull’intero territorio italiano 15mila caporali e che «la media dei lavoratori reclutati in condizioni indecenti con punte di assoggettamento para- schiavistico sul totale dei 220 distretti agricoli censiti è di seicento persone per ogni distretto agricolo».

In Puglia le morti avvenute a causa del caldo e della fatica nell’estate del 2015, tra cui anche quelle di alcuni braccianti di nazionalità italiana, e di cui si è scritto ampiamente su queste pagine, e le cronache più recenti dell’agosto scorso, quando in provincia di Foggia morirono 16 braccianti in due distinti incidenti stradali, hanno riportato l’attenzione sul fenomeno del caporalato nella regione Puglia, da parte sia delle istituzioni locali che di quelle nazionali. Se ne riparlerà forse dopo le prossime morti? Fino ad allora la schiavitù contemporanea sarà considerata alla stregua di un pranzo di gala.

Gaetano De Monte

da Dinamo Press