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Il razzismo nel calcio giovanile è un problema per tutti

È probabile che Beppe Grillo non segua lo sport, soprattutto lo sport giovanile. Dall’alto della sua esperienza di blogger e manipolatore di piazze, Grillo assicura che il razzismo in Italia è un fenomeno “esclusivamente mediatico”. Purtroppo, la realtà è piuttosto diversa per migliaia di ragazzi e ragazze che praticano sport. Sono sempre più numerosi i casi di abusi razzisti registrati sui campi di gioco, e non solo nel calcio, ma anche in sport storicamente meno esposti a questi problemi, come la pallacanestro e il rugby. Giovani di origine immigrata, di solito quelli con la pelle un po’ più scura, sono fatti oggetto di insulti che si concentrano esclusivamente sulla loro supposta “diversità”. Il fenomeno non è ovviamente nuovo, ma negli ultimi anni l’evidenza ha raggiunto limiti che è difficile ignorare. Prendiamo il calcio, per esempio.

Nel 2013 la Federazione Giuoco Calcio introdusse nel regolamento una norma che prevede la squalifica di almeno 10 giornate per tesserati che si siano resi colpevoli di ‘comportamenti razzisti e discriminatori’. Ad oggi, questa norma è stata comminata in circa 50 casi, ma è solo la punta di un iceberg. Purtroppo la federazione non rende pubblici i dati sugli episodi conclamati, quelli inseriti nei referti arbitrali, e questi sono stati da me raccolti attraverso il monitoraggio dei comunicati disciplinari delle sezioni regionali e dalla stampa locale. L’aspetto più preoccupante è che poco meno della metà dei casi riguarda minori. Bambini come quell’undicenne di Prato, che durante una partita della categoria esordienti ha gridato ‘ripetute offese razziste’ all’arbitro, un giovane di origine immigrata. Nemmeno il calcio d’élite è immune da questa clima. Nel 2014 un giocatore degli allievi del Milan, un sedicenne, venne squalificato per cinque giornate per aver gridato ‘questo è per te, negro di merda’ ad un avversario dopo aver segnato un gol.

Per la cronaca, il Milan stava vincendo 5-0. In quel caso, la squalifica venne ridotta perché l’allenatore (l’ex campione Cristian Brocchi) agì prontamente, togliendo il ragazzo dal campo ed obbligandolo a chiedere scusa. Venne anche escluso dalla rosa per altre quattro giornate e la società pagò una multa. A dicembre del 2018, la squalifica è stata comminata a un giocatore under-17 della provincia di Trieste, per aver ripetutamente insultato tre avversari di colore. In questo caso, l’arbitro ha sottolineato nel suo referto che nessuno della società ha espresso scuse per quanto accaduto.

Durante la partita, anche membri del pubblico avevano insultato gli stessi giocatori. Di fronte a questa realtà la domanda che si pone è semplice: può lo sport rappresentare un’isola “felice” mentre nella società, nel dibattito politico e nei mass media, la xenofobia viene normalizzata e trasformata in iniqui slogan nazionalistici (“prima gli italiani”)?

E’ possibile e auspicabile. Ma possono le squalifiche e le multe bastare a rendere l’ambiente sportivo più accogliente e inclusivo? La sfida che si pone alle federazioni sportive è di passare da un atteggiamento puramente punitivo, ad uno che combina l’aspetto disciplinare con quello educativo e culturale. Al momento, nel caso del calcio, una squalifica di dieci giornate non è seguita da un programma educativo. In altri paesi, per esempio in Inghilterra e in Germania, le squalifiche sono al massimo di cinque giornate ma impongono di partecipare ad incontri o corsi per familiarizzare con le implicazioni del discorso razzista e discriminatorio.

In Inghilterra, i minori di 12 anni non vengono squalificati ma obbligati a seguire un percorso educativo. Per un paese come l’Italia, con un passato coloniale praticamente ignorato dai programmi scolastici, è fondamentale affrontare questi temi. Nel corso del Novecento lo sport ha giocato un ruolo importante nell’emancipazione delle minoranze in paesi come gli Usa, ma allo stesso tempo è stato terreno di esclusione. Per questo, le federazioni sportive dovrebbero impegnarsi in programmi a lungo termine, in attività formative sulle discriminazioni che includano gli allenatori, dirigenti, e i ragazzi. Tra l’altro, questo è quanto suggerisce anche l’organo del calcio europeo, la Uefa, nella risoluzione contro il razzismo approvata nel 2013.

Max Mauro

da il manifesto