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«Noi di questo pane non ne mangeremo più». Apologia dello sciopero della fame

Dal 29 maggio, Silvia e Anna, due compagne rinchiuse da quasi due mesi in regime di Alta sicurezza 2 nel carcere tomba dell’Aquila, al grido di: «Noi di questo pane non ne mangeremo più», hanno iniziato uno sciopero della fame per lottare contro le condizioni in cui si trovano, per essere trasferite e per vedere chiusa la sezione AS2 del carcere aquilano. Nel giro di pochi giorni, subito dopo l’immediata solidarietà esterna, si sono uniti allo sciopero altri sei compagni, rinchiusi nelle sezioni di Alta Sicurezza 2 delle carceri di Ferrara, di Solliciano, di Alessandria e di Lucca. A vario titolo, tutte le prigioniere e tutti i prigionieri, sono in carcere a seguito delle operazioni compiute negli ultimi mesi e anni dagli apparati di polizia, che hanno colpito la galassia anarchica.

In Italia, lo strumento di lotta dello sciopero della fame, s’inserisce, purtroppo, all’interno di un immaginario di ritirata e sconfitta del movimento rivoluzionario degli anni Settanta. Infatti, il primo sciopero della fame, ultimo strumento a disposizione del corpo prigioniero, organizzato dai detenuti rivoluzionari, inizia nel 1983, nel carcere speciale di Badu ‘e Carros, ad opera di Alberto Franceschini e altri cinque esponenti di spicco delle Brigate Rosse, consapevoli della sconfitta ma diffidenti verso le pratiche dissociative, viste come un meccanismo disonorevole finalizzato a consolidare il sistema. Dal 7 Dicembre 1983, i sei detenuti lottano per l’abrogazione dell’articolo 90[1], i “braccetti della morte”[2] e le squadrette punitive, ma lo fanno, ed è questo il simbolo del cambiamento, ponendosi fuori dagli schemi ideologici brigatisti, dichiarando: «La politica veramente non c’interessa più, quindi neanche il confronto con lo Stato su problematiche o programmi generali […] [vogliamo] partire dalle questioni concrete, dalle esigenze di vita che sentiamo in noi e intorno a noi»[3]. A questo si aggiunge, nel marzo del 1984, lo sciopero della fame degli ex militanti di Prima Linea nel carcere di San Vittore, anche loro, delegittimando la pratica della lotta armata, chiedono la depenalizzazione dei reati associativi, il superamento dell’articolo 90 e delle carceri speciali. Per il Movimento dei prigionieri, questi eventi rappresentano la rottura definitiva con le forme di lotta fino a quel momento praticate: i detenuti politici per la prima volta utilizzano un metodo di lotta pacifico come lo sciopero della fame. Forma di lotta comune ai militanti francesi e nord-irlandesi, praticato in Italia dalla Lega non violenta dei detenuti, ma mai preso in considerazione dai militanti delle formazioni armate fino a questo momento.

Tuttavia, se in Italia lo sciopero della fame rappresenta la fine della lotta rivoluzionaria, così non è per altri paesi come il nord dell’Irlanda, dove da anni si combatte una guerra senza esclusione di colpi. Tra il 1968 e il 1998, si assiste ad una radicalizzazione dello scontro in Irlanda del nord, una guerra a “bassa intensità”, combattuta nelle strade e nei quartieri cattolici e protestanti, sia contro l’invasore inglese, sia contro i suoi collaborazionisti irlandesi. Con l’intensificarsi del conflitto, il 9 agosto del 1971, un‘operazione dell’esercito inglese (Operazione Demetrius), porta all’arresto di 342 persone, ritenute militanti o simpatizzanti dell’IRA, rinchiudendole nell’ex base militare di Long Kesh. La gestione della prigione, non è diversa da quella di un campo di prigionia militare, tanto che i detenuti vivono in baracche di lamiera e sono sottoposti ad una rigida gerarchia “militare”; si dovrà attendere il 1972, per veder riconosciuto lo status di prigionieri politici. Tale status, tuttavia, viene abolito dal governo inglese già nel 1976: così su 1300 detenuti presenti nelle carceri, solo 328 continuano ad essere ritenuti dei prigionieri “politici”, gli altri entrano a far parte  delle fila dei criminali comuni e dei “terroristi”. Il 15 Settembre 1976, Kieran Nugent è il primo repubblicano a vedersi negato lo status di prigioniero politico, conseguentemente al suo rifiuto d’indossare l’uniforme, viene rinchiuso in isolamento con solo una coperta. La risonanza del suo gesto, è tale da dare avvio ad una stagione di lotte fatta di proteste pacifiche, ma anche di evasioni e di assassinii di agenti penitenziari, con lo scopo di essere nuovamente riconosciuti come prigionieri politici. La blanket protest, è la prima forma di protesta organizzata, alla quale si aggiunge, nel marzo del 1978, la dirty protest, con la quale i detenuti rifiutano di uscire dalle celle per andare a lavarsi, in modo da evitare i continui pestaggi delle guardie, le quali, rispondono svuotando i buglioli sul pavimento e obbligando i detenuti a vivere in mezzo a escrementi e rifiuti. Nell’ottobre del 1980, gli internati dei blocchi H, portano le proteste al culmine, iniziando uno sciopero della fame collettivo e ad oltranza, che termina solo il 18 dicembre, a seguito dell’intermediazione dell’arcivescovo e del vescovo di Derry con il governo inglese. La corona, pur continuando a non riconoscere lo status di prigionieri politici, s’impegna ad accogliere le richieste dei detenuti, tra le quali meritano di essere ricordate: il diritto di vestire abiti civili, di essere esentati dai lavori forzati, di riunirsi collettivamente e di ricevere un pacco o una visita a settimana. Tuttavia, le autorità britanniche non metteranno mai in atto nessuna di queste richieste, causando la rottura di tutte le trattive e l’inasprimento della lotta, ad un livello tale che 96 detenuti distruggono le celle in cui si trovano rinchiusi. Il 1° marzo, gli hunger strikers iniziano un secondo sciopero della fame, dichiarando di essere disposti ad arrivare fino alla morte uno dopo l’altro; il primo ad iniziare è Bobby Sands, giovane leader della Provisional IRA, che morirà dopo 66 giorni di sciopero, e come lui altri dieci militanti. Lo sciopero termina il 3 ottobre 1981, con l’annuncio ufficiale da parte del nuovo segretario di stato, che riconosce ai detenuti il diritto d’indossare abiti propri e una maggiore libertà all’interno dei blocchi. Se per il governo inglese di Margaret Thatcher, la morte di undici uomini rappresenta una vittoria contro i terroristi, per l’IRA e i suoi fiancheggiatori, rappresenta, come espresso in “Un giorno della mia vita”:«[…] un esempio encomiabile di resistenza e coraggio; una dimostrazione, se ce ne fosse ancora bisogno, della determinazione dell’IRA a continuare […] la sua campagna di violenza, fino a che l’esercito e l’amministrazione inglese non venissero ritirati dall’Irlanda del Nord»[4].

È dunque importante, capire che lo sciopero della fame è uno strumento, seppur tragico, di lotta e di conflitto, che pone lo stato davanti alle sue crudeltà, alle efferatezze delle sue carceri che, in uno stato che si definisce democratico, non dovrebbero esistere.

Come riportano le compagne detenute: «Siamo convinte che nessun miglioramento possa e voglia essere richiesto, non solo per questioni oggettive e strutturali della sezione gialla (ex 41 bis): l’intero carcere è destinato quasi esclusivamente al regime di 41 bis, per cui allargare di un poco le maglie del regolamento di sezione ci pare di cattivo gusto e impraticabile, date le ancor più pesanti condizioni subite a pochi passi da qui, non possiamo non pensare a quante e quanti si battono da anni, accumulando rapporti e processi penali»[5]. Per questo siamo con loro, con tutte e tutti loro, per questo appoggiamo la loro lotta, perché è la nostra lotta: trasferimenti immediati e chiusura della sezione AS2 dell’Aquila, così come le altre sezioni di 41 bis e Alta sicurezza sparsi in giro per l’Italia, non sono una supplica nei confronti dello stato, ma sono obiettivo politico da raggiungere con tutti i mezzi necessari.

LIBERE TUTTE

LIBERI TUTTI

T.S.

Un compagno di Bologna

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Note:

[1] «L’art. 90  fa parte della legge sull’ordinamento penitenziario del luglio ’75, comunemente conosciuta come riforma carceraria, ma esso non viene immediatamente applicato. Esso dice: “Quando ricorrono gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza, il Ministro per la Grazia e Giustizia ha facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari, per un periodo determinato, strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza.”. Con questo fatto lo stato si arroga la possibilità che il suo esecutivo possa, a suo piacimento, sospendere una legge e definire che a una parte  di cittadini vengano sospesi dei diritti». “Dall’articolo 90 alle carceri speciali al 41 bis”

[2] Braccetti della morte: istituiti dall’art.90 e così chiamati dai tecnici del ministero, per quei detenuti, politici e comuni, che avevano commesso omicidi o attentati in carcere. Luoghi in cui le misure di sorveglianza e privazione non hanno alcun nesso con la sicurezza. Utilizzando le parole di Maria Rita Prette in “41 bis”: «Non si capisce infatti come potrebbe essere lesivo della sicurezza lavarsi, mangiare […] Non si capisce a quale misura di sicurezza possa corrispondere essere presi a botte e manganellate».  Prette, 2012, p. 25

[3] De Vito, 2009, pp. 106-107

[4] MacBride in Sands, 2014, p. 5

[5] Comunicato di Silvia e Anna dalla sezione AS2 del carcere dell’Aquila