I 5Stelle assecondano in maggioranza il decreto, nel tentativo di allentare il decorso del loro mandato, ignorando (almeno pubblicamente) la portata di ciò che per loro è a tutti gli effetti un’ennesima eutanasia politica. Alcuni ci tengono ad esprimere ai media un dissidio interiore che fa sì che essi votino ciò che l’anima bella in cuor suo non vuole. Un formidabile Airola promette che il cedimento su questo voto sarà compensato da una durissima battaglia (personale) contro il Tav e aggiunge un commento su “la politica” come “sangue e merda”, lasciandoci pochi dubbi su quale dei due termini costituisca un lapsus del suo gruppo. Il PD si presenta indossando delle magliette con sopra un uomo cestinato e la scritta “Non sprechiamo l’umanità”, ponendoci dinnanzi all’ennesimo atto comunicativo totalmente toppato (l’aspettativa di vederli a presidi futuri indossare una maglia “Non siamo diversi”, con uomini di tutti i paesi in un cestino dell’indifferenziata, è molto forte), nonché al loro esemplare modo di opporsi al decreto.
Nello specifico, Zingaretti che balbetta qualcosa sul declino dell’Italia e un moto d’indignazione canonicamente polarizzato sull’accoglienza tradita, sulle morti in mare. C’è da ammettere che, da quando è alla maggioranza, Salvini costituisce per i Dem un ottimo pretesto per insabbiare con ipocrita retorica le loro responsabilità sul tema. Il Codice Minniti non si può dire che avesse a cuore la vita dei migranti: divieto d’ingresso in acque territoriali libiche, preceduto da un Memorandum d’intesa con cui l’Italia s’impegnava a fornire sostegno tecnico alla guardia costiera libica (non è necessario spendere parole sulle condizioni criminose dei centri di accoglienza in Libia), necessità di ottenere un’autorizzazione per il trasferimento dei soccorsi su altre navi, oltre all’impegno di ricevere a bordo forze di polizia incaricate di tenere aggiornate le autorità italiane e a permettere la disposizione di eventuali indagini una volta avvenuto l’attracco. Questo è il parziale curriculum (anche Minniti non è senza decreto) di chi ora sbandiera il suo sostegno alla causa umanitaria, mentre ai tempi della maggioranza dava l’avvio al processo di criminalizzazione dell’immigrazione. Il risultato è stato quello di lasciare a Salvini una buona base di consenso elettorale a cui dimostrare la propria capacità di infliggere una stretta normativa laddove gli altri si sono “limitati” a dissuadere.
Entrando nel merito dei contenuti, nell’articolo 1 del decreto bis, si sancisce il divieto di transito, ingresso o sosta di navi in territorio nazionale, in misura precauzionale nei confronti di quell’attentato alla sicurezza che sarebbe il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Un’accusa di reato che ultimamente si è sentita a proposito delle imbarcazioni, ma sappiamo essere nota anche a chi, specialmente lo scorso anno, si è trovato imputato per aver soccorso persone a rischio congelamento sul cammino che da Bardonecchia attraversa le Alpi per raggiungere la Francia. L’articolo 2 specifica le sanzioni amministrative per il capitano o la capitana che osano infrangere il divieto: sanzioni pecuniarie da 150mila ad un milione di euro, più sequestro dell’imbarcazione per ordine del prefetto e in caso di confisca definitiva, la sua acquisizione da parte dello stato. Il testo di legge lascia intuire che tali sanzioni possano essere applicate congiuntamente a quelle penali nel caso sussistano i presupposti di reato legati all’immigrazione irregolare. Con l’articolo 3 viene modificata la competenza della procura distrettuale per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (prima competente solo dei reati di associazione finalizzata a commettere le ipotesi aggravate di favoreggiamento dell’immigrazione), mentre l’articolo 4 promette un enorme regalo di fondi pubblici per contrastare il favoreggiamento e in particolare alle operazioni di polizia sotto copertura (500mila euro per il 2019, un milione di euro per il 2020 e un milione e mezzo per il 2021). Questa parte di decreto è diventato ciò su cui voci istituzionali e opinione pubblica si concentrano all’unisono per recitare il mantra della “disumanità”. Senza dubbio tali norme vogliono fungere da deterrente per l’operato di chi agisce in mare, prevedibilmente allungando i tempi dei soccorsi e mettendo quindi a rischio le vite in gioco. Occorre altresì tenere presente come una loro applicazione giuridica effettiva è passibile di una costante (caso per caso) rimessa in discussione in virtù delle leggi sovranazionali. L’adempimento di un dovere imposto da una norma di diritto internazionale può far sì che la condotta di un/a comandante venga scriminato (così come ha testimoniato il caso della Sea Watch), appellandosi ad un insieme di convenzioni che uniscono il principio di non respingimento, l’obbligo di prestazione di soccorso e di garanzia di un luogo sicuro. Detto ciò, non si vuole bollare l’ennesima operazione di blindatura della frontiera come un fuoco di paglia, tanto più in fede alla gerarchia del diritto.
Si vuole portare il focus su quello che questo decreto, in perfetta continuità con il primo, costituisce nel merito di una gestione politica interna: un tentativo di direzionamento del disagio sociale di cui tutta la classe politica è complice. Il pressoché generale silenzio stampa e istituzionale sulle misure contenute per ben due terzi della legge, quelle su un significativo inasprimento delle misure repressive da adottare contro le espressione di dissenso, è indicativo nel testimoniare la generale condiscendenza a operare una criminalizzazione di chi osa mettere in discussione la ragion di Stato, il cui potere deve restare saldamente garantito dall’operato della polizia. Richiamandosi di nuovo ai contenuti: l’articolo 6 inasprisce le pene previste per chi utilizza caschi protettivi o qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona in occasione di manifestazioni; è previsto l’arresto da due a tre anni, congiuntamente ad un’ammenda che va dai 2000 a 6000 euro.
Invece si introducono dagli uno ai quattro anni di reclusione per “chiunque, nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, lancia o utilizza illegittimamente […] razzi, bengala, fuochi artificiali, petardi, strumenti per l’emissione di fumo o di gas visibile o in grado di nebulizzare gas contenenti principi attivi urticanti, ovvero bastoni, mazze, oggetti contundenti o, comunque, atti a offendere”. Insomma il fumogeno (di tutti i colori) viene bollato come pericolosissima arma, mentre quando la polizia inizia a sparare lacrimogeni bisogna stare tutti a volto scoperto a respirar veleno, pena l’arresto. L’articolo 7, introducendo come aggravante il contesto di manifestazione, aumenta le pene per reati che sappiamo godere di una faziosità già tutta a beneficio degli agenti della repressione: “violenza o minaccia a un pubblico ufficiale”, “resistenza a un pubblico ufficiale” e “violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”. Vengono messi sullo stesso piano di punibilità, tramite la reclusione, il “delitto di danneggiamento” e quello di “devastazione e saccheggio” (sempre aggravato se in corso di manifestazioni). Inoltre si cerca di colpire al cuore lo spirito di contestazione, applicando la reclusione fino a due anni per il reato di “interruzione di ufficio o servizio pubblico o di pubblica necessità”, sempre se commesso “nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico”. Nei successivi articoli, un giro di vite legalitario si mescola al riconoscimento di manifestazioni sportive come contesti pericolosi, degni di costituire aggravanti. L’articolo 9 promette l’assunzione a tempo determinato (annuale) da parte del Ministero della giustizia, di un contingente fino ad 800 unità di personale amministrativo, una commissione straordinaria col compito di velocizzare l’esecuzione di provvedimenti di condanna definitivi. L’articolo 13 riscrive i presupposti disciplinari dei DASPO sportivi, aumentandone la durata e dando la possibilità al questore di applicare congiunte misure di prevenzione. L’articolo 15 elimina la temporaneità della flagranza differita (ossia l’estensione dello stato di “quasi-flagranza” anche a “colui il quale, sulla base di documentazione video fotografica dalla quale emerga inequivocabilmente il fatto, ne risulta autore, sempre che l’arresto sia compiuto non oltre il tempo necessario alla sua identificazione e, comunque, entro le quarantotto ore dal fatto”), rendendo di fatto permanente il regime di flagranza. Il giustizialismo è un’arma che storicamente viene impugnata qualora l’esistenza del nemico risulti giustificata da una volontà di sicurezza che appare “urgente e necessaria” solo ai giustizieri. Per questo occorre sbandierare una tattica di respingimento dell’immigrazione, fingere la cacciata e l’illegalizzazione dello straniero. Soprattutto essi mirano a dividere drasticamente la conflittualità sociale tra chi continua a vivere in uno stato di povertà ed emarginazione (e viene indotto a sublimare la sua condizione tramite un incremento di razzismo e polizia) e chi propone come alternativa la lotta sociale, spendendosi quotidianamente per il diritto all’abitare, il diritto allo studio, contro lo sfruttamento lavorativo, contro discriminazioni di genere e di razza e contro l’imposizione di grandi opere inutili, a favore della salute e della sostenibilità ambientale. Il fiorire di molte di queste lotte nel corso dell’ultimo anno e la promessa che altre ne sarebbero sbocciate, ha evidentemente fatto sì che dalle istituzioni si ritenesse necessaria una ulteriore stretta autoritaria, spalleggiata dalla paura di coloro che sulla soluzione legalitaria del disagio sociale ci hanno fatto campagna elettorale, per poi ritrovarsi privi di consenso popolare, messi all’angolo del tunnel dell’Alta Velocità. Contro questo dispositivo si promette la costruzione di una solidarietà generalizzata, di una mobilitazione permanente, che attraverso la creazione di nuove forme di resistenza e azione politica metta in crisi quell’apparato istituzionale che tali dispositivi produce.