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Repressione in Bolivia: “Ci stanno uccidendo come cani”

Scrivo dalla Bolivia pochi giorni dopo aver assistito al massacro militare del 19 novembre nella centrale a gas di Senkata, nella città indigena di El Alto, e al lancio di lacrimogeni in una pacifica processione funebre il 21 novembre per commemorare i morti. Questi sono esempi, purtroppo, del modus operandi del governo di fatto, che ha preso il controllo con il colpo di stato che ha costretto Evo Morales a lasciare il potere.

Il colpo di Stato ha dato luogo a proteste di massa, con blocchi in tutto il paese nell’ambito di uno sciopero nazionale per chiedere le dimissioni di questo nuovo governo. Un blocco ben organizzato è quello di El Alto, dove i residenti creano barriere attorno all’impianto a gas di Senkata, impedendo alle autocisterne di lasciare l’impianto e tagliando la principale fonte di benzina di La Paz.

Determinato a rompere il blocco, il governo ha inviato elicotteri, carri armati e soldati pesantemente armati la sera del 18 novembre. Il giorno dopo, il caos è scoppiato quando i soldati hanno iniziato a lanciare lacrimogeni sugli abitanti per poi sparare alla folla. Sono arrivata subito dopo la sparatoria. Gli abitanti furiosi mi hanno condotto nelle cliniche locali dove sono stati portati i feriti. Ho visto i medici e le infermiere che cercavano disperatamente di salvare vite umane, eseguendo interventi chirurgici di emergenza in condizioni difficili e con una carenza di attrezzature mediche. Ho visto cinque cadaveri e decine di persone con ferite da proiettile. Alcuni erano appena andati al lavoro quando sono stati colpiti dai proiettili. Una madre addolorata, il cui figlio è stato colpito da un colpo di pistola, ha gridato tra un singhiozzo e l’altro: “Ci stanno uccidendo come cani”. Alla fine, sono stati confermati 8 morti.

Il giorno dopo, una chiesa locale si è trasformata in un obitorio improvvisato, con i cadaveri, alcuni ancora gocciolanti di sangue allineati su dei banchi e i medici che eseguivano le autopsie. In centinaia si sono riuniti fuori per consolare le famiglie e contribuire economicamente per le bare e i funerali. Hanno pianto i morti e maledetto il governo per l’attacco e la stampa locale per essersi rifiutata di dire la verità su quello che è successo.

La copertura giornalistica locale su Senkata è stata quasi altrettanto sorprendente quanto la mancanza di forniture mediche. Il governo de facto ha minacciato i giornalisti di sedizione se avessero fatto “disinformazione” coprendo le proteste, così molti di loro non si sono nemmeno presentati. Quelli che si presentano diffondono spesso la disinformazione. L’emittente televisiva principale ha riportato tre morti e ha biasimato la violenza sui manifestanti, dando tempo di trasmissione al nuovo ministro della Difesa Fernando Lopez che ha fatto l’assurda affermazione che i soldati non hanno sparato “una sola pallottola” e che “gruppi terroristici” hanno cercato di usare la dinamite per entrare nell’impianto.

Non c’è da meravigliarsi che molti boliviani non abbiano idea di quello che sta succedendo. Ho intervistato e parlato con decine di persone di entrambe le parti politiche. Molti di coloro che sostengono il governo di fatto giustificano la repressione come un modo per ripristinare la stabilità. Si rifiutano di definire colpo di stato la cacciata del presidente Evo Morales e sostengono che le frodi nelle elezioni del 20 ottobre hanno scatenato il conflitto. Queste accuse di frode, che sono state motivate da un rapporto dell’Organizzazione degli Stati Americani, sono state smentite dal Center for Economic and Policy Research, un gruppo di esperti di Washington, D.C.

Morales, il primo presidente indigeno in un paese a maggioranza indigena, è stato costretto a fuggire in Messico dopo che lui, la sua famiglia e i leader di partito hanno ricevuto minacce di morte e attacchi, tra cui l’incendio della casa della sorella. Indipendentemente dalle critiche che la gente può avere nei confronti di Evo Morales, in particolare la sua decisione di cercare di ottenere un quarto mandato, è innegabile che egli abbia portato avanti una crescita economica che ha ridotto la povertà e la disuguaglianza. Ha anche portato stabilità relativa a un paese con una storia di colpi di stato e sconvolgimenti. Forse la cosa più importante è che Morales è stato il simbolo della maggioranza indigena del paese che non poteva più essere ignorata. Il governo de facto ha deturpato i simboli indigeni e ha insistito sulla supremazia del cristianesimo e della Bibbia sulla tradizione indigena, che l’autodichiarata presidente, Jeanine Añez, ha definito “satanica”. Questa ondata di razzismo si è abbattuta sui manifestanti indigeni, che chiedono il rispetto della loro cultura e delle loro tradizioni.

Jeanine Añez, che era il terzo membro del Senato boliviano, si è promossa presidente dopo le dimissioni di Morales, pur non avendo il quorum necessario in sede legislativa per essere approvata come presidente. Le persone di fronte a lei nella linea di successione – che appartengono tutte al partito MAS di Morales – si sono dimesse sotto costrizione. Uno di questi è Victor Borda, presidente della camera bassa del congresso, che si è dimesso dopo che la sua casa è stata incendiata e suo fratello è stato preso in ostaggio.

Al momento della presa del potere, il governo di Áñez ha minacciato di arrestare i legislatori del MAS, accusandoli di “sovversione e sedizione”, nonostante il fatto che questo partito detenga la maggioranza in entrambe le camere del congresso. Il governo di fatto ha ricevuto una condanna internazionale dopo aver emanato un decreto che concede l’immunità ai militari durante le azioni per ristabilire l’ordine e la stabilità. Questo decreto è stato descritto come “licenza di uccidere” e “carta bianca” per la repressione, ed è stato fortemente criticato dalla Commissione Interamericana per i Diritti Umani.

Il risultato di questo decreto è stato la morte, la repressione e le massicce violazioni dei diritti umani. Nella settimana e mezzo dal colpo di Stato, 32 persone sono morte durante le proteste, e ci sono stati più di 700 feriti. Questo conflitto sta diventando incontrollabile e temo che non potrà che peggiorare. Le voci abbondano sui social media di unità militari e di polizia che rifiutano l’ordine di reprimere dato del governo. Questa situazione potrebbe sfociare in una guerra civile. Ecco perché così tanti boliviani chiedono disperatamente aiuto internazionale. “L’esercito ha armi e la licenza di uccidere; noi non abbiamo nulla”, ha gridato una madre il cui figlio era appena stato colpito da un proiettile a Senkata. “Per favore, dite alla comunità internazionale di venire qui e di fermare tutto questo”.

Ho chiesto a Michelle Bachelet, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ed ex presidente del Cile, di raggiungermi sul posto in Bolivia. Il suo ufficio sta inviando una missione tecnica in Bolivia, ma la situazione richiede una figura di spicco. Le vittime della violenza devono ricevere giustizia ed è necessario il dialogo per allentare le tensioni, in modo che i boliviani possano ripristinare la loro democrazia. La signora Bachelet è molto rispettata nella regione; la sua presenza potrebbe aiutare a salvare vite umane e portare la pace in Bolivia.

Medea Benjamin – fondatrice di CODEPINK, un’organizzazione di base guidata da donne per la pace e i diritti umani. E’ in Bolivia dal 14 novembre.

da pressenza