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Il tempo dell’amnistia sociale

Con il recente arresto di Nicoletta Dosio e il suo rifiuto di richiedere solo per sé la “grazia”, si pone la necessità di aprire all’interno dei movimenti un dibattito per decostruire la cultura legalitaria e panpenalista e costruire una campagna di massa per l’amnistia sociale.

“Spesso non è perché le cose sono difficili che non si osa, ma è perché non si osa che diventano difficili”

(Lettera di Seneca a Lucilio)

L’arresto di Nicoletta Dosio mette i movimenti sociali di fronte all’ennesimo salto di qualità delle strategie della repressione. Nicoletta Dosio è in carcere per una condanna a un anno, per violenza privata e interruzione di pubblico servizio in concorso con altri perché aveva retto uno striscione, al bordo dell’autostrada, nel corso di una manifestazione No Tav. Nicoletta ha ritenuto di non doversi trasformare in carceriere di sé stessa, di non avere nulla di cui pentirsi e, per questo, di non doversi riabilitare. Dunque non ha chiesto misure alternative alla galera per trasformare il suo “corpo detenuto”, in un’“un’arma non violenta” che denuncia a sua volta l’abuso di repressione di quella Procura di Torino – decine di processi, centinaia di indagati e condannati, misure di prevenzione, fogli di via – contro il più duraturo conflitto ambientale e sociale di questo paese.

Ormai siamo all’emergenza. L’intensità e la capillarità degli attacchi repressivi e preventivi mossi contro il semplice dissenso sociale crescono ogni giorno di più. Questure e Procure fanno a gara ad applicare reati assurdi quali “eversione dell’ordine democratico” agli autoriduttori del biglietto della mensa universitaria; oppure “l’associazione a delinquere“ a fronte delle lotte dei disoccupati per il lavoro e dei senza casa;  provvedimenti penali contro i lavoratori; studenti denunciati in massa per le autogestioni; giovani e non perseguitati dal proibizionismo; e ancora “rapina aggravata ed estorsione” per le azioni dimostrative messe in atto contro il carovita; nonché l’ormai rituale “devastazione e saccheggio” e “resistenza aggravata” per ogni manifestazione non gradita alle forze dell’ordine; facendo scattare, inoltre, la rappresaglia contro i protagonisti delle lotte sociali, attivando “fogli di via e sorveglianza speciale”.

Il tutto rafforzato, dal 2001, dall’introduzione del Mae (il mandato di arresto europeo che ha reso quasi automatiche le estradizioni all’interno dello spazio Shengen, abolendo l’immunità e le garanzie che un tempo tutelavano le infrazioni di natura politica) e dalle direttive europee che hanno invitato i paesi membri a estendere la nozione di terrorismo a condotte politiche e sociali ritenute un tempo normale espressione della conflittualità sociale e sindacale, oltre a designare come un possibile movente “terrorista” il dissenso politico contro i governi. Si è inoltre sempre più affievolita la distinzione tra reati e atti illeciti tipici delle lotte sociali e dei movimenti di contestazione interni al sistema e reati di natura apertamente sovversiva e insurrezionale.

A fronte di tutto ciò, non possiamo più permetterci che il tutto si limiti al lamento o al silenzio, perché di fatto questo significa l’accettazione della propria marginalità politica e sociale e la logica che oggi è impossibile invertire la rotta. Allora, se non vogliamo essere stritolati nella dialettica tra l’inutile lamento e il timorato silenzio, dobbiamo necessariamente aprire un proficuo dibattito al fine di disarticolare l’impianto panpenalista e costruire una vera campagna di massa.

Subito dopo l’arresto di Nicoletta, è stata lanciata sulla piattaforma change.org una petizione di richiesta di “grazia” sostenuta anche dai Giuristi Democratici e Livio Pepino. Ma dal carcere delle “Vallette” Nicoletta ha fatto arrivare il suo «No a richieste di grazia o a provvedimenti di clemenza che riguardino soltanto la mia persona», invitando a invece a parlare di “amnistia sociale”.

Nell’estate 2013, come Osservatorio Repressione, contribuimmo ad aprire una discussione attorno a una proposta definita “amnistia sociale”. Era un tentativo di definire un orizzonte prim’ancora che una soluzione concreta: elaborare una strategia che individuasse il nodo centrale dello scontro che veniva costituendosi, ovvero l’attacco alla legittimità stessa di un dissenso fattivo, alla possibilità che dei movimenti potessero esistere e mettersi di traverso, inceppando un sistema sempre più oligarchico. Diventare il volano di un fronte da allargare per scardinare le ultradecennali stratificazioni dell’emergenza. Ma quel dibattito si è quasi subito arenato mentre le dinamiche repressive, oltre a essersi inasprite, hanno allargato il loro fronte colpendo indiscriminatamente tutte le lotte sociali. I movimenti si sono trovati in grosse difficoltà, senza strumenti, senza aver mai intaccato di un millimetro le strategie repressive che mirano a isolarli e sconfiggerli. La sollecitazione che ci fa Nicoletta dal carcere ci dice che forse è il caso di riprovarci e rilanciare una campagna per la libertà di movimento, il diritto di resistenza, l’abrogazione del Codice Rocco e le leggi speciali.

Le lotte sociali hanno sempre marciato su un crinale sottile che anticipa legalità future e mentre impatta quelle presenti. Per questa ragione le organizzazioni del movimento operaio, i movimenti sociali e i gruppi rivoluzionari hanno storicamente fatto ricorso alla rivendicazione di amnistie per tutelare le proprie battaglie, salvaguardare i propri militanti, le proprie componenti sociali. Garantire una lotta vuole dire serbare intatta la forza e la capacità di riprodurla in futuro.

Rilanciando la campagna per l’amnistia sociale, possiamo forse aprire finalmente, dopo anni di rimozione istituzionale, un dibattito sul diritto penale che vogliamo e sulle modalità di gestione del conflitto sociale. Una campagna che ci possa permettere la possibilità di costruire un movimento di massa contro il giustizialismo, la penalità, le legislazioni speciali, il carcere, l’ergastolo, la tortura del 41 bis, per porre il problema politico della legittimità della lotta e contribuire a rafforzare i collegamenti e la solidarietà fra le realtà che lottano (oggettivamente o soggettivamente) contro il modo di produzione capitalista e che per questo sono colpite dalla repressione. Per allargare spazi di agibilità politica, ma anche per denunciare il sovraffollamento e le condizioni di vita nelle carceri, nei Cpr, negli Opg. Per salvaguardare le lotte attraverso le lotte stesse, ribadendo il diritto alla resistenza. Evocare l’amnistia equivarrebbe a voler riconoscere la persistenza di conflitti di fondo, ed è forse l’unica residua possibilità capace di calare di nuovo l’idea di democrazia tra le rughe della storia, consentendo di recuperare quei necessari strumenti di ripoliticizzazione delle controversie, dopo aver affrontato traumatiche fasi di divisione e scontro.

Sono ben cosciente delle difficoltà di fronte all’attuale contesto politico e istituzionale, così come cosciente che l’approvazione di un’amnistia richieda il voto favorevole dei due terzi del Parlamento. Ma evocare il rapporto di forza sfavorevole per liquidare il problema rappresentato dall’amnistia, serve a poco.

Se si vuole tornare a far respirare la società bisogna allargare il più possibile le maglie che la contengono. Non c’è critica dell’attuale società capitalista che possa aver successo senza una contemporanea rimessa in discussione dell’apparato penale che la sostiene. Riassorbire la legislazione d’emergenza nella quale si annidano le tipologie di reato più insidiose, ma ancor di più la forma mentis che ispira l’azione della magistratura, ovvero l’idea che la materia sociale, l’azione collettiva, sia una questione di ordine pubblico se non di chiara eversione. Per farlo bisogna scardinare l’impalcatura giustizialista costruita negli ultimi decenni.

Italo Di Sabato

da Dinamopress