Un dossier: appello per Ahmet Altan di Amnesty International; l’Italia arma ancora Erdogan (notizie riprese da “Altreconomia”) e la lettera solidale con il Rojava di esponenti di movimenti sociali, comunità e “Prime Nazioni” di tutto il mondo
Mr Abdülhamit Gül
Minister of Justice
Adalet Bakanlığı
06659 Ankara, Turkey
Fax: +90 312 417 71 13
Email: info@adalet.gov.tr
Egregio ministro,
Le scrivo in merito al ri-arresto del romanziere Ahmet Altan, il 12 novembre, otto giorni dopo essere stato rilasciato, dopo oltre tre anni di detenzione.
Ahmet Altan è stato inizialmente arrestato e detenuto a partire da settembre 2016. È stato processato per il suo presunto sostegno al tentativo di colpo di stato del 2016 per rovesciare il governo. L’accusa si basava esclusivamente sul suo lavoro giornalistico, che era critico nei confronti del governo, e dei contatti con presunti seguaci del religioso religioso, Fethullah Gülen, che il governo ritiene responsabile per il tentativo di colpo di stato.
Nel febbraio 2018, Ahmet Altan è stato condannato all’ergastolo senza possibilità di libertà vigilata per “tentativo di rovesciare l’ordine costituzionale”, nonostante una preoccupante mancanza di prove di qualsiasi crimine riconoscibile a livello internazionale. Ahmet Altan ha fatto appello al verdetto e il 5 luglio 2019 la Corte suprema d’appello ha deciso di ribaltare la sua condanna e ha ordinato un nuovo processo. Il 4 novembre, la Corte penale n. 26 di Istanbul ha condannato Ahmet Altan a 10 anni e mezzo di carcere, sulla base delle stesse prove che lo avevano visto condannato al primo processo: i suoi scritti e commenti critici nei confronti del governo. Il tribunale ha stabilito che sarebbe stato rilasciato in attesa del suo appello, con divieto di viaggiare all’estero.
Il pubblico ministero ha fatto appello alla decisione della corte di rilasciare Ahmet Altan, sostenendo che esiste un rischio di fuga e che non ha mostrato rimorso. Nonostante la decisione del tribunale di arrestarlo nuovamente, Ahmet è rimasto a casa sua dimostrando di non aver intenzione di “fuggire”. Ha costantemente respinto le accuse per le quali non sono state fornite prove credibili.
La esorto a rilasciare Ahmet Altan immediatamente e incondizionatamente, poiché è un prigioniero di coscienza imprigionato unicamente per aver esercitato il suo diritto alla libertà di espressione.
La ringrazio per l’attenzione.
Aggiornato il 8/01/2020 – Ahmet Altan, scrittore turco di fama mondiale, era stato appena scarcerato, il 4 novembre 2019, pur se condannato a 10 anni e mezzo di carcere con la ridicola accusa di aver “collaborato volutamente e intenzionalmente con un’organizzazione terroristica“.
Il 12 novembre 2019 è tornato in carcere a seguito del ricorso della procura contro la sentenza di scarcerazione.
Il 7 gennaio 2020 la Corte di appello di Istanbul ha confermato la condanna a ulteriori 5 anni e 11 mesi.
Dietro questa decisione non c’è altro che la volontà di punire ulteriormente una persona determinata a non restare in silenzio.
Quello che stanno facendo ad Ahmet Altan è un’ingiustizia. Lo scrittore turco è un prigioniero di coscienza e deve essere rilasciato immediatamente e incondizionatamente.
La sera del 15 luglio 2016 in Turchia alcuni militari hanno lanciato un violento tentativo di colpo di stato rapidamente soppresso.
Centinaia di persone sono morte e migliaia sono rimaste ferite in una notte di terribile violenza.
All’indomani del fallito colpo di stato, il governo turco ha accusato Fethullah Gülen, religioso con sede negli Stati Uniti, e i suoi seguaci appartenenti al movimento “Organizzazione terrorista fethullahista” (FETÖ/PDY), di aver cospirato per rovesciare il governo.
Il 20 luglio 2016 il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, che è durato due anni.
Una massiccia repressione si è abbattuta su decine di giornalisti, scrittori, giudici, pubblici ministeri accusati di essere critici nei confronti del governo di Erdogan.
Molti di loro sono stati incarcerati e accusati come complici.
Il giorno prima del tentativo di colpo di stato, Ahmet Altan aveva partecipato come ospite a un dibattito televisivo insieme al conduttore del programma, Nazlı Ilıcak, e a suo fratello Mehmet Altan, economista e commentatore.
Le autorità turche hanno inizialmente sostenuto che Ahmet Altan, Mehmet Altan e Nazlı Ilıcak nel corso del programma avevano inviato messaggi subliminali a coloro che erano coinvolti nel colpo di stato.
Nazlı Ilıcak è stato arrestato alla fine di luglio, mentre Ahmet e Mehmet Altan sono stati rinviati in custodia cautelare a settembre 2016.
Il primo processo contro Ahmet Altan, Mehmet Altan, Nazlı Ilıcak e altri tre imputati si è concluso nel febbraio 2018 con la loro condanna all’ergastolo per “tentativo di rovesciare l’ordine costituzionale“.
Nel luglio 2019 la Corte suprema ha annullato il verdetto ma il nuovo processo, cambiato il capo d’imputazione, è terminato all’inizio di novembre con le condanne, rispettivamente, a 10 anni e mezzo per Altan e a otto anni per Ilıcak. Mehmet Altan, è stato assolto.
Il 4 novembre 2019, il tribunale ha stabilito il rilascio di Ahmet in attesa del suo appello, imponendogli il divieto di viaggiare all’estero.
Il 12 novembre 2019 lo scrittore turco è tornato in carcere a seguito del ricorso della procura contro la sentenza di scarcerazione.
Il pubblico ministero ha fatto appello alla decisione della corte di rilasciare Ahmet Altan, sostenendo che esiste un rischio di fuga e che l’imputato non ha mostrato alcun pentimento. Nonostante la decisione del tribunale, Ahmet è rimasto in casa, dimostrando di non aver intenzione di “fuggire”. Ha costantemente respinto le accuse per le quali non sono state fornite prove credibili.
Il 7 gennaio 2020 Ahmet Altan ha ricevuto la condanna definitiva a ulteriori 5 anni e 11 mesi di carcere.
Il riarresto e la detenzione e la nuova condanna di Ahmet Altan danno l’impressione di essere politicamente motivati, arbitrari e incompatibili con il diritto alla libertà ai sensi dell’articolo 5 della Convenzione europea sui diritti umani, che vieta qualsiasi privazione arbitraria della libertà.
La Corte europea dei diritti umani ha dichiarato che può sorgere arbitrarietà laddove vi sia stato un elemento di malafede da parte delle autorità.
La sua detenzione arbitraria continuativa in carcere è una grave violazione dei suoi diritti.
Sto scrivendo nella cella di una prigione.
Prima di cominciare ad impietosirvi, però, ascoltate ciò che ho da dire.
Sì, sono stato rinchiuso in una prigione di alta sicurezza in mezzo al nulla.
Sì, vivo in una cella le cui porte di ferro si aprono e si chiudono con rumori pesanti.
Sì, i pasti mi vengono serviti attraverso una fessura nella porta.
Sì, anche il piccolo cortile con il suo pavimento di pietra dove cammino avanti e indietro, è coperto da sbarre.
Sì, non posso vedere nessuno tranne il mio avvocato e i miei figli; non mi è nemmeno concesso di scrivere ai miei cari.
Tutto questo è vero, ma non è tutta la verità.
Questi sono alcuni struggenti versi di Ahmet Altan, giornalista e scrittore turco, nato ad Ankara nel 1950.
Anche dal carcere, Ahmet Altan ha continuato a scrivere, a sentirsi libero e mai prigioniero, producendo ben tre volumi e rilasciando numerose interviste.
Ahmet Altan non si è fatto limitare dalle sbarre della propria cella e ha scritto parole toccanti che descrivono la sua sensazione di libertà, nonostante tutto:
Ho amici in tutto il mondo che mi aiutano a viaggiare, anche se non ho mai incontrato la maggior parte di loro.
So di essere uno schizofrenico finché tutte queste persone abitano solo nella mia testa. Ma so anche che sono uno scrittore e che un giorno tutti si ritroveranno tra le pagine di un libro.
Sono uno scrittore. Ovunque voi mi chiuderete, io viaggerò per il mondo sulle ali dei miei pensieri.
«L’ITALIA ARMA ANCORA ERDOGAN»
Così titola – in copertina – il nuovo numero di «Altreconomia» (gennaio 2020: 72 pagine per 4 euri) e il sommario spiega: «il flusso di armi e munizioni verso la Turchia non si ferma. Inchiesta su chi esporta: dagli affari delle aziende ai silenzi governativi. Mentre continua la guerra in Siria».
Il reportage di Duccio Facchini e Giorgio Beretta ricorda che «durante l’offensiva turca in Siria, il governo italiaano aveva annunciato lo stop a nuove licenze. Ma il decreto è inaccessibile». In particolare «Altreconomia» ha indagato sul sotterraneo – ma enorme – movimento di armi dalla provincia di Roma alla Turchia. In primo luogo i numeri: attraverso i dati di UAMA (l’Unità per le autorizzazioni ai materiali d’armamento) sappiamo che 7 anni fa il “via libero” alle esportazioni di materiale bellico verso la Turchia riguardava 11,4 milioni di euro e che nel 2018 è salito a 362,3 milioni. Qualche furbo (cioè complice di Erdogan) ha parlato soprattutto di elicotteri “duali” cioè che possono essere utilizzati in pace come in guerra ma incrociando «l’elenco pubblico di materiali “esportabili” ad Ankara» con le “Statistiche del commercio estero” dell’Istat si registra «armi di calibro superiore a 12,7 millimetri, bombe, munizioni, siluri, razzi, aeromobili, software, tecnologie, corazzature, apparecchiature per la direzione del tiro».
A trainare l’export «aziende con sede nella provincia di Roma (seguite a grande distanza da Brescia e Lecco)». I nomi? «Non sono noti ma incrociando gli atti parlamentari e i bilanci è possibile ricostruire il contesto». E dunque soprattutto Mes (Meccanica per l’elettronica e servomeccanismi) che non ha accettato di rispondere alle domande di «Altreconomia» come RWM-Italia e Simmel Difesa (sede a Colleferro) del gruppo francese Nexter System.
Quando, nell’ottobre 2019, le forze armate turche hanno iniziato a bombardare le popolazioni del Rojava, i riflettori dei media si sono accesi (poco e male, in verità) sul “colosso” Leonardo «del quale lo Stato possiede il 30,2 delle azioni, tramite il ministero dell’Economia». E il ministro Luigi Di Maio annunciò in Parlamento «la sospensione di nuove licenze per l’esportazione di armi – non toccando dunque quelle in essere – e la firma di un decreto».
Ma di quell’atto annunciato non c’è traccia e – scrive «Altreconomia» – la Farnesina «si è rifiutata di dare riscontro alla nostra richiesta di accesso civico».
Intanto gli attacchi turchi proseguono, come racconta Hazal Koyuncuer, portavoce della comunità curda di Milano che «richiama l’Italia alle sue responsabilità».
In apertura di questo numero «Altreconomia» ricorda le parole di Zehra Dogan, «artista e giornalista curda con cittadinanza turca» condannata a 2 anni e 9 mesi di prigione per i suoi scritti e disegni. Alcune sue opere sono in mostra – fino a marzo 2020 – a Brescia, al Museo di Santa Giulia.
Siamo solidali con il Rojava, un esempio per il mondo
Riproponiamo l’importante lettera solidale (che purtroppo in Italia finora ha girato pochissimo) di esponenti di movimenti sociali, comunità e “prime nazioni” di tutto il mondo – prima firmataria l’attivista Lakota Sioux LaDonna Brave Bull Allard – sull’invasione turca nel nord-est della Siria.
Quello che è in gioco nella Siria nord-orientale è più del destino del popolo curdo o della patria autonoma del Rojava o persino della lotta contro Isis. Quello che è in gioco è la capacità dell’umanità di sopravvivere alla nostra attuale crisi di civiltà e di immaginare nuove alternative prima che sia troppo tardi.
La brutale invasione del Rojava da parte del primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan sta usando tecniche del XX secolo di estrema violenza e genocidio, nonostante un proclamato “cessate il fuoco”. L’aeronautica turca sta facendo piovere napalm e fosforo bianco su civili innocenti. Allo stesso tempo, le squadre jihadiste stanno massacrando civili in fuga come punizione per la lotta del Rojava contro Isis e il suo ruolo come probabilmente il più importante alleato dell’ovest nella regione .
Gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia, la Russia e altre presunte superpotenze stanno tradendo attivamente sia il diritto internazionale sia la convenzione di Ginevra, consentendo e facilitando la pulizia etnica e l’occupazione del Rojava. L’obiettivo della Turchia è chiaro: sradicare ciò che tutte le potenze fasciste temono di più, un popolo libero che abbia il coraggio di creare esperimenti coraggiosi e di successo al di fuori del sistema globalizzato ed estrattivo.
Dal 2012 circa 5 milioni di persone – curdi, arabi, assiri, turkmeni, yazidi e altri – hanno costruito la regione autonoma del Rojava, dimostrando come una società multietnica può coesistere rispettosamente al di là dei vincoli dello Stato nazionale, del patriarcato e del capitalismo. Promuovendo l’autogoverno radicalmente democratico e decentralizzato, l’equità tra i sessi, l’agricoltura rigenerativa, un sistema giudiziario basato sulla riconciliazione e l’inclusione delle minoranze, l’esperimento del Rojava ha presentato un esempio vivente di possibilità nelle circostanze più impossibili. Incoraggiamo chi legge a esaminare l’ispirazione della Carta del Contratto Sociale rojavana.
I leader occidentali fingono empatia mentre i produttori di armi americani, tedeschi e britannici vendono attivamente armi in Turchia. È chiaro che il sistema dominante non può e non difenderà coloro che cercano di esplorare altri modi di conoscere ed essere. Come scrive il leader curdo imprigionato Abdullah Öcalan: “Il vero potere della modernità capitalista non è il suo denaro e le sue armi, [ma] la sua capacità di soffocare tutte le utopie […] con il suo liberalismo”.
Tuttavia, un crescente coro di alleati sta sorgendo in tutto il mondo. Da Haiti al Libano, dal Cile all’Iraq, dal Camerun agli Stati Uniti, dal Regno Unito a Hong Kong, le rivoluzioni sociali si stanno confrontando con l’ascesa del fascismo, del breve termine, dell’avidità, della distruzione del clima e della guerra necessari per sostenere il nostro esistente paradigma economico. Le linee di battaglia stanno diventando più chiare. Dominio contro cooperazione, colonizzazione contro autonomia, oppressione contro libertà, patriarcato contro unione: questi valori sono l’ordito e la trama della lotta che definisce il futuro dell’umanità.
Perché il Rojava sopravviva e la giustizia prevalga davvero, coloro che insorgono nel loro contesto locale devono stare insieme creativamente con voce, valori e visioni condivise per il cambiamento dei sistemi globali. Il Rojava sta combattendo per gli stessi motivi della maggioranza che si sta risvegliando in tutto il mondo. Ha dimostrato che la via d’uscita dalla crisi sociale ed ecologica non è attraverso uno “sviluppo” incentrato sul PIL, ma piuttosto con comunità autonome decentralizzate.
Far funzionare tali comunità in sempre più luoghi, rigenerando gli ecosistemi, guarendo il nostro trauma collettivo e creando strutture sociali di solidarietà e fiducia, è il lavoro di trasformazione dei nostri tempi. Quando vedremo le nostre lotte come intrinsecamente interdipendenti tra loro e con la rete della vita stessa, nessun esercito sul pianeta sarà in grado di fermare l’inevitabile transizione.
Come esponenti dei movimenti sociali, delle comunità e delle Prime Nazioni di tutto il mondo, siamo solidali con la visione e il lavoro del Rojava. Preghiamo per la loro resilienza, protezione e perseveranza. Preghiamo di ascoltare e imparare dalla Terra vivente mentre continua a mostrarci come creare società che vivono in cooperazione con tutti gli esseri. Preghiamo che a coloro che ricoprono posizioni di potere sia ricordata la loro umanità e finisca immediatamente questa invasione.
LaDonna Brave Bull Allard Standing Rock, Turtle Island (USA)
Salim Dara Rural Solidarity, Benin
Eve Ensler One Billion Rising, USA
Sabine Lichtenfels Tamera Peace Research Center, Portugal
Tiokasin Ghosthorse First Voices Indigenous Radio, Turtle Island (USA)
Alnoor Ladha The Rules, Canada
Gildardo Tuberquia Peace Community of San José de Apartadó, Colombia
Yael Ronen Maxim Gorki Theater, Germany
Sami Awad Holy Land Trust, Palestine
Gigi Coyle Beyond Boundaries, USA
Joshua Konkankoh Better World, Cameroon
Stuart Basden Extinction Rebellion, UK
Aida Shibli Global Campus, Palestine
Claudio Miranda Favela da Paz, Brazil
Rajendra Singh Tarun Bharat Sangh, India
IN MORTE DELLA PRIGIONIERA POLITICA CURDA NURCAN BAKIR
(Gianni Sartori)
La prigioniera politica Nurcan Bakir (47 anni di età, in carcere da 28 anni e gravemente ammalata) si è tolta la vita in cella per protestare contro la repressione nelle carceri turche e denunciare le condizioni indegne in cui versano i detenuti. Contro la sua volontà Nurcan era stata trasferita dal carcere femminile di Gezbe a quello speciale di Burhaniye, prigione chiusa di tipo T che sorge nei pressi di Mardin (provincia Balikesir, nella regione di Marmara). Una ritorsione – tale trasferimento – per la sua partecipazione allo sciopero della fame di massa indetto l’anno scorso per protestare contro l’isolamento totale imposto al leader curdo Ocalan. Al suo rilascio definitivo mancavano ancora due anni e lei si era quindi rivolta alla Corte di Giustizia Europea per i Diritti Umani affinché, date le sue condizioni di salute, potesse essere rilasciata prima. Nel suo ultimo contatto con familiari (una telefonata del giorno precedente) aveva detto di non voler “tacere di fronte alla repressione”, ma soprattutto di ricordare “ogni notte nei sogni i suoi figli assassinati dal regime”.
Inizialmente il suo corpo era stato portato all’Istituto di Medicina Forense di Bursa e qui trattenuto in quanto pare mancassero alcuni documenti. Altri problemi dalla direzione del cimitero di Bursa che ha reso problematica (rifiuto di un mezzo di trasporto, proibizione di trasportarla in aereo) forse in un tentativo di impedirla, la restituzione alla famiglia. Nurkan Bakir verrà sepolta nel villaggio di Kayakdere (nel distretto Omerli di Mardin) dove nel pomeriggio di questo 16 gennaio i suoi parenti si stanno dirigendo trasportandone i resti con i propri mezzi. Seguiti e controllati da uno spiegamento di polizia. Sicuramente le forze dell’ordine cercheranno di impedire che la cerimonia funebre si svolga pubblicamente diventando un momento di lotta e protesta contro Erdogan.
Gianni Sartori
AMNISTIATO DA ERDOGAN L’ISLAMISTA TURCO RESPONSABILE DELLA STRAGE DI SIVAS
(Gianni Sartori)
Quello che viene ricordato come il “pogrom di Sivas” risale al 2 luglio 1993.
A Sivas era stato organizzato un festival culturale per ricordare il poeta alauita Pir Sultan Abdal ucciso alla fine del XVI secolo all’epoca dell’Impero ottomano. Il 1 luglio numerosi artisti e intellettuali (scrittori, poeti, musicisti…in maggioranza di confessione alauita) si erano ritrovati nella città natale di Pir Sultan Abdal.
Il giorno successivo, dopo la preghiera del venerdì, migliaia di islamo-nazionalisti (circa 20mila) si radunarono davanti all’hotel Madimak dove si svolgeva l’incontro circondando l’edificio e dandolo poi alle fiamme. Risultato: 37 morti nel rogo. La maggior parte tra gli intellettuali qui riuniti. Due vittime erano impiegati dell’hotel e altri due facevano parte degli assalitori. Mentre le fiamme avvolgevano lo stabile, la folla applaudiva entusiasticamente. Tra le persone bruciate vive, il cantante curdo Hasret Gultekin di 22 anni, Metin Altiok, Edibe Sulari, Nesimi Cimen, Behcet Aysan, Muhlis Akarsu.
In questi giorni Erdogan ha concesso la grazia a uno dei principali organizzatori della strage, Ahmet Turan Kilic (il criminale la cui iniziale condanna a morte era stata poi commutata in ergastolo). Come giustificazione per tale iniziativa il leader di AKP ha invocato “lo stato di salute” dell’anziano stragista (86 anni). Proteste, oltre che dalla comunità alauita e dai parenti delle vittime, sono venute da varie associazioni di difesa dei Diritti umani. Inevitabile il confronto con gli oltre 1350 prigionieri – in larga parte politici – ammalati che invece rimangono in cella. Tra loro circa 500 versano in gravi condizioni, incompatibili con la carcerazione, ma non vengono rimessi in libertà e nemmeno agli arresti domiciliari. Appena una settimana fa in una prigione di Tekirdag – dopo 24 anni di detenzione – era deceduto il prigioniero politico Huseyin Polat. Nonostante diverse emorragie allo stomaco, non era stato né curato, né portato in ospedale. Alcuni parenti di detenuti gravemente ammalati hanno definito la decisione di Erdogan “immorale e disumana” annunciando proteste.
Gianni Sartori