È iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio volontario, il carabiniere che nella notte tra sabato e domenica, non in servizio, ha ammazzato Ugo Russo, quindici anni, nel corso di un tentativo di rapina. L’accusa, e la scelta del capo di imputazione, sono in questo momento poco più che un atto dovuto: gli elementi a disposizione degli inquirenti sono pochi, anche se innescano dubbi rispetto alla dinamica del fatto e alla ricostruzione dell’agente, a cominciare dalla necessità di sparare, per legittima difesa, un secondo colpo – quello che ha raggiunto Ugo alla nuca – quando il ragazzo era già in fuga, o comunque di spalle rispetto al suo assassino. Elementi ulteriori arriveranno nei prossimi giorni, dopo l’autopsia e dopo l’analisi dei sistemi di videosorveglianza, e altri ancora emergeranno con la perizia balistica che proverà a ricostruire quei concitati momenti.
È utile come sempre partire dai fatti. Sono più o meno le tre di sabato notte quando Ugo e il suo amico avvistano in via Generale Orsini un ragazzo e una ragazza a bordo di una Mercedes. Sono giovani, non molto più grandi di loro. Lui, seduto al volante, fa il carabiniere. È in borghese e ha un orologio Rolex al polso. Il ragazzo che guida il motorino accosta, Ugo scende, si avvicina alla macchina, estrae una pistola (si rivelerà poi la replica di una Beretta92, simile a un’arma vera, ma inoffensiva) e la punta verso il guidatore intimandogli di consegnargli l’orologio. Il carabiniere si rifiuta, e dopo qualche secondo esplode un proiettile colpendo Ugo all’altezza del torace. Ugo prova a scappare, o quantomeno si volta, ma il carabiniere spara ancora, colpendolo alla nuca e, di fatto, uccidendolo. Tutte le altre notizie, al momento, sono da verificare. In particolare, la prima: il carabiniere dice di aver fatto fuoco dopo essersi qualificato e soprattutto dopo aver sentito Ugo scarrellare la pistola. La seconda: quando Ugo finisce a terra, l’agente spara ancora, uno o due proiettili che non colpiscono nessuno. Il ragazzo che aspettava Ugo sul motorino sostiene che quei colpi fossero destinati a lui, e che per questo si è dato alla fuga. Ora, se è vero che altri casi che hanno coinvolto cittadini ammazzati da uomini appartenenti alle forze dell’ordine ci insegnano a diffidare persino di atti “scientifici” (si veda l’inquinamento di prove nel caso Cucchi o l’opinabile perizia balistica in quello di Davide Bifolco), le perizie e l’analisi dei sistemi di videosorveglianza potrebbero dare elementi importanti rispetto a tali questioni. Innanzitutto, sul numero degli spari (tre oppure quattro), sulla loro sequenza e la loro destinazione. In secondo luogo sulla caduta del ragazzo: capire dove e come ha raggiunto il suolo, e se al momento del secondo colpo, quello alla nuca, avesse ancora in mano la pistola o l’avesse già persa. Capire quanto tempo passa tra il primo e il secondo sparo, se Ugo si stesse voltando o stesse addirittura scappando e quindi se il pericolo per il carabiniere fosse cessato. Capire a chi, e perché, fossero destinati l’altro o gli altri due colpi sparati.
Al di là tuttavia del piano processuale, della necessità di ricostruire quanto successo quella notte e dell’esigenza da parte della famiglia di ottenere giustizia o almeno conoscere con precisione le circostanze che hanno portato alla morte del figlio quindicenne, esiste un altro piano, che ha risvolti collettivi e sociali, e che, esattamente come nel caso della morte di Davide Bifolco, emerge in maniera prepotente.
Nelle ore successive alla morte di Ugo Russo ci siamo ritrovati a rivivere tutto quanto era successo nelle giornate che avevano seguito il decesso del diciassettenne del Rione Traiano. Oggi possiamo dire senza timore di smentita che prima di essere ucciso dal carabiniere Macchiarolo, Davide Bifolco non stesse facendo nulla di male, se non andarsene in giro in motorino con due amici. Ma chi ha buona memoria ricorda che la mattina di quel 5 settembre 2014 le agenzie di stampa, traducendo indiscrezioni fuoriuscite accuratamente dalle caserme, parlavano di tre ragazzi armati, pericolosi latitanti, camorristi, e di un posto di blocco forzato. Tutte notizie rivelatesi poi false.
Nel caso di Ugo la cosa si fa più complicata. La rapina, o meglio il tentativo di rapina c’è stato. Ugo era su un motorino con un amico e cercava di prendere un orologio a un giovane in macchina con la propria fidanzata. Considerando ciò che dicono di lui tutte le persone che lo conoscevano, dai parenti agli abitanti del vicolo, dai professori di scuola agli operatori dell’educativa territoriale che frequentava, fino ai membri dell’associazione della Madonna dell’Arco, e alla luce del suo carattere, del suo modo di essere “timido” e “tranquillo”, non è facilissimo farsi una ragione di come Ugo possa essersi trovato in quella situazione. Su questo però si tornerà dopo: il fatto è che il tentativo di rapina c’è stato, ed è un fatto che finisce per eliminare qualsiasi filtro nell’analisi degli eventi, qualsiasi sentimento persino di pietà e qualsiasi possibile moderazione nei commenti da parte di tutti quelli che in queste ore prendono la parola e cominciano la propria filippica dicendo che “certo la morte di un quindicenne è sempre una tragedia, MA”. Il fatto di essere un rapinatore, anzi di stare facendo una rapina, fa sì che non ci sia nulla di strano o di cui rammaricarsi se un adolescente viene ammazzato di notte per strada, e allo stesso tempo mette tutti noi davanti alla prospettiva che abbiamo conosciuto con la morte di Davide Bifolco, anzi con toni ancora più violenti e un sentimento di condanna generalizzato, in cui delle menzogne e delle inesattezze non importa a nessuno.
“Napoli, conflitto a fuoco nella notte. Muore un quindicenne”, titola il Mattino il primo marzo alle 9,30, nonostante da subito venga accertato che non c’è stato alcun conflitto e a sparare sia stata solo la pistola del carabiniere. Sulla stessa linea gli articoli comparsi su Messaggero e Giornale. I giornali locali e nazionali poi, mettono l’accento su due episodi successivi all’omicidio: l’irruzione di alcune persone all’interno del pronto soccorso dell’ospedale Pellegrini, danneggiato quando è stata comunicata la morte del ragazzo, e lo sparo di alcuni proiettili verso la caserma dei carabinieri Pastrengo, con le fantasiose ricostruzioni di una scena da far west, in cui “un gruppo di motorini” (era in realtà uno, con due persone a bordo) circondano e assaltano l’edificio: “Le ipotesi sulla natura dell’avvertimento sono due – scrive Felice Naddeo sul Corriere del Mezzogiorno –. La prima, e anche quella più plausibile, è che sia stata l’immediata reazione all’uccisione del quindicenne. Ma potrebbe anche trattarsi di un avvertimento nei confronti del diciassettenne fermato, affinché eviti di dare particolari sulla dinamica della rapina”. Oppure: “Gli spari potrebbero essere stati esplosi come manifestazione di violenza contro l’Arma, ma anche e soprattutto contro le donne parenti dell’altro ragazzino invischiato nella rapina, responsabile di non aver protetto il quindicenne” (Leandro Del Gaudio, Il Mattino).
Paralleli a queste narrazioni, i commenti sul fatto – che provengano dagli editorialisti, dai politici, dai napoletani stessi che si esprimono via social network – hanno la stessa violenza di quelli ascoltati in occasione della morte di Davide. È il caso del leader della Lega, Salvini, che ritiene “una follia” anche solo “indagare il carabiniere”, o gli insulti all’indirizzo del ragazzo e della sua famiglia sotto l’hashtag social #iostocolcarabiniere, dove c’è anche chi propone “una medaglia” per l’agente, o chi si complimenta con lui per avere “tolto di mezzo un cancro sociale”.
La notizia del danneggiamento del pronto soccorso sancisce la definitiva spaccatura tra la città dei buoni e quella dei cattivi. È morto un ragazzo quindicenne sparato da un carabiniere, ma la notizia nei telegiornali e sui quotidiani on-line sembra essere quella del presidio ospedaliero sfasciato. Chi è dalla parte dello stato e non del crimine – è la linea –, della legalità, della giustizia, non può non restare sconcertato da quel comportamento bestiale, e ogni napoletano per bene, ogni politico in cerca di visibilità, non può non indignarsi per la profanazione di un “luogo sacro come dovrebbe essere un ospedale” (ci sarebbe da scrivere un’enciclopedia su come la politica napoletana e campana abbia valorizzato la sacralità del sistema sanitario negli ultimi trent’anni, ma questa è un’altra storia). “Se questi erano gli amici e i parenti del ragazzo – si scrive ancora su #iostocolcarabiniere – non c’è da stupirsi che lui andasse a fare le rapine”.
L’approccio all’episodio del pronto soccorso, in particolare, mette a nudo un’inquietante disparità nell’attitudine all’empatia e alla comprensione. Tanti tra opinionisti, cittadini, giornalisti, politici, si immedesimano nel poliziotto che ha sparato per difendere il suo orologio e la sua fidanzata, perdendo certo il controllo, ma freddando in fin dei conti solo un rapinatore (in fuga, con una pistola finta, colpendolo alla nuca come una esecuzione). Nessun alibi invece per parenti e amici del ragazzo che entrano in un pronto soccorso e perdono il controllo quando gli viene detto che il loro amico, cugino, nipote quindicenne, sparato alla testa da un carabiniere non in servizio, è morto.
Ancora una volta, come sempre in questi casi, vittime e carnefici si confondono e vengono sovvertiti ad arte. Ugo è morto poco più che bambino, è vero, ma non è una vittima perché stava facendo una rapina. Il carabiniere ha sparato, è vero, ma non è un assassino perché voleva difendere il suo orologio. Il capovolgimento di prospettiva è talmente forte da costringere nei giorni successivi i familiari del ragazzo – raggiunti dai soliti avvoltoi in servizio permanente – a uscire allo scoperto, nella paradossale condizione di doversi difendere perché il loro figlio o nipote è stato ammazzato.
Ad ascoltare bene, fanno riflettere due passaggi dell’intervista rilasciata dalla zia di Ugo. Come tutte le persone che lo conoscono, infatti, la donna mette l’accento sul fatto che suo nipote era un “ragazzo tranquillo” perché lavorava. In effetti Ugo le aveva fatte e le faceva tutte. Il muratore, il “pittore”, il garzone del fruttivendolo. Aveva di fatto lasciato la scuola e provava a mettersi qualche soldo in tasca in questo modo. Eppure tutti parlano di questi saltuari lavoretti come si potrebbe parlare di un posto fisso alle Poste o in fabbrica, come se oggi un ragazzo di un quartiere popolare potesse davvero trovare emancipazione attraverso il lavoro. Ma nessuno ha l’onestà di spiegare di quale lavoro stiamo parlando. Fare oggi il ragazzo del bar, o il muratore a chiamata, garantisce a un adolescente o a un giovane di mantenersi fuori dai guai? Non funzionava così trenta o quarant’anni fa, quando una rete economica e produttiva era ancora in piedi, figuriamoci oggi che il mercato del lavoro è regolato dall’instabilità dei flussi macroeconomici, dagli umori dei piccoli imprenditori, dall’assenza di tutele. E allora diventa surreale dover esibire dieci o quindici giorni di lavoro al mese per ottenere la patente di “bravo ragazzo”, quando quel “lavoro” non è abbastanza non solo per emancipare nessuno, ma neppure per preservarlo da una “brutta strada”.
Il secondo elemento che colpisce è una frase con cui la zia prova a descrivere il modo di essere di suo nipote, ancora una volta costretta nell’autodifesa della vittima. «Quando sentiva gli spari nel vicolo se ne scappava di corsa per le scale», dice con la testa alta. Forse, se fossimo più disposti ad ascoltare le voci di chi in certi quartieri ci abita, nelle rare occasioni, spesso tragiche, in cui queste salgono alla ribalta, se ci concentrassimo sul loro contenuto e non sul dialetto sguaiato, l’italiano sgrammaticato, l’alto timbro di voce, le lacrime create ad arte dai cronisti, sulla gestualità, sull’arredamento kitsch delle case, forse potremmo metterci a riflettere su altro. Per esempio, sul fatto che un bambino debba crescere in un posto in cui ti capita anche solo due o tre volte nella vita di dover scappare con il cuore in gola per ripararti dagli spari. E se cresci in un posto così, che è così anche per precise responsabilità e scelte fatte o non fatte da parte di chi governa e ha governato la città, forse non è poi tanto assurdo e inspiegabile se una sera di inverno, senza sapere bene come, ti ritrovi con una pistola su un motorino, accecato dal luccichio di un orologio che vale quanto un anno o due del tuo “lavoro”, e forse anche di più. Persino se sei un “ragazzo tranquillo”, qualsiasi cosa queste parole vogliano dire.
Riccardo Rosa