L’Italia è una enorme zona rossa, nessuno può uscire di casa, se non per comprovati motivi.
In cosa consiste la crisi che ci ha portato a questa situazione?
La gravità è data dalla mancanza di posti in terapia intensiva. Un articolo su Lancet stima che avremmo bisogno di 5000 posti in più. Già nel 2018 i medici denunciavano che la terapia intensiva a Milano era al collasso per via dell’influenza stagionale. D’altra parte sono stati fatti 37 miliardi di tagli alla sanità negli ultimi 10 anni. Con il taglio delle strutture ospedaliere e dei posti letto siamo passati da 4,5 posti letto per 1000 abitanti a 3,2 nel 2017, contro una media europea di ben 5 posti letto ogni 1000 abitanti. Nel 2018, secondo i dati OCSE, la spesa pubblica per abitante è stata di 2200 dollari. Nello stesso periodo in Francia e in Germania è stata più del doppio.
Lo scopo dei decreti messi in atto dal governo è evitare il contagio con un virus mortale?
L’età media dei deceduti è 81 anni e il rischio riguarda soggetti con due o tre patologie croniche (l’aspettativa di vita in Italia è 83 anni). Molti precisano infatti che la causa di morte non è “per” Covid-19 ma “con” il Covid-19. In Cina i decessi sono stati circa 3 mila. I migliori modelli predittivi per l’Italia stimano che avremo al massimo 4 mila decessi Covid-19 alla fine dell’epidemia. Essendo dei modelli predittivi si basano su delle ipotesi e le stime hanno ampi margini di incertezza, ma non possiamo fare a meno dei modelli predittivi per fare delle scelte in ambito di salute pubblica. Di certo sappiamo che ogni anno in Italia i decessi per complicazioni influenzali variano tra i 10 e 20 mila.
Come mai gli scienziati hanno posizioni contrastanti?
Nelle statistiche non c’è nulla di oggettivo. Le stime sono fatte sulla base di ipotesi e scelte metodologiche che possono essere differenti. Ad esempio il governo tedesco non include nella lista dei decessi “per” Covid-19 le persone che presentano altre patologie, diversamente da Italia e Cina. E questo fa sì che la percezione sociale sia completamente differente.
Possiamo fidarci dei dati riportati dei media?
In una situazione generale di sfiducia nella scienza, i media non aiutano a diffondere una comunicazione scientifica chiara. Sappiamo che, pur di attirare l’attenzione e vendere la notizia, la creano. Questo ha effetti deleteri su larga parte della popolazione, ma è anche vero che in questa occasione si è diffusa una grande curiosità per la statistica, l’epidemiologia e i modelli matematici. In tanti provano a fare stime e a creare grafici sull’andamento dell’epidemia, grazie alle piattaforme online che permettono di condividere immediatamente dati per analizzarli in tempo reale. Da questo punto di vista, è un interessante esercizio di scienza dal basso.
Cosa avremmo potuto fare in alternativa alla misure decise?
Nessuno contesta i primi provvedimenti presi dal governo e gli inviti alla precauzione, come ad esempio il decreto del presidente del consiglio dei ministri dell’8 marzo in cui si raccomanda a tutte le persone anziane o affette da una o più patologie croniche di evitare di uscire dalla propria abitazione, se non in caso di stretta necessità. Infatti si sa chi sono le persone che hanno maggiori probabilità di sviluppare forme gravi di malattia e sono loro quelle da tutelare. Le stesse direttive dell’OMS suggeriscono di isolare il maggior numero possibile di casi e mettere in quarantena i loro contatti più stretti, non altro.
I dubbi sorgono invece rispetto alla chiusura di interi comparti produttivi e alle limitazioni delle libertà individuali. Non abbiamo certezza che restrizioni così severe siano davvero efficaci. Per dimostrare che una certa misura abbia effetto è necessario confrontarla con una misura differente, e ora non abbiamo dati in questo senso. Per molti epidemiologi, chiudere le frontiere a patogeni altamente infettivi non garantisce nulla perché i confini sono una realtà estremamente “porosa”.
Il panico che si è scatenato e che non ha aiutato a prendere decisioni con la necessaria calma nasce anche dall’uso di parole che evocano immaginari catastrofici, ma che in termini tecnici hanno altri significati. Infatti lo stesso direttore generale dell’OMS ci tiene a precisare che “pandemia” è “una parola che, se usata in modo improprio, può causare paura irragionevole”, e aggiunge: “descrivere la situazione come una pandemia non cambia la valutazione sulla minaccia rappresentata da questo coronavirus». Secondo la definizione dell’Oms, una pandemia è “la diffusione mondiale di una nuova malattia”. È infatti l’elevata trasmissibilità – e non tanto il tasso di mortalità – a fare di un’infezione una possibile pandemia. Non è sufficiente che una malattia sia molto diffusa e potenzialmente letale, infatti il cancro non è una pandemia, mentre lo è stata la febbre suina. L’OMS, basandosi su uno studio pubblicato sulla rivista Lancet, ha lanciato un forte allarme anche rispetto alla influenza stagionale. Per avere un’idea delle proporzioni degli eventi di cui stiamo parlando, nel mondo ogni anno sono state stimate fino a 650mila morti per problemi legati ai virus dell’influenza. Infatti mentre la letalità dell’influenza è sottostimata, quella da coronavirus è molto probabilmente sovrastimata perché non si sa quante siano le persone realmente entrate in contatto con il virus.
Di fronte a scelte emergenziali di questo tipo, è importante cercare di capire i numeri ma soprattutto porci domande di senso. Per fare un confronto con realtà che conosco di più penso ai tumori, per il quali la mortalità è almeno 10 volte più elevata. L’organizzazione mondiale della sanità ha stimato che a causa dell’inquinamento abbiamo avuto 3,2 milioni di decessi prematuri in tutto il mondo nel 2010, eppure le misure adottate dai governi a questo riguardo sono sempre state minime. Ma come dice un’amica dalle grandi intuizioni, i tumori non sono contagiosi, mentre l’immaginario di un virus invisibile, che ti colpisce grazie alla vicinanza del corpo dell’altro, viaggia veloce, forse più del virus stesso.
Sento quindi la necessità di ragionare sull’efficacia di scelte così drastiche, per capire le giuste proporzioni di questi eventi, perché in questi momenti c’è bisogno di avere un’intelligenza politica strategica di lunga veduta. Mi chiedo quindi chi pagherà la crisi economica che arriverà, chiudendo in casa l’Italia intera. Quante persone perderanno il lavoro? Quanti negozianti/ristoranti/piccoli imprenditori dovranno chiudere? E le badanti, i precari, i riders, i giovani che lavorano a progetto? Il mio timore è che le conseguenze della cura saranno peggiori della malattia che si vuole curare e che le malattie e i morti prodotti dalla recessione mondiale saranno molti di più di quelli che moriranno a causa del virus.
Ma in questo momento ci vuole coraggio a prendere parola per mettere in dubbio la sensatezza delle misure di contenimento senza precedenti decise per l’emergenza Covid-19. Quando qualcuno ci prova subito scatta il linciaggio. Invece di prendersela con le forze politiche che ci hanno portato a questa situazione, la rabbia viene rivolta verso chi pone dei dubbi. Non è ora di fare politica, mi dicono. Così, se provi ad esercitare senso critico, diventi automaticamente un’incosciente insensibile. I media hanno condizionato talmente l’opinione pubblica che chi esce per una passeggiata diventa una specie di untore manzoniano e nascono “le sentinelle di condominio”. Ci stanno bombardando giorno dopo giorno con dati di cui si fatica a capire il senso. In prima pagina le notizie puntano su un immaginario apocalittico, facendo leva su paure consce e inconsce. E trovare le parole, e quindi il simbolico, che sappiano fare ordine, quando lo stato, i media e la scienza hanno perso autorità, non è facile.
La rabbia può essere un’energia positiva ma ci vuole indipendenza simbolica per capire come renderla politica e farne qualcosa di buono. Così mi guardo indietro alle esperienze passate.
Tognoni, che è stato direttore scientifico del centro di ricerche farmacologiche e biomediche della Fondazione Mario Negri Sud, ricorda che ai tempi di Seveso, quando l’epidemiologia e la sanità erano più forti, la credibilità dell’istituzione è cresciuta perché si è appoggiata ad una comunità scientifica in dialogo con i cittadini. Ora invece un problema di salute pubblica è stato trasformato in uno scenario di “protezione civile”, tanto che nella narrazione il virus diventa un nemico invisibile che può colpire mortalmente ovunque e chiunque, e la paura e l’impotenza diventano le protagoniste. Di fronte ad una situazione di “sicurezza nazionale” contro questo invasore imprevedibile lo stato si è posto come garante, senza sentire il bisogno di fare riferimento ad una comunità scientifica. Da qui deriva il disordine simbolico e la mancanza di autorità.
Il Covid-19 non è solo una emergenza sanitaria. È un problema politico. D’altra parte non vi è problema scientifico che possa dirsi neutrale. Se dovremo affrontare una crisi economica di proporzioni imprevedibili, se stiamo accettando che vengano limitate libertà fondamentali, non è a causa di un virus, ma di governanti dissennati che hanno tagliato i fondi al sistema sanitario, e che ora hanno la pretesa di avere trovato la soluzione giusta nel fermo immagine della vita sociale ed economica.
La narrazione che è passata è che i cittadini sono degli “irresponsabili” e lo stato deve fare ordine.
Siamo d’accordo che vista l’eccezionalità della situazione lo stato deve per Costituzione preoccuparsi di tutelare la salute dei cittadini con ogni mezzo, ma fino a che punto e di fronte a quale emergenza possono essere messe in discussione le libertà fondamentali? E se domani l’emergenza saranno i sacrifici economici?
Quindi io, come donna e ricercatrice che lavora in ambito medico e scientifico, non posso che diffidare di uno stato che punta tutto su scelte emergenziali e che non rilancia, né nel dibattito pubblico né come scelte politiche, le questioni strutturali di base della nostra società.
Proprio di fronte a crisi di questo tipo è necessario pensare a come socializzare la rabbia e renderla politica. La rabbia verso uno stato che doveva tutelare la salute pubblica e invece ci sta portando verso una crisi economica dalle dimensioni imprevedibili.
Sara Gandini – epidemiologa e biostatistica. Laureata in Statistica economica, ha conseguito il master in Biometria presso l’università di Reading (UK) e il dottorato in Ricerca epidemiologica presso l’università di Birmingham (Publich Health)
da Effimera
REFERENZE
http://www.strettoweb.com/…/coronavirus-iss…/983750/
http://homes.stat.unipd.it/renatoguseo/content/ricerca
https://fullfact.org/health/coronavirus-compare-influenza/
https://ourworldindata.org/coronavirus
https://www.iarc.fr/wp-content/uploads/2018/07/AirPollutionandCancer161.pdf
https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(20)30627-9/fulltext
https://www.ars.toscana.it/2-articoli/4241-polmonite-da-nuovo-coronavirus-cina.html
https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(17)33293-2/fulltext