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Nei CPR nessuna protezione contro il coronavirus

“Gridavamo libertà, libertà”, dice Ylian, con la voce spezzata dalle lacrime, mentre racconta di aver protestato il 18 marzo dietro alle grate del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria a Roma, chiedendo di essere rilasciata, perché teme per la sua salute insieme a una quarantina di donne, rinchiuse da settimane nel Cpr in una situazione di promiscuità mentre fuori la pandemia avanza.

“Qui dormiamo in camere da sei o da quattro, mangiamo tutte insieme, usiamo gli stessi servizi. Non tutte rispettano le norme igieniche e di sicurezza”, racconta la donna di 26 anni, che è rinchiusa nel centro di detenzione da più di un mese. Nel centro sono ospitate in tutto circa 120 persone, tra settore femminile e settore maschile.

“Vediamo in televisione quello che sta succedendo fuori e abbiamo paura”, continua. È arrivata in Italia sei mesi fa con un visto turistico, poi alla scadenza del visto è rimasta nel paese da irregolare, dice di essere vittima di tratta e di non poter tornare nel suo paese, Cuba, per timore di essere perseguitata. Ha fatto domanda di asilo ed è in attesa di una risposta, ma in ogni caso è rinchiusa in un centro di detenzione, perché non ha un permesso di soggiorno valido, è una sans papier, un’irregolare.

Senza un protocollo
Nonostante la maggior parte dei voli di rimpatrio sia stata sospesa a causa dell’epidemia di coronavirus, i centri di detenzione per il rimpatrio italiani continuano a funzionare a pieno regime, senza che sia previsto nessun protocollo di sicurezza, né per gli ospiti né per gli operatori e i poliziotti che ci lavorano.

Sono circa quattrocento le persone rinchiuse nei Cpr italiani in un regime di detenzione amministrativa e se qualcuno dovesse risultare positivo al test del coronavirus, non ci sarebbe una procedura stabilita per affrontare la situazione. “Nessuno rispetta la distanza di sicurezza di un metro, non ci sono né mascherine, né guanti, né disinfettanti”, racconta la donna. “Chiediamo che ci facciano stare recluse in casa o che ci tengano nelle comunità, nei centri di accoglienza, ma non qui dentro, dove la sicurezza è impossibile”.

Mentre l’Italia sta vivendo la più grave emergenza sanitaria della sua storia, in alcuni contesti come i Cpr o le carceri, non valgono le stesse regole esistenti all’esterno e questo alimenta tensioni e paure. Per gli stranieri, ma anche per gli operatori. “Ogni volta che entra un nuovo o una nuova, siamo terrorizzati anche da un semplice raffreddore”, spiega Ylian. “Ho smesso di mangiare per la paura di prendermi la malattia negli spazi comuni come la mensa”, conclude.

“Gli ingressi non sono bloccati, ma la maggior parte dei voli di rimpatrio è sospesa”, conferma il direttore del Cpr di Roma, Enzo Lattuca. “Non ci sono possibilità reali di rimpatrio per il momento”, continua il funzionario. Il prefetto ha mandato tre circolari sulla salute degli ospiti dei Cpr, tuttavia non ci sono protocolli nazionali prestabiliti, né per gli operatori, né per gli ospiti e tutto è affidato al buon senso dei gestori. “Abbiamo preso delle misure: abbiamo sospeso le visite delle associazioni come quelle antitratta per evitare che il centro sia sovraffollato, abbiamo comunicato con dei cartelli in tutte le lingue la necessità di prendere precauzioni”.

Ma nessun documento ufficiale, né tantomeno il decreto governativo Cura Italia menziona le misure necessarie da adottare per garantire sicurezza in questo tipo di realtà. L’operatrice antitratta Francesca De Masi conferma che da due settimane sono sospese le visite delle associazioni come la sua nel centro, per ragioni di sicurezza.

“Come fai a imporre il distanziamento sociale in una struttura dove le persone dormono in moduli ristretti?”

“A differenza degli istituti di pena italiani, dove il governo ha diramato delle direttive, per quanto riguarda i Cpr non c’è stata un’iniziativa da parte del ministero dell’interno. In alcuni casi sono stati gli stessi enti gestori a chiedere dei chiarimenti alle prefetture per il Covid-19”, conferma Elena Adamoli dell’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.

In tutta Europa
Tra dicembre e gennaio i centri per il rimpatrio sono stati protagonisti di proteste e rivolte per via delle condizioni di vita dei reclusi e molte strutture sono state danneggiate o ridimensionate. Tuttavia, nonostante l’emergenza sanitaria delle ultime settimane, non è stata disposta una loro definitiva chiusura. “Tutte le inadeguatezze di queste strutture che abbiamo sempre denunciato in questa situazione appaiono in maniera ancora più eclatante. Come fai a imporre il distanziamento sociale in una struttura in cui le persone dormono in moduli ristretti e usano gli stessi bagni?”, chiede Adamoli.

“Un caso positivo potrebbe scatenare situazioni di disordine e rivolte, di questo sono coscienti anche i poliziotti e gli operatori”, continua. “I momenti di frizione si hanno proprio quando arriva un nuovo ospite nel centro”. I nuovi ingressi sono sottoposti a un isolamento di 48 ore, che però non sembra sufficiente a garantire la sicurezza. Il garante nazionale in due lettere inviate al ministero dell’interno ha sollevato la questione della legittimità del trattenimento di queste persone che non hanno nessuna prospettiva di essere rimpatriate.

“Siamo in una situazione di pandemia, tutte le frontiere sono chiuse, i voli sono sospesi, e questa situazione andrà avanti per almeno altri due mesi. Per questo tra l’altro abbiamo chiesto al ministero di rilasciare tutti quelli che sono vicini alla scadenza: è illegittimo trattenerli in queste condizioni”, afferma Adamoli. Il ministero dell’interno non ha mai risposto alle lettere del garante nazionale. “Il presupposto stesso dell’esistenza dei Cpr, cioè la possibilità del rimpatrio, è venuta meno. Quindi ci si chiede quale sia la legittimità dell’apertura di questi centri”.