In quali trappole cadiamo nel discutere di «emergenza coronavirus»
- maggio 15, 2020
- in Editoriale
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Chi focalizza sul virus sfoca l’emergenza, chi focalizza sull’emergenza sfoca il virus… È inevitabile che vada così? No.
Ormai più di due mesi fa, nella terza puntata del nostro Diario virale, cercammo di chiarire cosa intendessimo per «emergenza». Parlammo di «un equivoco di fondo, un malinteso concettuale che ci vedeva reciprocamente lost in translation», e spiegammo:
«C’era chi per “emergenza” intendeva il pericolo da cui l’emergenza prendeva le mosse, cioè l’epidemia.
Invece, noi e pochi altri – in nettissima minoranza ma in continuità con un dibattito almeno quarantennale – chiamavamo “emergenza” quel che veniva costruito sul pericolo: il clima che si instaurava, la legislazione speciale, le deroghe a diritti altrimenti ritenuti intoccabili, la riconfigurazione dei poteri…
Chi, ogni volta che si parlava di tutto ciò, voleva subito tornare a parlare sempre e solo del virus in sé, della sua eziologia, della sua letalità, delle sue differenze con l’influenza ecc., a nostro parere sottovalutava la situazione.»
Ogni emergenza is here to stay
Quella dell’«emergenza» – volta per volta l’emergenza-terrorismo, l’emergenza-conti pubblici e tutte le cornici emergenziali che abbiamo conosciuto – non è mai una narrazione qualsiasi. È una Grande Narrazione a lunga gittata, che una volta imposta nell’immaginario ha una spinta inerziale fortissima, e non può essere fermata a piacimento.
Quando l’«emergenza» comincia ad avere effetti disfunzionali, si lavora per attenuarne la presa, smussando gli spigoli, si rallenta e si lascia sedimentare, ma ci vuole tempo. E in ogni caso gli effetti saranno permanenti: tutte le emergenze che abbiamo conosciuto si sono accumulate, potremmo quasi farne una “stratigrafia”.
Quasi vent’anni dopo, noi stiamo ancora vivendo – anche se non più in fase acuta – dentro l’emergenza post-11 settembre. Ce ne accorgiamo, ad esempio, ogni volta che ci controllano i bagagli all’aeroporto. Le attuali procedure, la cui logica non è molto chiara e sembra più “teatrale” che altro, furono introdotte allora.
Stiamo ancora vivendo le emergenze-conti pubblici di inizio anni ’90 e del 2011, perché i tagli, le controriforme e l’austerity che grazie a quelle emergenze si imposero ci hanno condotti sin qui, alla situazione attuale.
È ancora con noi buona parte della legislazione speciale anti-terrorismo di fine anni ’70 – inizio ’80. Ecc. ecc.
Sulle continuità retoriche e “prossemiche” tra la capillare «emergenza degrado» degli anni Dieci e l’emergenza coronavirus della primavera 2020 ha scritto per noi Wolf Bukowski.
Nessuna emergenza è alle nostre spalle, tutte quante sono sulle nostre spalle.
Il capitalismo ha colto la palla al balzo
Figurarsi, dunque, se si potrà uscire con facilità dalla narrazione emergenziale imposta per affrontare questa pandemia. Stiamo parlando dell’emergenza più impattante e pervasiva a nostra memoria, e a livello planetario. Molto di ciò che si è sperimentato in questi tre mesi – pensiamo solo alla DAD – è qui per restare, seppure in forme meno vistose (ma proprio per questo più pervasive). Pensiamo anche alle deroghe sul diritto del lavoro, o alle deroghe ambientali, che verranno chieste e ottenute grazie all’emergenza, in nome della «ripresa».
Tutto questo nella difficoltà di mettere in campo un’opposizione concreta, perché permarranno a lungo condizioni di «distanziamento sociale» che, se non rendono impossibili le lotte, comunque danno ancor più pretesti e strumenti di quanti ce ne fossero prima per reprimerle. Sempre Wolf Bukowski ha scritto un fondamentale articolo su come potrebbe incancrenirsi nel nostro quotidiano l’idea del «distanziamento sociale».
Poter dare alla pandemia la colpa di una crisi e di una recessione che stavano comunque arrivando è molto comodo per il capitale, per i suoi settori che da questa fase stanno traendo o cercano di trarre vantaggio, e per quelli che vogliono recuperare il terreno perso.
Grazie al virus Sars-Cov-2, il capitale ha avuto l’occasione di accelerare certe dinamiche per poterle gestire meglio. Stante l’inevitabilità di una recessione, di gran lunga meglio gestirla potendo scaricare le colpe su un evento presentato come “naturale”, sulla sfiga, su un disastro, su condizioni “esterne” al sistema (noi sappiamo che non è così, che la colpa della pandemia è del sistema, ma ogni volta dobbiamo spiegarlo).
Tutto questo, lo ribadiamo sempre, non è l’esito di un Piano, di un complotto del capitale. Il capitale risponde a quel che accade, com’è ovvio, in modo capitalistico. Il potere politico gestisce quel che succede dentro le compatibilità capitalistiche. Un’emergenza non è mai pianificata con grande anticipo: consiste nel prendere la palla al balzo.
Non si può parlare di «fase 2», «fase 3» e quant’altro soltanto guardando al pericolo in senso stretto, cioè in termini virologici ed epidemiologici. Bisogna parlare di cosa ci lascerà quest’emergenza, e di come agire, come riconquistare spazi di dissenso e conflitto in quella realtà multi-strato.
Intermezzo: «Lancia/scudo»
Tutta questa storia è cominciata in Cina, giusto?
In cinese, il termine «contraddizione» è reso coi due ideogrammi 矛盾, rispettivamente «lancia» e «scudo». Se si guardano attentamente i due caratteri, si riconoscerà la stilizzazione dei due oggetti.
Si tramanda che l’accostamento, e il relativo concetto, derivino da una storia risalente al III secolo d.C. (dinastia Jìn).
Un istrionico mercante girava per villaggi nello stato di Chu e, tra i vari articoli, vendeva anche lance e scudi. In una piazza, un tizio gli chiese come fossero le sue lance, e lui, sboroneggiando, disse che erano le migliori al mondo e che potevano perforare qualunque scudo.
Poco dopo, un altro tizio gli chiese come fossero i suoi scudi, e lui, sempre sopra le righe, disse che erano i migliori al mondo, e che nessuna lancia avrebbe potuto perforarli.
Al che un terzo astante, che aveva udito entrambe le réclames, gli chiese: «Ma quindi cosa succederebbe su una delle tue lance colpisse uno dei tuoi scudi?»
Incapace di rispondere, il mercante lasciò il villaggio.
«O sottovaluti il virus o sottovaluti l’emergenza»
C’è una contraddizione di fondo in tutte le discussioni sull’emergenza coronavirus, una contraddizione che si presenta in forma di falso dilemma ed è conseguenza dell’esser incorsi – tutte e tutti noi, chi più chi meno – in dicotomie fallaci, dell’essere caduti in trappole retoriche come quella in cui si cacciò l’antico mercante cinese. Questa contraddizione va tematizzata e superata, per adottare quello che in un altro post abbiamo chiamato «approccio olistico» – o sintetico, se si preferisce una terminologia più dialettica, nel senso del trovare una sintesi che superi in avanti gli opposti.
Negante ha trovato un modo bello ed efficace di rappresentare questa contraddizione. Lo ha fatto in un commento al post precedente, di cui riportiamo un estratto:
«All’inizio lo esprimevo quasi come una battuta, ma poi mi è apparso serio: si tratta di una sorta di principio di indeterminazione in senso heisenberghiano, fra il virus e l’emergenza. Non puoi guardare e tenere fermo lo sguardo su entrambi, ma o sottovaluti uno o l’altro. Sottovaluti agli occhi dell’altro. Cioè: per colui che vede bene il virus (o crede di vederlo bene) l’emergenza è solo una contingenza che passerà se passerà il virus; per colui che vede bene l’emergenza (o crede di vederla bene) il virus, per quanto serio e pericoloso, sarà sempre meno letale delle conseguenze che le politiche emergenziali stanno provocando. Ogni discussione ha questa instabilità al suo interno e farla venire a galla non può che essere un bene.»
Questo è anche un ottimo caveat con il quale vagliare le proprie reazioni di fronte a una qualsiasi affermazione sul virus e/o sull’emergenza. Quanti cartellini sulla pericolosità del virus pretendiamo che timbri chi vuol parlare dei pericoli dell’emergenza? E quanti cartellini sull’insensatezza dell’emergenza vogliamo che timbri chi desidera discutere della sensatezza del virus?
E vale per esempi più specifici: se penso che debbano riaprire le librerie, quante volte devo specificare che ero per chiudere le fabbriche? E se ero per chiudere le fabbriche, quante volte devo spiegare che questo non implicava chiudere tutti in casa?
In giro c’è troppo pensiero binario, troppo manicheismo, troppo facile e tranciante tertium non datur. Invece non solo esistono tertia: esiste il molteplice, con la sua complessità. Negarlo, ci porta dritti nella braccia del “doppio legame”, quello su cui si è imperniata gran parte della gestione dell’emergenza e la cui logica è stata presa per buona da chi si concentrava solo sul virus.
Doppio legame: «Che vorresti fare? Vuoi uscire di casa?» Se rispondi di sì, allora vuol dire che ti va bene anche riaprire le fabbriche (e ti faccio ammalare sul posto di lavoro). Se rispondi no, allora ti tolgo libertà di movimento (e ti faccio ammalare di depressione e varie patologie). Come fai, sbagli.
Da qui in avanti
Non ci libereremo né delle pandemie né delle emergenze, entrambe continueranno a colpirci. Solo ragionando in questi termini si potranno superare in avanti le incomprensioni e gli scazzi di questi mesi. Almeno, quelli portati avanti in buonafede. Per gli altri, c’è poco da fare.
L’emergenza ci lascia in eredità anche le macerie di relazioni personali e politiche. Del resto, è accaduto durante e dopo tutte le precedenti emergenze. Le emergenze, imponendo con nuove dicotomie, scombinano gli schieramenti, le allenze, le amicizie. Questa lo ha fatto con una potenza di fuoco immane e con impeto quasi irresistibile. Purtroppo, non ritroveremo tutte le collaborazioni né tutti gli affetti di prima.
Dovremo farcene una ragione.
Wu Ming
da https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/05/mao-dun/