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«Abusi e ingiustizie, vogliamo un mondo senza la polizia»

Interviste a Molly Glasgow, attivista della piattaforma MPD150 che si occupa di monitorare il comportamento degli agenti e a Connie Rice avvocata e attivista dei diritti civili che da anni si batte per riformare la polizia, interviene sull’attualità e sulle proteste divampate dopo la morte di George Floyd

Le mobilitazioni contro la violenza razzista della polizia che hanno travolto gli Stati Uniti durante le ultime due settimane hanno dato ossigeno al dibattito sulle radici strutturali della discriminazione e degli abusi. Viene infatti più volte ribadito come le origini della violenza poliziesca e suprematista vadano ricercate nella storia coloniale dell’Occidente.

Non è un caso che in diverse piazze internazionali le statue di colonizzatori e schiavisti siano state abbattute o decapitate proprio durante le manifestazioni degli ultimi giorni.

Molte attiviste ed attivisti, così come diverse organizzazioni comunitarie stanno infatti chiedendo di ridurre i finanziamenti ai dipartimenti di polizia, una riduzione, seppur minima rispetto ai budget esorbitanti, che è stata approvata dai sindaci di Los Angeles, New York, Washington e altre 13 metropoli.

Molte organizzazioni stanno invece chiedendo l’abolizione o lo smantellamento dei corpi di polizia. A Minneapolis, epicentro della rivolta, le scuole hanno già rescisso il loro contratto con la polizia locale e il consiglio comunale di Minneapolis si è impegnato pubblicamente per raggiungere l’obbiettivo dello scioglimento del dipartimento di polizia metropolitano.

MPD150 è un’organizzazione nata a Minneapolis che prende il nome dai 150 anni di esistenza del Minnesota Police Department, un secolo e mezzo di corruzione, razzismo, violenza anti-sindacale e collusione con milizie suprematiste. 150 anni di tentativi di riformare il corpo di polizia drammaticamente falliti.

MPD150 si batte quindi per costruire una società senza polizia, per spostare i fondi destinati alle forze dell’ordine per invece ampliare i servizi educativi, i centri anti-violenza e di salute mentale, per la prevenzione e la giustizia riparativa, per diminuire le disuguaglianze sociali e favorire l’intervento di esperti invece che degli agenti con equipaggiamento militare.

Una parte importante della violenza e degli abusi perpetrati dai poliziotti negli Stati Uniti avviene infatti in seguito a richieste di aiuto o in situazioni di vita quotidiana come a scuola o durante il lavoro.

Molly Glasgow, attivista di MPD150 e organizzatrice comunitaria delle Twin Cities – Minneapolis e St.Paul, ha risposto ad alcune domande riguardo il contesto in cui è nata la mobilitazione che ha ormai raggiunto una scala intercontinentale.

Con MPD150 vi occupate tra le altre cose di monitorare gli abusi e la violenza della polizia, come descriveresti il contesto dentro cui si è verificato l’omicidio di George Floyd?

L’omicidio di George Floyd è stato il frutto degli abusi della polizia, sì, ma la dinamica con cui Chauvin e gli altri due ufficiali lo hanno ucciso mentre un altro poliziotto stava in piedi a guardare illustra in modo esplicito quanto profondamente sia radicato il suprematismo bianco e l’anti-blackness nel dipartimento di polizia di Minneapolis e nell’intero sistema di polizia nazionale. Le forze di polizia statunitensi sono nate seguendo il modello della polizia metropolitana di Londra, il dipartimento progettato da Robert Peel ispirato al Royal Constabulary istituito sotto il dominio britannico nell’Irlanda occupata per controllare le rivolte delle popolazioni locali. Questa storia è continuata negli Stati Uniti con il genocidio delle popolazioni indigene attraverso la violenza coloniale e l’idea di proprietà e protezione della ricchezza bianca, importando l’idea di sceriffi e gendarmi. Il lavoro della polizia negli Stati Uniti iniziò con le pattuglie schiaviste composte da milizie locali e dai proprietari di schiavi che catturavano i neri che tentavano di liberarsi dal gioco dello sfruttamento coloniale. Questa è la storia da cui è nata la polizia e che continua a guidare le sue funzioni anche nel presente. Questa discriminazione razzista che privilegia la protezione della ricchezza e del capitale a discapito della vita delle persone continua ancora oggi.

Molti media riportano le mobilitazioni in termini di rivolte spontanee altri invece sottolineano il ruolo delle organizzazioni comunitarie, come descriveresti l’emergere delle proteste e il suo espandersi a livello nazionale?

La rivolta è radicata nel dolore e nella rabbia. Le comunità nera, di colore, indigena e migrante chiedono e lavorano per il cambiamento che stiamo vedendo da generazioni. Il sistema continua non solo a non dare valore alle vite nere, ma riproduce abusi e controlla in modo violento le comunità nere e il people of colour*.  Questo cambiamento è atteso da tempo e la gente ne ha avuto abbastanza. Il raccapricciante omicidio di George Floyd di fronte agli occhi di tutti i giovani, si è sommato alla costante ingiustizia economica e razziale, alle violazioni e all’impatto della pandemia globale, e tutto questo ha generato l’attuale mobilitazione. I giovani e gli anziani stanno aprendo la strada a un nuovo mondo, un mondo senza polizia.

Le comunità nere, people of colour, indigene e migranti sono tra le più colpite dal coronavirus, come viene gestita l’esigenza di proteggere i corpi dal virus e il bisogno di manifestare nelle strade?

Le persone hanno lavorato per prendersi cura di sé stesse, indossare maschere protettive e mantenere le distanze quando è stato possibile. È importante sottolineare che la comunità deve affrontare non solo un’emergenza virale che travolge la sanità pubblica ma anche un’emergenza razziale all’interno dello stesso sistema sanitario. Chiediamo quindi che i lavoratori con basso salario non vengano più sacrificati in nome del profitto economico a breve termine durante questa pandemia e che i corpi neri, di colore, indigeni e migranti vengano considerati allo stesso modo dei corpi bianchi.

Pensi che la condanna dell’agente Chauvin, responsabile dell’assassinio di George Floyd, possa essere una risposta esaustiva alle richieste di giustizia delle comunità nere di Minneapolis?

Finché esistiamo all’interno del sistema carcerario e poliziesco, gli agenti che uccidono e commettono abusi devono essere ritenuti responsabili e condannati. Quando riusciremo a costruire un futuro libero dalla polizia, allora aboliremo anche le prigioni e i sistemi punitivi. Una società libera dalla polizia soddisfa le esigenze delle persone ed è progettata e gestita da e per il popolo. La gestione comunitaria degli alloggi, dell’istruzione e delle crisi deve avere la priorità e ricevere le risorse necessarie per intervenire. Gli abitanti dei quartieri possono rispondere ai bisogni della comunità prestando particolare attenzione alla prevenzione, alla riduzione del danno e alla risoluzione dei conflitti. Stiamo costruendo reti di responsabilità che creano spazio per cambiamenti profondi e necessari all’interno del tessuto sociale. L’abbiamo visto con i nostri occhi durante le ultime due settimane, la comunità nera ha avuto successo nel proteggere le proprie case e le proprie attività, senza il supporto delle forze dell’ordine

Come interpretate l’annuncio del Consiglio comunale di Minneapolis riguardo lo smantellamento del distretto di polizia?

Il Consiglio comunale di Minneapolis si è impegnato pubblicamente, con un consenso tra la maggioranza dei suoi membri, a tagliare i fondi destinati al dipartimento di polizia e, usando le loro stesse parole, a “porre fine alle operazioni di polizia così come le conosciamo”. Il consiglio ha assunto questo impegno su un palco di fronte a centinaia di membri della comunità. Devono ancora votare ufficialmente. Questo annuncio è stato il prodotto di anni di organizzazione e delle rivendicazioni che la comunità ha espresso durante la rivolta, in particolare la gioventù nera che si impegnata in prima linea. Toccherà quindi continuare a organizzarsi nella comunità e mettere pressione affinché le loro parole e la nostra visione diventino realtà.

* people of colour è un espressione usata per indicare le minoranze non considerate bianche.

Gianpaolo Contestabile

da il manifesto

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Connie Rice, strategie possibili nell’America di Black Lives Matter

Riportava l’altro giorno un blog dedicato ad appassionati di automobilistica che dal 1990 il Pentagono ha ceduto a prezzi da occasionissima oltre 13mila veicoli militari da combattimento a corpi di polizia civile. Città ma anche modeste località di provincia con meno di 5000 anime si trovano così equipaggiate con mezzi corazzati antimina, scudi anti-cecchino e «kit da interrogazione» che hanno precedentemente visto impiego in Iraq o sulle alture afghane. È la rappresentazione della mentalità militarista alla base del concetto di ordine pubblico in Usa.

Un’aberrazione che si è andata esacerbando con l’avvento del reaganismo e una deriva giustizialista che ha prodotto il maggiore gulag al mondo – oltre 2,3 milioni di detenuti. La sovrapposizione con la discriminazione razziale determina una spirale viziosa che opprime vasti settori non-bianchi della società americana con un apparato di «ordine pubblico» che innesca regolarmente fatti come l’assassinio in diretta di George Floyd. Ogni anno le polizie americane ammazzano circa mille civili, sotto la copertura di una sostanziale immunità.

A Connie Rice, avvocato reduce da mille battaglie per i diritti civili e per la riforma della polizia sin dai tempi del pestaggio di Rodney King e delle sommosse del ’92 a Los Angeles, abbiamo chiesto se esistono prospettive concrete di riforme, alla luce delle proteste nazionali che hanno portato in piazza migliaia di americani o se la storia è destinata a ripetersi.

«Più che una ripetizione io la definirei un’eco. L’attuale massiccio moto di indignazione pubblica è più ampio di quelli precedenti ed è caratterizzato da una forte componente giovanile. È anche stata internazionalizzata in un tempo molto minore di quello che ci volle per il movimento dei diritti civili, si è vista subito una più ampia coalizione di alleati. È stato messo in chiaro che alla luce della continuata oppressione razzista il «consenso a essere governati» è stato revocato. Ed è stata impressionante la velocità con cui si è passati da un hashtag a un movimento internazionale.

Perché è così problematica la polizia americana?
Il paradigma di ordine pubblico della polizia qui discende direttamente dalle slave patrols, le pattuglie per la cattura degli schiavi evasi. Se guardiamo i distintivi che portavano allora sono identici a quelli utilizzati oggi dalle forza dell’ordine delle varie città. Contenimento e soppressione erano strumenti di controllo della popolazione, usati allora come oggi su popolazioni che non si ha nessuna intenzione di includere nella società. Soppressione e contenimento erano i principi costitutivi dei ghetti ebrei in Europa e inUsa, prima vi sono stati gli africani soppressi e contenuti nelle piantagioni, poi gli afro-americani soppressi e contenuti nei ghetti urbani. Per i nativi invece fu applicato un modello di bantustan, rinchiudendoli semplicemente nelle riserve in luoghi remoti. Tutti sistemi per controllare comunità indesiderate.

Quindi un modello fisiologicamente conflittuale?
Sì e gli agenti lo hanno del tutto introiettato. Credono di «bonificare zone ad alta criminalità» senza capire che l’errore discende dalla concezione di polizia come thin blue line la «sottile linea blu» che divide la civiltà dal caos. Le comunità degne di protezione della polizia sono sul lato giusto della linea e devono esser protette, sul lato sbagliato ci sono le comunità da contenere e sopprimere. Fin quando non si supererà questo paradigma non si riuscirà a cambiare davvero. E le persone cominciano a capirlo. Non mi sembra che qualcuno sia sceso in piazza a reclamare una versione più gentile di contenimento e soppressione o per una polizia predatrice ma più cortese.

Quale dovrebbe essere invece il loro ruolo?
L’intervento sociale deve avvenire a monte, organizzando il quartiere. Prima di arrestare i ragazzi a sbatterli in prigione, condannati come adulti ealimentando la catena che va direttamente dalla scuola al carcere. L’incarcerazione di massa in America ha raggiunto un livello socialmente patologico. Quando permetti a queste dinamiche di congiungersi producono quello che Michelle Alexander chiama il «nuovo Jim Crow» – ovvero un sistema giudiziario che sublima l’ordinamento segregazionista del sud. Bisogna interrompere la de-umanizzazione prodotta dalla carcerazione di massa e dalla soppressione poliziesca paramilitare, rimuoverne gli incentivi e sostituirli con una concezione diversa di ordine pubblico, inteso come sicurezza interna delle comunità disagiate.

In questi giorni si sono ventilate riforme anche radicali. A Minneapolis addirittura l’eliminazione della polizia…
La mia regola è che non conviene mai regalare munizioni al tuo nemico. Per questo preferisco pensare a finanziamenti alternativi che semplicemente a un de-finanziamento della polizia. Finanziare una infrastruttura sociale in grado di sostentare una comunità. Non solo porre un pavimento in fondo alla spirale di miseria ma ripristinare i gradini che possano sostenere una scala sociale, ripristinare una rete sociale che permetta alla gente di aspirare a qualcosa di più che la mera sopravvivenza. Il quartiere dove vivo io prospera perché ha servizi, banche, ospedali, alimentari, asili nido. Sappiamo tutti che aspetto ha una comunità sana e non è certo quello che vediamo nella maggior parte dei quartieri neri. A questo si sovrappone il problema specifico del razzismo per cui la polizia considera ogni nero una minaccia, un nemico.

Quindi la polizia continuerà a esserci?
Guardiamo quello che è appena successo a Minneapolis: non hanno eliminato la polizia, hanno eliminato quel paradigma tossico per cercare di sostituirlo con un nuovo modello. Si tratterà anche lì di trovare un’alternativa alla soppressione paramilitare e le basi per una sicurezza cooperativa che riconosca gli esseri umani che compongono al comunità anziché vederli come bersagli. Una forza che non sia preposta a dare la caccia ai neri ma ad aiutarli, a guarire e ricostruire i quartieri.
Allo stesso tempo ci vuole una riorganizzazione radicale e concomitante delle istituzioni per il reinserimento e salute pubblica, un ripensamento che coinvolga tutto il sistema di rete sociale altrimenti la riforma unicamente della polizia è destinata a fallire.

Occorre una commissione nazionale sul problema?
No, non serve, abbiamo abbastanza rapporti, per ultimo quello della commissione del 21st century policing istituita da Obama, alla quale ho partecipato anch’io. Basterebbe riprendere quel rapporto: è tutto lì, nero su bianco. Sappiamo molto bene ormai cosa si deve fare: abbandonare il modello di polizia predatrice e interrompere la spirale della disperazione. Qualche progresso c’è stato – il Lapd (polizia di Los Angeles, ndr.) di trent’anni fa era ben più retrogrado e violento. Ci sono stati cambiamenti ma non abbastanza per aiutare Rodney King e oggi George Floyd, le dozzine di vittime di abusi e soprusi registrati dai video e le migliaia invece a cui continua ad accadere di nascosto.

Ci sono stati esempi di riforme efficaci?
Sì, ad esempio il community safety partnership (una unità speciale stanziata nelle case popolari di Watts ndr.) Era pensata per avere modalità e obiettivi antitetici; era composta prevalentemente da agenti donna. Gli altri poliziotti lo deridono come pussy policing perché hanno come finalità la costruzione di rapporti con i residenti e la distensione. Gli agenti compiono turni di cinque anni per conoscere le persone. Non sono solo di passaggio per menare le mani e premere il grilletto in attesa di promozione alle unità speciali, come accade per molti poliziotti. Fanno pattuglie a piedi, non agguati per beccare conducenti neri ai posti di blocco, sono tenute a conoscere i nomi di ogni ragazzo nel circondario. È la differenza fra ciò che chiamo Dna da gladiatore o da guardiano. E la figura del poliziotto-guardiano è risultata bene accetta dagli abitanti che, dopotutto, sono i più esposti al rischio di violenza per mano delle gang – sono fra l’incudine e il martello.

Come si può raccogliere la spinta politica delle proteste?
La vecchia guardia democratica deve raccogliere le richieste dei giovani e i ragazzi devono capire che probabilmente non tutte le riforme potranno avverarsi in fretta. Come una persona che combatte politicamente da una vita posso dirvi che conviene convincere la polizia a collaborare. Il mandato non è annullare la polizia ma trasformarla. Dobbiamo abbattere il colosso di soppressione e giustizialismo industriale che ha annientato comunità povere nere e brune. È questo il consenso fondamentale che sta emergendo dalle proteste. Non si tratta solo di de-finanziare la polizia ma distogliere quei fondi da operazioni paramilitari e dirottarli verso una strategia unitaria di sicurezza sociale. Un programma riformista che deve apparire nella piattaforma del partito democratico che si appresta al confronto elettorale con Donald Trump.

Luca Celada

da il manifesto

 

No Comments

  • C L

    quello che o letto e vero pure io che sono bianco emigrate sono stato e lo sono ancora con la mia famiglia abbusato e no calcolato come essere umano uniamoci e proviamo a creare u paese piu’ libero sara” un bene per tutti mi unisco a voi