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La protesta contro gli abusi delle forze dell’ordine riguarda il senso della democrazia

Negli Usa e in Francia si discute della riforma dei corpi di polizia. I governi non possono ignorarlo.

Non si era mai vista una mobilitazione così grande contro gli abusi di polizia. Negli Stati Uniti e in Francia è partito un movimento che non è possibile ignorare. La tragica vicenda di George Floyd a Minneapolis, soffocato da un agente per 8 minuti e 46 secondi fino a morirne, è stato l’innesco di un incendio che covava da molto tempo sotto la cenere della discriminazione razziale e sotto la coltre di indifferenza e di impunità che ha spesso coperto le violenze istituzionali. Si è aperto così un improvviso spazio di discussione e (forse) di riforma. Le proposte sono già numerose e nascono da esperienze fatte (e soprusi subiti) sul campo. La più radicale di tutte -definanziare le polizie locali negli Stati Uniti- è assai più seria e ragionevole di quel che sembra, visto che l’espansione della logica di polizia e la militarizzazione degli agenti sono avvenute a discapito delle politiche sociali, verso le quali verrebbero reindirizzati i fondi. In un Paese profondamente segnato dal razzismo e quasi intrappolato nel vicolo cieco della violenza istituzionale, un ribaltamento delle priorità -la prevenzione prima della repressione- offrirebbe una via d’uscita democratica e socialmente avanzata, quindi densa di futuro.

Si parla poi, fra Stati Uniti e Francia, di proibire la tecnica dell’arresto faccia a terra con polsi ammanettati dietro la schiena (causa della morte di George Floyd e numerosi altri), di istituire autorità indipendenti di verifica delle denunce di abusi, di introdurre accorgimenti (riprese video, rilascio di ricevute) che accrescano le tutele dei cittadini sottoposti a fermi e controlli. Altro si potrebbe aggiungere, incluso il disarmo dei corpi di polizia, al momento inconcepibile in un Paese ideologicamente e materialmente armato come gli Stati Uniti, ma plausibile in Europa. In generale, ci sarebbe la storica occasione di discutere di tutto, coinvolgendo possibilmente chi lavora in polizia, e di avviare un discorso serio sulla formazione, la lotta al razzismo, l’obbligo di rendere conto del proprio operato.

44: gli avvisi di garanzia consegnati ad altrettanti agenti della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere per presunti pestaggi di alcuni detenuti dopo una rivolta avvenuta in carcere lo scorso 6 aprile

La questione, tuttavia, è politicamente incandescente. I regimi democratici, in evidente crisi di legittimazione, tendono a incrementare l’uso delle forze di polizia come risposta ai movimenti sociali e di protesta, perciò i governi esitano quando si parla di riformare i corpi e cambiare le regole di ingaggio. Tanto più che gli agenti e i loro sindacati sembrano poco disposti ad accettare simili correzioni e sanno come farsi sentire. In Francia si è assistito a una clamorosa protesta degli agenti contro il ministro degli Interni, reo di avere riconosciuto l’esistenza di un problema di razzismo nelle forze di polizia: migliaia di poliziotti, riuniti davanti ai commissariati, hanno gettato platealmente a terra le manette in dotazione. E i sindacati di polizia hanno rinfacciato al presidente Emmanuel Macron l’impegno profuso -diciamo così- per contrastare le forti mobilitazioni sociali degli ultimi mesi, in testa quella dei gilet gialli.

Non c’è niente di scontato nell’esito delle proteste e non sappiamo se le riforme saranno davvero esaminate; al momento possiamo solo dire che il dibattito riguarda il senso stesso della convivenza civile: la lotta contro gli abusi di polizia e la discriminazione (razziale e sociale) che spesso li accompagna è una lotta per salvare le nostre democrazie da una degenerazione incombente e insopportabile.

Lorenzo Guadagnucci

Tratto da Altreconomia 228 — Luglio/Agosto 2020