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Cosa cambia e cosa resta uguale negli Stati Uniti a due mesi dall’omicidio di George Floyd

Il 25 maggio, un poliziotto bianco uccideva a Minneapolis un afroamericano di 46 anni. Da quel giorno le proteste per George Floyd e contro il suprematismo bianco divampano negli Stati Uniti fino a raggiungere il resto del mondo.

Due mesi fa, George Floyd, un afroamericano di 46 anni, viene ucciso a Minneapolis (Minnesota) da un poliziotto bianco che per oltre otto minuti gli tiene il ginocchio sul collo. Altri tre poliziotti partecipano all’omicidio, immobilizzando l’uomo o allontanando i passanti. Floyd, come Eric Garner nel 2014 a New York e molti altri nel corso degli anni, ripete «I can’t breathe», non posso respirare. L’immagine fa il giro del mondo, proteste divampano in USA – anche in luoghi solitamente poco avvezzi a manifestazioni – e poi in molti altri paesi.

Due mesi dopo, con i riflettori in gran parte spenti, facciamo il punto su quanto sta succedendo negli USA, partendo da due questioni generali. L’omicidio di George Floyd non è l’eccezione, ma la regola. Nel corso di quest’anno, secondo i dati di Mapping Police Violence, la polizia ha ucciso 598 (cinquecentonovantotto!) persone. L’anno scorso in totale hanno superato le mille. Dal 2013, i neri sono il 28% delle vittime, nonostante siano il 13% della popolazione. Il 99% degli agenti coinvolti in omicidi non viene condannato. Nessuno degli Stati USA, ci ricorda Amnesty International, aderisce a standard e leggi internazionali sull’uso della forza da parte dei tutori dell’ordine. La violenza della polizia insomma è la normalità, «la punta estrema di una violenza quotidiana di un paese che si regge sul tessuto della supremazia bianca», nelle parole di Alessando Portelli. Insomma, un elemento strutturale della società statunitense come l’incarceramento di massa o la diffusione e uso delle armi da fuoco. E nella sua strutturalità, chi ne fa le spese sono in maggioranza neri, latini, e bianchi poveri. Qui però sta la seconda questione generale, e cioè che quella supremazia bianca forse comincia lentamente a scricchiolare.

Crisi dell’identità bianca

Quello a cui stiamo assistendo da anni, ma che ha subito una decisa accelerazione in queste ultime settimane, è una perdita costante di controllo del suprematismo bianco negli USA e una presa di parola delle minoranze. La reazione all’uccisione di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis si è concretizzata in una molteplice serie di azioni: la più visibile sono le proteste di strada che hanno infiammato il paese (debordando anche all’estero), ma bisogna guardare anche agli effetti di lunga durata come proposte di legge, l’impatto sulla corte suprema, e quanto e se questa fase influirà sulle elezioni presidenziali di novembre e su quelle locali, primarie incluse, che si tengono anche in questi giorni – a New York, per esempio, una serie di candidati e candidate socialisti hanno battuto democratici centristi di lungo corso.

Si possono quindi provare a cogliere i segni di cambiamenti strutturali nella società statunitense.

Una crisi che possiamo notare nell’affermarsi nel panorama degli stereotipi razziali che informano la società statunitense delle figure di Karen e Ken, stereotipi dei bianchi, privilegiati e razzisti che reagiscono scompostamente a una società che non fa più quello che loro ordinano di fare e di cui non riescono a percepire e comprendere i mutamenti. E allora Karen sbotta quando nel supermercato le viene chiesto di indossare la mascherina e lancia per terra la sua spesa. Ken ha la stessa reazione in un Walmart in Florida. Un’altra Karen, sempre in Florida ma a Jacksonville, dopo aver avuto una discussione con il cassiere si accorge di essere ripresa con un telefono cellulare e tossisce addosso a chi la sta riprendendo. Karen e Ken agiscono spesso in coppia come il 28 giugno a St. Louis, Missouri, quando una coppia di bianchi, Mark e Patricia McCloskey, ha affrontato minacciandoli con un fucile e una pistola i dimostranti di Black Lives Matter diretti verso la residenza del sindaco della città per chiederne le dimissioni. Un’altra coppia di Karen e Ken, a Martinez, California, ha coperto con vernice nera la scritta gialla Black Lives Matter comparsa su una delle strade cittadine nei giorni precedenti. Non manca neanche chi tira fuori armi per minacciare afroamericani e latini, come successo in un parcheggio di un Chipotle Mexican Grill (popolare catena di ristoranti) in Michigan a seguito di un diverbio. La novità è che questi eventi quotidiani facciano notizia e indignino. O che addirittura i bianchi armati vengano perseguiti, come successo nel caso dell’incidente in Michigan o della coppia di St. Louis. Il moltiplicarsi delle Karen e dei Ken, e in particolar modo la diffusione mediatica dei video che rendono quasi automaticamente dei meme queste persone costituisce un elemento di rilievo nel bilancio degli ultimi due mesi di proteste negli Stati Uniti. Lo strumento, utilizzato in maniera più o meno consapevole, della rappresentazione dell’altro sembra in questo momento non essere più nelle mani esclusive dei bianchi e della maggioranza del paese. L’emergere con tale potenza e condivisione di una rappresentazione tanto caricaturale quanto essenzializzante dei bianchi statunitensi sembra davvero un elemento utile per avvicinarsi alla comprensione delle dimensioni dell’erosione del suprematismo bianco sulla società statunitense.

 

 

Qualcosa cambia dunque, lentamente ma visibilmente. Il tutto accompagnato peraltro dal cambiamento demografico del paese: i bianchi, a metà secolo, saranno la più grande minoranza. Ciò non vuol dire che tutto cambierà, che il razzismo sistemico scomparirà, e che l’uguaglianza trionferà. Non dobbiamo dimenticare come la storia degli Stati Uniti d’America dimostri una costante capacità di includere minoranze all’interno delle élite attraverso processi di inclusione simbolica e di bianchizzazione. Non tutte le minoranze poi sono uguali e sono discriminate allo stesso modo (non si parla quasi mai per esempio della complessa posizione degli asiatico-americani), e pensare che agiscano all’unisono è naturalmente un pensiero in definitiva razzista. Ma è indubbio che questo cambiamento demografico è in corso ed erode la supremazia bianca, che però anche in virtù di questo cambiamento reagisce violentemente, o eleggendo un presidente che fa della paura dell’invasione di non bianchi il suo cavallo di battaglia.

Proseguono le proteste

Partiamo dalle violenze della polizia, con episodi incredibili come il disabile violentemente gettato a terra e ammanettato a Los Angeles, o l’uccisione di un uomo freddato a sangue freddo dentro la sua macchina a Phoenix a inizio luglio. Nel frattempo, la stampa è sempre un target privilegiato: avevamo scritto che fino a primi di giugno lo U.S. Press Freedom Tracker aveva catalogato 280 violazioni della libertà di stampa, adesso sono più che raddoppiate.

Ma anche le proteste proseguono. L’epicentro è adesso Portland (Oregon) con più di mille persone nelle strade nell’ultimo fine settimana, molto variegate – per il New York Times si va dagli antifa alle madri con l’elmetto – il tutto mentre la città si avvicina ai sessanta giorni di proteste continuative. La risposta delle forze dell’ordine è estremamente brutale, e qui si sta sperimentando qualcosa di preoccupante e pericoloso che Trump vuole estendere anche ad altre città: l’uso diretto di agenti federali con sostanziale libertà di azione, e spesso in contrasto con le amministrazioni locali. Questi nei giorni scorsi si sono resi protagonisti di detenzioni extra-giudiziarie, come riportano attivisti e militanti, e anche con uso delle armi da fuoco in piazza piuttosto esteso. A Portland come altrove, si rivendica la volontà di non operare la solita perniciosa distinzione tra buoni e cattivi che troppo spesso caratterizza la visione mainstream delle proteste. In questo senso è particolarmente simbolica la presenza di gruppi di donne con elmetti, mascherine, e disposte in cordone che rivendicavano la loro presenza in piazza in quanto mamme, anche attraverso l’efficace coro “Feds stay clear. Moms are here” (“Federali state lontani. Le mamme sono qui”). Questo è del resto un movimento eterogeneo e maturo, che ha creato zone autonome all’interno di città – la più famosa, Capitol Hill Autonomous Zone (CHAZ) di Seattle – dove fare eventi e incontri, immaginare modi alternativi di vivere, luoghi insomma liberati dalle forze dell’ordine e risignificati. Intanto anche la sfida all’immaginario simbolico bianco ha avuto momenti significativi come la marcia organizzata dalla milizia nera armata “The Not Fucking Around Coalition”, a Stone Mountain, in Georgia, luogo chiave del Ku Klux Klan.

Un portavoce ha preso parola attaccando direttamente i suprematisti bianchi: «Le vostre minacce non contano… guardate cosa avete fatto, ci avete fatto venire fuori. Non vedo milizie bianche qui… siamo qui, a casa vostra, e voi dove cazzo siete?»

Impatto istituzionale 

Anche per quanto riguarda l’impatto, o il potenziale impatto, a livello istituzionale delle proteste vale la pena provare a cogliere segni e indicazioni. Due questioni su tutte ci sembrano rilevanti: per la prima volta si discute seriamente di diminuire i finanziamenti alle forze di polizia (che negli USA sono altissimi), con lo slogan “Defund the police” che anche in questo caso sta raccogliendo interesse e supporto inaspettati; e anche il movimento per l’abolizione delle prigioni ha avuto un momento di spinta in questo periodo. È invece presto per capire se e quanto le proteste di queste settimane influenzeranno le elezioni presidenziali.

Siamo senz’altro di fronte a un’onda molto lunga di mobilitazioni, cambiamenti di senso, lenta erosione del suprematismo bianco e progressiva accettazione di nuove voci che inevitabilmente impatta anche una struttura solida e paludata come il Partito Democratico.

Soltanto una politica nazionale di peso, naturalmente Alexandria Ocasio-Cortez, ha appoggiato in tutto e per tutto le proteste, senza fare distinzione tra buoni e cattivi, arrivando persino a consigliare come scendere in piazza, quali strumenti difensivi portarsi. Dall’altra parte, Trump prova a cavalcare il malcontento contro le proteste, ma rispetto ai primi giorni sembra essersi sgonfiato. Il suo tentativo di presentarsi come il presidente del Law and Order si scontra non solo con la tenacia dei manifestanti che reggono la piazza da settimane, con la penetrazione delle tematiche messe in campo da chi protesta anche in luoghi inaspettati, ma anche con le difficoltà di una presidenza già in campagna elettorale che continua a sottovalutare la pandemia. E mentre le proteste, anche grazie al senso di responsabilità dei manifestanti, non sembrano aver contribuito ad un aumento dei contagi, Trump sceglie di alimentare la diffusione del virus organizzando raduni senza distanziamento e con pochissime maschere in località simbolo come Tulsa, dove nel 1921 ci fu un massacro razzista di oltre 300 afroamericani, e intorno al 19 giugno, la data che in USA ricorda la fine della schiavitù. Parrebbe la parabola discendente di un sovrano stanco, ma Trump ci ha abituato a sorprese e colpi di testa, quindi non va dato niente per scontato. Certo non ha aiutato il poster elettorale degli Evangelicals for Trump 2020 con due immagini, da una parte Trump con rappresentanti di forze dell’ordine con scritto “Public Safety” e dall’altra delle foto di proteste violente accompagnate dalla definizione “Chaos e Violence”. Tutto bene, o meglio male, se non fosse che la seconda immagine non è relativa alle recenti proteste, ma è stata scattata in Ucraina nel 2014.

 

 

Ma c’è un altro aspetto, probabilmente più importante, di quello che succede nelle istituzioni che va considerato. Infatti, anche la Corte suprema degli Stati uniti sembra non voler rispettare le aspettative negli ultimi mesi. Tra la fine di giugno e la prima metà di luglio l’istituzione, che dopo le nomine di Neil Gorsuch e di Brett Kavanaugh da parte di Trump avrebbe dovuto garantire al presidente delle decisioni in linea con le sue politiche, si è pronunciata in maniera inaspettata su almeno tre casi, contribuendo a rendere, se mai fosse possibile, ancor meno chiaro lo scenario politico, sociale e istituzionale del paese. Il 29 giugno la corte si è espressa contro la legge della Louisiana che avrebbe di fatto lasciato nello Stato una sola clinica, a New Orleans, a disposizione per chi avesse voluto abortire. La decisione della corte, che fa seguito a una decisione simile presa nei confronti della legge sull’aborto adottata in Texas e stroncata dalla Corte suprema, è stata presa con una votazione di 5 giudici a favore e 4 contrari. Il 9 luglio la corte, con 7 giudici a favore e 2 contrari, ha stabilito che l’immunità presidenziale di cui gode Donald Trump non impedisce che la sua dichiarazione dei redditi possa essere acquisita agli atti dalla procura di New York per l’indagine che sta conducendo sul possibile utilizzo di fondi della campagna elettorale per fini considerati impropri. Nello stesso giorno la corte, con una votazione di 5 giudici a favore contro 4 contrari, ha deliberato che gran parte del territorio orientale dell’Oklahoma, compresa Tulsa, la seconda più grande città dello Stato, ricade dentro i confini della Nazione Indiana. Facendo seguito a una lotta pluridecennale durante la quale le comunità di nativi americani hanno denunciato il non rispetto dei trattati da parte degli Stati Uniti, questa decisione potrebbe avere conseguenze molto rilevanti da un punto di vista legale, in particolar modo sulla possibilità o meno delle autorità statali di poter perseguire i nativi americani su quel territorio, ed economico, soprattutto in termini di norme sulla tassazione, per la popolazione dell’Oklahoma orientale.

Pur affrontando tematiche molto diverse fra loro queste recenti decisioni della Corte, il cui equilibrio si gioca su una maggioranza di 5 giudici di area conservatrice e 4 di ispirazione liberale, ci confermano un dato di ormai medio se non lungo periodo: il blocco conservatore non appare monolitico e nemmeno omogeneo tanto che, di volta in volta, uno o più giudici possono sfilarsi e andare a formare maggioranze insieme al blocco liberale. Per quanto riguarda lo specifico della decisione sui confini dell’Oklahoma certamente il clima che negli ultimi mesi sta caratterizzando il paese anche se non ha influito sugli elementi legali presi in esame dalla Corte ha senza dubbio contribuito a rendere quella decisione più “semplice” da prendere. Per quanto sia presto per stabilire quale sarà l’impatto delle proteste a livello istituzionale, sicuramente possiamo provare a cogliere dei segni e notare questi lenti cambiamenti in corso.

Alessandro Pes e Luca Peretti

da DINAMOpress