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La violenza di polizia come dispositivo dell’ordine politico

La scena di Vicenza, come purtroppo altre precedenti, suscita sconcerto, perché è l’indizio di un potere autoritario, la prova di uno Stato di polizia nello Stato di diritto

La violenza perpetrata da un poliziotto a Vicenza fa venire in mente una serie di episodi analoghi. E suscita sdegno proprio perché appare non un semplice incidente, bensì un gesto rivelativo.

Si parla di «eccessi di forza», di piccoli «abusi». L’idea diffusa è che le forze dell’ordine rimettano a posto le cose. Nell’azione di controllo sarebbe poi inevitabile un cedimento, una mossa esagerata. Ma è davvero così? Si tratta di sporadiche anomalie all’interno di un sistema altrimenti corretto? Oppure la disfunzione è sistematica e lascia intravedere al fondo il funzionamento stesso di un’istituzione oscura?

Da una parte i neri e dall’altra i bianchi, da una parte i poveri e dall’altra i ricchi, da una parte i garantiti, i protetti, gli intoccabili, dall’altra gli esposti, i reietti, i corpi importuni e superflui. Non si tratta di un’applicazione anomala, bensì di un dispositivo volto a definire l’ordine politico. La polizia traccia limiti, sceglie, discrimina, ammette al centro o respinge ai margini. In tal senso sembra fuorviante quella visione economicistica che nel compito della polizia vede solo una normalizzazione finalizzata ad accrescere la ricchezza di pochi. Piuttosto la questione della polizia si inscrive nell’economia dello spazio pubblico.

Perché lì si decide il diritto di appartenenza e quello di apparizione: chi è autorizzato ad accedere, a circolare liberamente, a sentirsi a casa propria, e chi viene invece identificato, intimidito, ricacciato nell’invisibilità, se non addirittura rinchiuso in prigione. È innegabile l’uso segregativo che la polizia fa del potere, un modo per rinsaldare più o meno brutalmente la supremazia di alcuni – ma non è questo già razzismo, xenofobia di Stato? – e per acuire le differenze rendendole perspicue.

Questo non vuol dire che la polizia sia illegale. Piuttosto è legalmente autorizzata a svolgere funzioni extralegali. Non si limita ad amministrare il diritto, ma ne stabilisce ogni volta i confini. Detiene non solo il monopolio della violenza interpretativa, perché ridefinisce le norme della propria azione e, appellandosi alla sicurezza, accresce la propria presa sulla vita dei singoli.

Proprio per ciò le violenze della polizia non sono anomalie, ma rivelano il fondo oscuro di questa istituzione. Sono come istantanee che colgono la polizia mentre conquista spazio, acquisisce potere sui corpi, esamina e sperimenta una nuova legalità, ridefinisce i limiti del possibile. La scena di Vicenza, come purtroppo altre precedenti, suscita sconcerto, perché è l’indizio di un potere autoritario, la prova di uno Stato di polizia nello Stato di diritto.

Sotto questo aspetto le violenze, mentre manifestano l’essenza della polizia, fanno affiorare l’architettura politica, che cattura e bandisce, include ed esclude, nella quale, insomma, la discriminazione è già sempre latente. La pandemia ha reso ancor più esclusiva l’immunizzazione per chi è dentro, implacabile l’esposizione per chi è fuori. Così si può dire che la polizia svela l’immunopolitica nello spazio pubblico.

Donatella Di Cesare

da il manifesto