Non certo impropriamente era stato definito “un autentico genocidio politico” in Bakur (territori curdi sotto amministrazione-occupazione turca).
In riferimento alla destituzione – dopo le elezioni del 2019 – dei legittimi rappresentanti politici eletti nelle liste di HDP e l’arresto di centinaia di militanti dell’opposizione ed esponenti di associazioni curde.
Ma oggi la faccenda si va caricando di ulteriori e peggiori implicazioni.
LA CITTA’ DI KARS (IN BAKUR) DESTINATA A DIVENTARE UN CENTRO DI SMISTAMENTO PER JIHADISTI E MERCENARI DI ANKARA?
Tutt’altro che casuale – per esempio – la repentina imposizione da parte del ministero dell’Interno del governo AKP-MHP di Turker Oksuz come fiduciario (governatore, prefetto, podestà…?) alla città curda di Kars. Dopo che i sindaci regolarmente eletti (Ayhan Bilgen e Sevin Alaca, esponenti di HDP) erano stati preventivamente arrestati insieme a una quindicina di altri esponenti politici nell’ambito delle “indagini di Kobane”, (ossia per le proteste del 2014). Cinque membri del Consiglio comunale e due membri dell’Assemblea generale provinciale venivano sospesi dal servizio o costretti alle dimissioni.
L’arresto del co-sindaco Ayhan Bilgen e di altri esponenti di HDP (Partito Democratico dei Popoli) risaliva al 25 settembre. Le sue dimissioni da sindaco (praticamente un’autosospensione proprio per evitare l’imposizione di un governatore turco) a cinque giorni dopo. Ma – in contrasto con la stessa legislazione turca – questo suo gesto non era stato tenuto in considerazione e la nomina – illegittima – del governatore seguiva il suo corso.
Giustamente si era parlato di una “confisca dei diritti democratici”. Allo scopo, molto presumibilmente, di controllare totalmente questa cittadina ai confini con l’Armenia. Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si va sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri contro gli armeni.
Un destino, quello di Kars, analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanli nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste.
Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe quindi da stupirsi se “da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars”.
D’altra parte era quasi scontato che Erdogan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto.
Mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.
Niente di strano e niente di nuovo.
Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione
Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale Hurriyet ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993.
Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdogan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.
Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista) si trattava nientemeno che di una “abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne” esprimendo “inquietudine per l’avvenire del Paese” (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).
Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.
Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica Repubblica d’Armenia.
E il 20 febbraio – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta
dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno-azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Agdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armeni. Negli disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. E’ il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.
Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.
Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno- Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 la statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.
In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno Stato indipendente sarà approvata con il 99% dei voti.
E a questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).
Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.
A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.
Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – ma discretamente e solo a livello logistico – la Grecia.
Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex URSS (russi e ucraini).
Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.
Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti.
Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14% del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (cessate il fuoco del 12 maggio) prendono il via sotto la supervisione di Mosca.
Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato OSCE) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.
Tuttavia – vien da dire – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.
E I MEDIA OCCIDENTALI?
Qualche considerazione in merito alle operazioni propagandistiche in atto (soprattutto da parte di Baku e Ankara) e rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato, pare. Forse perché – tutto sommato – conviene schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale, Armenia.
Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974 (e direi illegalmente, così a naso). Per non parlare della continua evocazione di una – al momento inesistente – partecipazione di militanti del PKK ai combattimenti (a fianco degli armeni ovviamente).
“Magari” verrebbe da dire. Ma temo che con tutti i problemi che al momento li affliggono (aggrediti come sono da ogni parte, soprattutto dalla Turchia e dai suoi ascari) molto difficilmente i partigiani curdi avranno la possibilità di prendere parte alla resistenza dei loro fratelli armeni. Anche se – presumo – ne sarebbero lieti e fieri.
In fondo di fronte avrebbero l’ennesima versione dei massacratori ottomani, dei responsabili del genocidio degli armeni (poi reiterato) e dei tentativi di genocidio nei confronti di greci, curdi (yazidi in particolare), alaviti, assiro-caldei.
Nel frattempo (gli affari sono affari) pare che la Francia non abbia smesso di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non è l’unico paese a farlo naturalmente. Ma la cosa appare stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Anche recentemente nella recente querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.
Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku stanno colpendo direttamente la popolazione di Stepanakert.
Una cosa comunque va detta. In qualche modo l’attuale conflitto tra Armenia e Azerbaijan appare propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne è addirittura la “vetrina”). Mi auguro di sbagliarmi, ma intravedo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.
Gianni Sartori