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La burocrazia italiana, Nuran Yilmaz e il fascismo turco

In Turchia Nuran Yılmaz è stata membro di spicco dell’HDP, il partito d’opposizione guidato da Selahattin Demirtaş. Ha fondato una cooperativa di donne, gestito una rete di protezione per donne vittime di violenza domestica ed è fuggita dai cecchini durante l’assedio di Cizre del 2016. Su di lei c’è una condanna a cinque anni di carcere. Oggi vive in Italia, in attesa del riconoscimento della protezione internazionale. Che tarda ad arrivare.

Ci incontriamo a casa sua, in un palazzo di Pioltello, a est di Milano. Condivide l’appartamento con due connazionali, che ci accolgono con della frutta fresca e tanta voglia di condividere le proprie storie, altrettanto incredibili e che meriterebbero ampio spazio. Ma ci concentreremo sulle vicende di Nuran perché se le verrà negato il riconoscimento della protezione internazionale sarà espulsa. Ad attenderla, in Turchia, c’è una condanna a cinque anni di carcere per terrorismo, ultimo tassello dopo torture, violenze e l’aver assistito alla morte di molti suoi compagni politici. La aspettano letteralmente in aeroporto e, se il messaggio non fosse chiaro, ogni tanto la polizia si affaccia a casa dei suoi parenti per far vedere che loro sono lì e che il destino della loro Nuran è segnato.

La sua è una storia che unisce il dramma delle repressioni violente delle forze dell’ordine turche alla mortificazione della burocrazia italiana per ottenere protezione internazionale, specie dopo i decreti sicurezza salviniani. Raccontare la storia di Nuran, emersa grazie al lavoro degli attivisti dell’associazione milanese Dare.ngo, è prima di tutto una corsa contro il tempo per evitare il peggio.

Nuran Yılmaz insieme a Selahattin Demirtas (HDP, Partito democratico dei Popoli)

Ma andiamo con ordine. Nuran Yılmaz, curda, artista del tessile a Smirne, era un membro di spicco dell’HDP prima che le purghe di Erdogan di fatto lo smantellassero. Dentro al Partito democratico dei Popoli (in turco Halkların Demokratik Partisi), in quel laboratorio politico in cui si tenta(va) di unire le energie filo-curde alle forze ambientaliste e femministe della politica turca, Nuran era la responsabile dei programmi per le donne. Nel 2012, da Diyarbakir si sviluppa un progetto di emancipazione femminile alla cui base c’è l’idea che le donne possono partecipare alla vita economica della comunità in ogni passaggio della filiera produttiva ed essere quindi indipendenti. Il sistema è semplice: una cooperativa diffusa che raggiunge Mardin, Sanliurfa, Mersin, Adana e altre regioni del Kurdistan turco. Le donne lavorano la terra, ne raccolgono i frutti, li lavorano e vendono i prodotti nei mercati e all’ingrosso. A Sirnak fanno la marmellata di fichi, a Mardin l’olio, a Urfa raccolgono il cotone e ne fanno vestiti, oltre a raccogliere e vendere pomodori. Fino a Dyarbakir, dove dalla vendemmia dell’uva di qualità boğazkere nasce un vino corposo e aromatizzato. Il progetto, nella sua semplicità, funziona alla grande. Nuran ne è la presidente e per raccontarne i risultati partecipa a conferenze nelle università di mezza Turchia, alle quali partecipano sociologi del lavoro da tutto il mondo interessati a capire la struttura della cooperativa e le possibilità di replicarla in altri contesti.

Ma in un paese in cui nel solo 2019 sono avvenuti ben 474 femminicidi e nel quale, secondo i dati di un rapporto Onu, il 42% delle donne di età compresa tra i 15 e i 60 ha subito violenza fisica o psicologica da parte del proprio partner, il lavoro di emancipazione nasce prima di tutto dalla salvaguardia. Così Nuran, d’accordo con il leader del partito Selahattin Demirtaş e gli altri componenti del direttivo, partecipa alla creazione di una struttura di protezione per le donne in fuga da violenza domestica. In Turchia i centri antiviolenza hanno una gestione assai ambigua. Le donne che vi ricorrono vengono registrate e i nominativi comunicati alla prefettura, che molto spesso comunicano ai mariti la presenza nei centri delle proprie mogli. Queste strutture vengono viste quindi non come luoghi di rifugio ma come anticamere per eventuali riconciliazioni che quasi mai avvengono. Così Nuran costituisce una rete di attiviste che, grazie al supporto dei sindaci dell’Hdp, smista le donne dai centri anti-violenza a luoghi segreti dove proteggerle e seguirle dal punto di vista medico, psicologico e legale.

Ma fare politica in Turchia, soprattutto a est, può essere davvero pericoloso. Nuran è a Cizre durante l’assedio a cavallo tra il 2015 e il 2016, quando più di 150 civili vengono uccisi, molti bruciati vivi, dalle forze di sicurezza turca. Riesce miracolosamente a evitare i colpi di un cecchino, ma capisce che il sogno sta per infrangersi. Tra luglio 2015 e maggio 2016 – i numeri sono forniti dal governo turco – nel Paese sono stati uccisi 2.583 “ribelli” curdi. È la fine di ogni speranza di costruire un progetto politico plurale in Turchia, almeno nell’immediato. Ed è il preludio della tempesta.

Nella vita politica turca, c’è un prima e un dopo il 15 luglio 2016. È il giorno del tentato golpe, la cui risposta repressiva continua ancora oggi. Da quattro anni, il partito di governo AKP controlla esercito, potere giudiziario, media e istruzione. Oltre 160 mila tra giudici, insegnati, poliziotti e personale civile sono stati sospesi o licenziati – quasi il 10% del personale statale – e 77 mila persone sono state arrestate. Come se non bastasse, dall’inizio del settembre 2016 lo stato di emergenza post-golpe ha consentito a Erdogan una svolta politica, contro i gruppi curdi e la cultura curda, nel cui contesto vanno inseriti il licenziamento di decine di sindaci eletti e l’arresto dei copresidenti dell’HDP per presunti legami con il PPK. Il colpo di grazia c’è stato nell’agosto 2018, con l’approvazione parlamentare di una nuova legge antiterrorismo che sostituisce lo stato di emergenza. La lotta senza quartiere all’attivismo politico ha portato i compagni di Nuran a essere arrestati uno dopo l’altro, e i loro progetti sociali allo smantellamento. La stessa Nuran racconta di essere stata arrestata e torturata durante un 8 marzo a Istanbul, nel quale si era limitata a manifestare contro le violenze sulle donne, come stava accadendo contemporaneamente in centinaia di altre città nel mondo.

È stanca di questa vita, Nuran. Capisce che ha bisogno di prendersi una pausa. Così parte per l’Europa per distrarsi, trovare qualche amico e ricaricare le pile. Atterra in Italia e da lì va in Svizzera, Germania, Austria. Un giorno riceve una chiamata dalla Turchia. È suo fratello, le dice di non tornare. Hanno emesso una condanna nei suoi confronti: cinque anni per terrorismo. Nuran ha poco tempo per capire cosa fare della sua vita. Vorrebbe stare in Olanda con il suo compagno, anche lui ricercato in Turchia, ma non può: viene fermata in Svizzera, il suo visto è scaduto. La polizia elvetica la fa salire sul primo treno per l’Italia. È così che Nuran Yılmaz, responsabile dei progetti per le donne dell’HDP, si ritrova sola, senza soldi e senza nessuna conoscenza, a dormire nella Stazione Centrale a Milano. Intorno a lei si forma un cordone di protezione di ragazzi africani con cui condivide il giaciglio. Vegliano su di lei, impediscono che le venga fatto del male. Prova a far partire la trafila per chiedere la protezione internazionale ed è l’inizio di un altro incubo, che dura da oltre tre anni e del quale non si vede ancora la via d’uscita.

Dapprima finisce in un CARA a Varese, dove deve condividere un locale di 50 metri quadri con altre tre donne. Sulla gestione dei CARA, Nuran è molto dura. In Turchia ha gestito l’assistenza di centinaia di donne bisognose, non riesce a capire come mai qui in Italia sia così difficile gestire le necessità primarie delle richiedenti asilo. Gli stessi spazi sono condivisi da donne provenienti da background molto diversi. Per sei mesi, alcune delle ospiti del centro fanno pressione perché possano essere ridistribuite in base alla provenienza e alla lingua, ma non serve a niente.

Nuran Yılmaz durante le celebrazioni del Nowruz

La vicenda di Nuran, nonostante ci siano in rete molte notizie sul suo conto, non è bastato alla commissione, che ha chiesto di approfondire la sua storia. La richiesta è stata fatta nel marzo 2018; dopo tre mesi, è arrivata una nuova convocazione. A cui segue un’attesa infinita, giustificabile solo in piccolissima parte dall’emergenza legata alla pandemia. Del resto i casi come il suo sono davvero tanti. Lo denunciava Filippo Miraglia a Repubblica un anno fa, nel raccontare la storia di un richiedente ivoriano. “La macchina continua a non funzionare, stanno ancora indietro di due anni. Non solo. Dopo il colloquio il nostro richiedente asilo dovrà aspettare un minimo di tre mesi per la risposta. Sono i tempi medi. E ancora: in caso di esito positivo, altri mesi passano per ottenere la stampa del permesso di soggiorno elettronico e nel frattempo il rifugiato non può fare nulla”, spiegava Miraglia. In un tweet del 20 giugno 2018, l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini commentava così un incontro avuto con i presidenti delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale durante il quale aveva nominato 250 nuovi funzionari: “Tempi più brevi, maggiore efficienza e diritto d’asilo solo a chi veramente fugge da persecuzioni e guerre”. Il sistema non ha funzionato, è evidente.

C’è da capire cosa cambierà con l’abrogazione dei decreti sicurezza. Il nuovo decreto prevede “un ampliamento delle competenze attribuite alle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale”. Intanto Nuran rischia carcere, violenze fisiche e psicologiche. Una prospettiva terribile aggravata da un presente passato in balìa di una burocrazia  logorante. La speranza è quella di potersi riunire con il suo compagno e di, prima o poi, poter tornare a combattere per la dignità delle donne che vivono in Turchia. Commissione permettendo.

Joshua Evangelista

da frontierenews.it e la Bottega del Barbieri