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Processare “a distanza” e condannare via PEC?

La pandemia non accenna a rientrare, il carcere scoppia, la giustizia penale è al palo. E c’è chi, dopo la “didattica a distanza”, predica il “processo a distanza” come soluzione anche a regime, una volta terminata l’emergenza. È l’ultimo sfregio della pandemia a una comunità democratica e a una convivenza solidale.

Da qualche giorno – anche per effetto degli articoli paralleli di Saviano, Manconi e Veronesi pubblicati il 27 novembre su la Repubblica, La Stampa e il Corriere della Sera – si è tornati a parlare di carcere. È un fatto positivo e, anche, l’occasione per una riflessione più ampia sul tema della giustizia penale (che del carcere è l’origine e il contesto).

Quasi senza accorgercene stiamo cambiando tutto: abitudini, comportamenti, relazioni. Il «niente sarà più come prima» che ha scandito la prima ondata della pandemia è, in maniera sempre più evidente, uno slogan che sottende un cambiamento eterodiretto. Esattamente l’opposto dell’auspicata responsabile virata verso un modello di vita e di sviluppo diverso da quello attuale, più rispettoso della natura, più sobrio, più interessato ai rapporti umani (anziché ai consumi e alle tecnologie). Dalla sfera personale ciò si estende alla scena pubblica, istituzionale, organizzativa. Stanno cambiando – sono cambiati, spesso acuendo tendenze già in atto – il modello di governo, la scuola, il sistema sanitario e molto altro ancora. L’esecutivo si è trasformato in dominus incontrollato della sfera pubblica; la didattica è diventata veicolo di trasmissione impersonale di (poche) conoscenze, perdendo la sua fondamentale valenza relazionale ed educativa; la medicina territoriale, a dispetto della sua conclamata necessità, è scomparsa lasciando ai medici di base il ruolo prevalente di dispensatori di consigli telefonici (nella migliore delle ipotesi) e di ricette inviate via mail a pazienti sempre più smarriti. Ci sono, ovviamente, le eccezioni, ma il trend è questo. Cosa in parte inevitabile, dati l’andamento della pandemia e la necessità di non soccombere. Ma l’effetto è una trasformazione che, alla fine di questo drammatico periodo, ci vedrà più soli, diffidenti, ostili e che renderà la società più chiusa, intollerante e autoritaria. A meno che non ci sia la capacità di rapportarsi criticamente con quanto sta accadendo e di mettere in campo, da subito e in tutti i settori, gli anticorpi necessari. È questo il ruolo, decisivo, del pensiero critico.

Parlo del settore che più conosco, avendolo praticato per quarant’anni: la giustizia penale, appunto, che è in sofferenza crescente. Lo era già prima della pandemia, come ho cercato di argomentare in uno scritto del marzo scorso. Ma oggi lo è in maniera intollerabile. Cresce il numero dei processi destinati a restare al palo e a morire in qualche armadio; si moltiplicano le scorciatoie e le torsioni antigarantiste in quelli che, nonostante tutto, vengono celebrati; si tocca con mano l’inadeguatezza dello strumento chiamato a garantirne (o millantarne) l’effettività: il carcere, attaccato dal sovraffollamento e dal virus. Il tutto nell’inerzia (e finanche nell’afasia) del ministro che dovrebbe occuparsene. Mentre bisognerebbe intervenire subito, senza perdere neppure un giorno.

Mi limito a due flash.

Primo. Il carcere continua a essere sovraffollato: 54.000 detenuti a fronte di una capienza teorica di 50.553 e di una capienza reale di circa 48.000. In questa situazione, il primo bollettino del DAP relativo alla seconda ondata pandemica, risalente a domenica 22 novembre, conteggia 1.851 positivi: 809 tra i 53.723 detenuti (766 asintomatici, 27 sintomatici curati in carcere e 16 ricoverati) e 1.042, di cui 10 ricoverati in ospedale, tra i 41.203 operatori. E il dato non descrive appieno la realtà, essendo indeterminato – come sottolinea il segretario di uno dei sindacati della polizia penitenziaria  – il numero dei detenuti sottoposti a tampone. Di più, negli ultimi due mesi, sono cinque morti tra i detenuti (negli istituti di Secondigliano, Poggioreale, Alessandria, Saluzzo e Livorno) e uno tra il personale penitenziario (il medico di Secondigliano).

I muri del carcere non sono una difesa dal virus, né in entrata né in uscita, e il rischio per l’intera comunità penitenziaria è amplificato dagli spazi ristretti, dall’inevitabile promiscuità e dall’impossibilità di misure preventive adeguate. A fronte di ciò gli interventi legislativi adottati all’inizio e nel corso della pandemia (in cui si intrecciano e si susseguono, tra l’altro, aumento delle possibilità di detenzione domiciliare, sospensione dei colloqui, blocco dei permessi e interruzione del lavoro all’esterno e del regime di semilibertà), sono contraddittori, insufficienti e, comunque, limitati a fronteggiare il contingente. Manca ogni visione di medio periodo, capace di cogliere l’occasione per porre le basi di un diverso modello punitivo e penitenziario. Si è totalmente abbandonato il percorso virtuoso intrapreso durante la scorsa legislatura con gli elaborati della Commissione Giostra e il carcere diventa sempre più un buco nero di abbandono e di isolamento, con marginalizzazione delle esperienze di apertura e di reinserimento.

Secondo. Non meno preoccupante è la situazione del processo che è in piena bancarotta. Alla pandemia si è reagito, all’inizio, con la risposta più semplice e più drastica: la chiusura, per legge, dei tribunali, con la sola eccezione delle urgenze (come le convalide dei fermi e degli arresti), così, tra l’altro, veicolando il messaggio che l’apertura dei palazzi di giustizia è meno essenziale di quella delle tabaccherie, con quanto segue in termini di incentivazione della fiducia dei cittadini nella funzione giudiziaria. Poi si è prevista, con maggiore o minore ampiezza, la celebrazione di (alcuni) processi in collegamento telematico o a porte chiuse, l’adozione di decisioni collegiali in camera di consiglio da remoto e con comunicazione della decisione via PEC, l’estensione delle ipotesi di sospensione dei termini della prescrizione e altro ancora sempre nella stessa ottica emergenziale. Così, a fianco della didattica a distanza si è introdotto il processo a distanza e molti, a cominciare dall’Associazione magistrati, ne chiedono un’ulteriore estensione anche dopo la pandemia. Ma questa trasformazione del processo, oltre a non bastare – per carenza di risorse e per ragioni strutturali – a definire le pendenze e a fronteggiare i nuovi arrivi, ha effetti devastanti: la riduzione delle possibilità di accertamento della verità, l’abbattimento delle garanzie e dei diritti di difesa e, ancor più, lo snaturamento del processo e la perdita del suo ruolo di fattore di coesione sociale, messa in pericolo dalla violazione della norma. «Il luogo fisico dove si tiene il processo – come è stato detto – non appartiene solo a chi lo pratica, ma a tutti i cittadini che possono riconoscersi in esso, e sentirsi per questo parte di una comunità democratica. La celebrazione del processo nelle forme rituali, visibili e percepibili da una comunità non virtuale ma reale, è essenziale […] anche perché quel rito laico è quello che legittima il terribile mistero per cui un uomo può giudicare un altro uomo. Il sentirsi parte di una comunità democratica è garantito anche dalla possibilità di entrare fisicamente in un’aula di giustizia».

Se questa è la situazione del carcere e del processo (o, meglio, della giustizia penale), la pandemia potrebbe – e dovrebbe – essere l’occasione per interventi radicali tesi a ridisegnarli.

Per farlo occorrerebbero consapevolezza della drammaticità della situazione, volontà politica e possibilità di intervenire a bocce ferme, cioè senza lasciarsi travolgere da carichi ingestibili. Quest’ultimo elemento, in particolare, è una sorta di precondizione ineliminabile. Lo ha scritto con grande lucidità, nel maggio scorso, Paolo Borgna, allora procuratore aggiunto a Torino: «Oggi gli operatori della giustizia (avvocati e magistrati) che ogni giorno vivono il processo nelle aule dei tribunali hanno il dovere di anticipare alla politica – nel rispetto della sua autonomia – che l’indomani dell’uscita dal tunnel, qualunque discorso serio e umano sulla giustizia penale dovrà cominciare pronunciando due parole: amnistia e indulto. […] Dopo la spallata della pandemia la situazione sarà più grave. Per far fronte ai rischi di contagio, i decreti governativi di marzo hanno previsto che, nel periodo di chiusura i tribunali celebrassero solo processi urgenti con imputati detenuti. […]. Il risultato, inevitabile, ha una sola parola: ingolfamento del sistema. […] C’è bisogno di un nuovo inizio. Quando il motore si imballa bisogna resettarlo. A costo di provocare oggi qualche piccola ingiustizia che servirà però a evitare, domani, più gravi e generali ingiustizie. Per questo i tribunali devono essere alleggeriti da un carico che rischierebbe di metterli in ginocchio. E ciò vale anche per quei detenuti già condannati a pena definitiva che, in questi mesi, stanno vivendo, tra le mura di un carcere, il timore di un contagio incontrollabile. Anche a loro lo Stato deve saper dire una parola di comprensione e umanità. Così è stato in tutti i passaggi cruciali della storia del nostro Paese, sempre accompagnati da provvedimenti di clemenza».

Questo è il primo – non il solo, ma il primo – terreno su cui deve misurarsi, oggi, chi ha a cuore, davvero e non solo a parole, la situazione del carcere e della giustizia penale. È un obiettivo difficile, apparentemente impossibile nell’attuale clima di populismo penale imperante e dopo che l’improvvida riscrittura dell’art. 79 della Carta fondamentale intervenuta nel 1992 ha previsto, per la concessione dell’amnistia e dell’indulto, la necessità del voto favorevole dei due terzi del Parlamento, così rendendola più ardua della stessa modifica della Costituzione. Ma è una strada senza alternative  e qualche spiraglio può aprirsi. A cominciare dalla calendarizzazione e discussione della proposta di revisione dell’art. 79 della Costituzione (AC 2456) che, vincolando l’adozione di provvedimenti collettivi di clemenza a «situazioni straordinarie» o a «ragioni eccezionali» (le prime relative a eventi imprevedibili, le seconde a scelte di politica criminale), ne restituisce la responsabilità alla maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera.

Livio Pepino

da Volerelaluna