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Pandemia: Quelle provvisorie identità di falchi e colombe

In mancanza di idee e di profili politici più definiti la scelta della specie di pennuti alla quale iscriversi ha tutta l’aria di un provvisorio blasone identitario, un’esibizione di “carattere” e di “fermezza” che non teme in nessun modo la perdita di consenso

Quando la politica cessa di essere mobilitazione di forze sociali, pensiero critico, punto di vista di classe, riflessione sulla natura dei rapporti sociali, ricerca di eguaglianza e libertà, per non parlare di un’idea più o meno originale di trasformazione della società, quando gli argomenti sono esausti e perfino la voce del demagogo si fa roca, allora non restano che i falchi e le colombe. Che si tratti di una guerra, dell’amministrazione della giustizia, dell’evasione fiscale, del debito, dell’ecologia o di qualsiasi altro argomento, governi e forze politiche si dividono, in mancanza di meglio, tra “rigoristi” e “aperturisti”, duri e morbidi, intransigenti e concilianti. Il caso della pandemia non fa eccezione.

Lungo questa inconsistente linea di divisione si sono affrontati gli esponenti del nostro governo nel decidere le misure di contenimento dei contagi durante il periodo delle feste natalizie. Laddove, in mancanza di idee e di profili politici più definiti la scelta della specie di pennuti alla quale iscriversi ha tutta l’aria di un provvisorio blasone identitario, un’esibizione di “carattere” e di “fermezza” che non teme in nessun modo la perdita di consenso, poiché prima o poi pensa con una buona dose di ottimismo di poter rivendicare il merito di aver salvato il paese o, in alternativa, capovolgere del tutto la sua posizione.

Gli esperti, comunque e sempre divisi, (anche loro tra allarmisti e rassicuranti, in versione scientifico-divulgativa) questa volta non sembrano spingersi oltre la descrizione a tinte fosche del quadro generale e la riproposizione di altrettanto generali linee di intervento. Non sembrano disposti, insomma, a “coprire” nel dettaglio le scelte politiche né a schierarsi nettamente nell’uno o nell’altro campo. Cosicché l’arbitrio e l’improvvisazione sono costretti a mostrarsi senza veli.

Lo si era già visto al momento di stabilire la misura più terroristica che efficace del coprifuoco (alla quale ci siamo incredibilmente assuefatti) quando si davano letteralmente i numeri: le 18, no le 20, perché non le 22 o le 23. Secondo gli umori, o l’immagine più o meno “comprensiva” che si intendeva dare di sé. Poi la zuffa tra stato e regioni con grande svolazzamento di falchi e di colombe, il rimpallo di responsabilità, la politica tricolore, invocata, subita, interpretata, contestata a seconda dei casi e delle convenienze. Di “modello italiano” già nessuno osava più parlare, vista l’ecatombe della prima ondata e quella tutt’ora in corso della seconda. E men che meno dei diversi sbandierati modelli regionali.

Adesso per la maggiore va il “modello tedesco”, un sistema di limitazioni articolato e assai più blando delle nostre zone rosse (soprattutto riguardo alla mobilità dei cittadini), peraltro non coronato da straordinari successi, se non per il fatto, ben poco imitato qui da noi, che a Berlino si parla per tempo e in modo chiaro. Ma che comunque viene indicato come autorevole fonte di ispirazione dai nostri rigoristi. Risparmiando loro la fatica di argomentare l’efficacia delle singole restrizioni che impongono al paese.

I giudici, almeno, quando comminano una pena sono tenuti a scrivere le motivazioni della sentenza. I decreti governativi, che in questo frangente emettono vere e proprie sentenze di limitazione delle libertà, non sottostanno a simili obblighi. Tutt’al più il governo e i suoi ministri si limitano alla penosa ripetizione dell’ovvio: ci sono troppi morti, c’è troppa gente in giro nelle grandi città.

Perché stupirsene visto che sono stati addirittura erogati soldi per lo shopping, con la raccomandazione di spenderli nei negozi e non on line. E qualcuno invitava perfino ad andare in trattoria almeno due volte a settimana per sostenere il settore. I negozi resteranno aperti fino all’ultimo per l’acquisto di regali che nessuno potrà scambiarsi, visto il ferreo blocco della mobilità. Interi settori non resteranno certo in piedi con qualche giorno di convulsa apertura in più a favore di un pubblico dai portafogli sempre più leggeri che cerca nelle vie dello shopping e nei centri commerciali l’ultimo brandello di socialità autorizzata.

Comunque la si metta i danni economici della pandemia non potranno che essere risarciti con una imponente erogazione di denaro pubblico a fondo perduto. Una delle tante cose che non possiamo permetterci, ma che dovremo fare. Prendendo i soldi là dove ci sono. Intanto il messaggio che passa è che l’unica libertà garantita in qualsiasi condizione è quella di produrre merci e di acquistarle. Tutto il resto, compresa la produzione di quello che merce non è, può aspettare.

Marco Bascetta

da il manifesto