Le misure deflattive lontane dai pensieri della società civile
- dicembre 31, 2020
- in carcere, riflessioni
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Le carceri sono sempre state un luogo di sofferenza. Non soltanto per la privazione della libertà a cui sono soggetti i detenuti, ma anche per la separazione fisica e politica dal resto della società. Le guardie penitenziarie, i detenuti, ma anche i medici, gli infermieri, gli insegnanti e tutto il cosiddetto personale trattamentale che opera all’interno delle prigioni, finiscono per costruire un microcosmo all’interno del quale le dinamiche di sopraffazione, sofferenza, resistenza, si sovrappongono alle identità e alle personalità pregresse.
Nel contesto attuale, che vede le prigioni qualificarsi come una discarica sociale, dove relegare le eccedenze della società dei consumi, le caratteristiche afflittive e marginalizzanti finiscono per accentuarsi. Vengono così cancellati i principi rieducativi e della presunzione di innocenza sottolineati dalla Carta costituzionale, mentre spiccano gli aspetti della vendetta sociale e dell’afflizione di pene aggiuntive alla privazione della libertà. E’ in seguito a questa impostazione che il sovraffollamento carcerario non desta scandalo, o se la sovra- rappresentazione dei suicidi, degli episodi di autolesionismo, delle patologie gravi tra la popolazione detenuta, non destano allarme presso l’opinione pubblica. È sempre questa impostazione che permette a opinion makers, presunti democratici, di affermare che essere dalla parte dei detenuti significa farli stare in galera, senza essere banditi dal consesso civile.
La crisi pandemica scoppiata nello scorso febbraio, non ha fatto altro che esacerbare, in maniera quasi caricaturale, le dinamiche sopra descritte. Da un lato, la pandemia non fa che moltiplicare i problemi delle carceri, come si sarebbe potuto prevedere. La concentrazione di popolazione, l’esistenza di patologie, rendono i luoghi di detenzione un contesto particolarmente incline alla diffusione del Covid 19. Da Tolmezzo a Sulmona, da Modena a Salerno, ci troviamo a recitare un triste rosario di contagi e di morti. Una situazione che non può non scatenare l’insofferenza dei detenuti, e a fare sì che magari si esprima in proteste spontanee o organizzate. Dall’altro lato, la situazione carceraria in tempi di Covid, non trova adeguata ricezione a livello sociale, mostrando quanta siano ancora molti gli sforzi da compiere affinché venga colmato il divario tra il carcere e la società. Ci riferiamo non soltanto al rifiuto da parte della sfera politica di trarre le conseguenze che la pandemia comporta per il carcere e di varare dei provvedimenti deflattivi, quali amnistia e indulto, per porvi rimedio. Quello che ci preoccupa maggiormente, è l’impermeabilità di quella parte della società civile tradizionalmente impegnata dalla parte dei detenuti verso questa possibilità. Travaglio, Giletti e compagnia forcaiola sicuramente recitano la loro parte, ma non ci si poteva aspettare da loro che pensassero e agissero in maniera diversa. Sicuramente, sostenere che le mafie strumentalizzano le rivolte carcerarie, nella migliore delle ipotesi è un’affermazione che mostra la più totale ignoranza delle dinamiche penitenziarie. Ma, ripetiamo, questi signori hanno costruito la loro rendita di posizionesul punitivismo, e continueranno a farlo.
Il problema più grave è rappresentato da chi dovrebbe e potrebbe, sia a livello di società civile che istituzionale, farsi promotore di un’amnistia o di un indulto e non lo fa. E dietro le scuse accampate di presunta problematicità dell’implementazione di questi provvedimenti, si celano vere e proprie ragioni di politique d’abord. Per esempio, è notorio che la componente maggioritaria della coalizione governativa attuale, ovvero il Movimento 5 Stelle, a cui appartiene lo stesso ministro della Giustizia, hanno fatto delle legalità, intesa come l’uso ipertrofico della penalità per regolare i conflitti sociali, la loro bandiera. Di conseguenza, aspettarsi un’amnistia o un indulto targati Bonafede, con la necessità di coinvolgere i quattro quinti del Parlamento, appare poco realista. Questa, probabilmente, è la vera ragione della scarsa incisività delle forze tradizionalmente garantiste. Eppure i grillini hanno già portato a casa l’abolizione della prescrizione, un provvedimento che, oltre a violare i diritti degli imputati, costituisce un unicum a livello internazionale, rischia di intasare ulteriormente la macchina della giustizia, e incide un ulteriore vulnus nel corpo delle garanzie costituzionali. Continuare a sacrificare le garanzie processuali e i diritti dei detenuti sull’altare della tenuta della coalizione di governo, oltre a non essere uno spettacolo edificante, perché mostra il prevalere degli interessi di bottega sui diritti dei cittadini, non argina certa l’ascesa di Salvini e Meloni, oggi più che mai sulla soglia del successo elettorale.
Da parte nostra, continuiamo a sostenere la necessità che venga varato al più presto un provvedimento deflattivo in favore dei detenuti. Dal punto di vista funzionale, amnistia o indulto faciliterebbero la gestione delle carceri, evitando che a lungo termine si trasformino in lazzaretti o in polveriere che poi giustifichino interventi repressivi tali da innescare e inasprire il circolo vizioso del populismo penale. Sul piano umanitario, pensiamo che sia meglio per i detenuti affetti da patologie gravi evitare di essere contagiati, e a quelli che hanno contratto il virus di essere curati fuori dal carcere e tra i loro familiari. Ma è anche sul piano politico che il varo di un provvedimento deflattivo sortirebbe degli effetti significativi. Per anni si è sostenuto come il carcere fosse divenuto il luogo dove vengono delocalizzate le contraddizioni della società contemporanea. Le leggi sulle droghe, quelle sull’immigrazione, sono state definite come criminogene, poiché è stato proprio in seguito al loro varo che le carceri italiane si sono riempite fino al sovraffollamento. Ecco, approvare un indulto o un’amnistia, specialmente in questo contesto, potrebbe rappresentare l’occasione per delegittimare il punitivismo degli ultimi trent’anni, e per progettare una politica penale improntata al garantismo e al rafforzamento della garanzie penali. Con buona pace di Giletti, Travaglio, Salvini e Meloni. Ma con grande vantaggio per detenuti e cittadini.
Vincenzo Scalia – Criminologo e membro dell’associazione Yairaiha
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