Come disse Warhol, anche se probabilmente non fu lui a dirlo, nel futuro, un futuro che può ben essere l’oggi, ognuno avrà quindici minuti di celebrità. Che sia stato o no proprio lui a dirlo conta poco, e conta ancor meno se si pensa che in fondo, a partire dalla pop-art, si è effettivamente messo in moto un “qualcosa” per cui il successo è sempre più spesso il traguardo ultimo della popolarità, mentre fino a quel momento, per una logica inversa, la popolarità era figlia del successo, non genitrice.
Non mi dilungo a riguardo non perché non sarebbe un bel discorso, e neanche perché non saprei svolgerlo. Al contrario, l’arte è il mio primo mondo, e su questo breve assunto potrei disquisire a lungo. Non mi interessa in questa sede.
Come non mi interessa intrattenermi a richiamare le tappe del divenire storico-sociale di questo “qualcosa” che nel secondo dopoguerra accade; potrei cominciare dalle tecniche tipografiche ottocentesche e dalla conseguente esplosione del fenomeno giornalistico. Penso alle riviste, ai racconti brevi e le poesie umoristiche, ai romanzi d’appendice, e così via.
È interessante invece, a partire dalla brevità di un simile incipit, venire all’attuale e aprire una prolissa riflessione che, muovendo dai due elementi sopracitati, popolarità e successo, pervenga alla disamina ponderata di alcuni fenomeni. Fenomeni anche autonomi e apparentemente indipendenti, ma che alla luce di una certa capacità o possibilità di “collegamento”, appaiono organicamente coerenti e interagenti.
È innegabile che viviamo in un contesto in cui, orde di uomini e donne invadono la scena pubblica sulla base di motivazioni inespresse o scientemente taciute, incapaci di apportare qualsivoglia contributo reale, e forse ancor peggio, niente affatto deputati a tal scopo! Li subiamo agitarsi sguaiatamente sui palcoscenici prestati da tv e giornali, o su quelli autoprodotti negli spazi cosiddetti “social”. Una parola usata non a caso, che ben mette in rapporto la popolarità, madre del successo in questa invertita e pervertita logica dell’importante, a un qualcosa che credo possa definirsi come “abilità di socializzazione”. Ne danno prova gli influencer, che non sono poi di fatto quelli che hanno capacità di influenzare, seppur questa è la definizione con cui il neologismo ha conquistato gli onori del vocabolario, ma sono quelle persone che sono state “capaci” di rendersi note a quante più altre possibili. La classifica degli influencer non distingue ambiti o temi, e guarda cieca soltanto al numero dei followers. Un numero che può lievitare per le ragioni più squallide e meno meritorie vengano in mente! Non occorrono esempi.
Occorre invece interrogarsi su cosa realmente comporti la quasi completa identità odierna di popolarità, socializzazione e successo. Interrogarsi sull’incombere del banale che è tutto intorno, e anche sulla deprecabilità delle strategie di ottenimento del riconoscimento e del consenso. Sulle modalità effettive del rendersi “benvoluti” o “seguiti”, e su quelle attraverso cui “suscitare interesse”.
La sola osservazione del meccanismo dei “like” sui social è più eloquente di qualsivoglia disamina erudita. Intanto, più “amici” hai più “piacerai”, ed è già non poco, dopodiché, più apprezzamenti positivi elargisci più ne ricevi. Ed ecco tutti o quasi a mercanteggiare “piaciosità” ipocrite eppur fruttuose.
Ancor peggio è quel fare per cui si cantano lodi finte e si strozzano in gola critiche vere, ad ogni livello dell’umana interazione; dal nuovo selfie al nuovo articolo al nuovo quadro, nel mellifluo scenario in cui non si da più confine tra serio e faceto, e tutto si offre sullo stesso mercato.
“Successo” è ormai una parola diversa, come “diverse” sono oggi le persone di successo!
Sono quelle che non pestano i piedi a nessuno e non fanno questioni, quelle a cui tutto indistintamente sta bene, quelle che, in accordo alla direzione verso cui “tira il vento”, offrono allo “sbatacchio” stracci logori e si lusingano d’esser creduti bandiera. A limite, di successo sono anche quelli a cui non sta bene tutto, ma solo tutto ciò che impone la fazione che hanno scelto, quelli che fanno gruppo o squadra con i sodali, contro nemici veri o presunti, guadagnando con l’odio degli avversari, la gloria presso chi li incita alla lotta.
In entrambi i casi il più delle volte si tratta di persone prive di argomenti propri, ma che non si tacciono un secondo sull’argomento di cui si fanno megafono. Specialisti veri o presunti dei tormentoni sulla cresta dell’onda! Un’onda che si leva secondo la geometria delle circostanze, spumeggiando alla rincorsa degli eventi che accadono svelti e appena emersi alla costa della coscienza, impermanenti, si ritraggono nella risacca che li riconduce al grembo del mare magnum, trascinandosi dietro anche tutte le dichiarazioni e i commenti, le opinioni, i battibecchi, i comizi, e il ricordo che ci siano mai stati.
E questo è il presente, un rumore forte. Quasi un’interferenza perpetua sulla capacità di com-prendere, un’attività cui manca il tempo, lo spazio, e il silenzio.
Chiassosamente, le cronache, sempre polemiche eppure acritiche, paradossalmente tacciono conclusioni e conseguenze, limitandosi a strepitare considerazioni effimere, affogate presto dal movimento stesso dell’onda che per suo ineludibile destino, sempre si infrange.
E come le onde in mare aperto producono un movimento di forme e non di sostanza, l’opinionismo di massa che si solleva arido e pirotecnico, genera “energia”, e non materia. Prepara nuovi guizzi, ma come sempre destinati a venir riassorbiti nel borbottio del continuato ribollire del mare. E siamo ormai un’umanità di menti “lesse”.
Ci parliamo sopra e addosso, una pioggia temporalesca di parole vacue si abbatte inesorabile e quotidiana su epidermidi intellettuali ormai coriacee, quasi irrimediabilmente refrattarie.
Chi è sulla cresta dell’onda è sempre a bocca aperta, tutti gli altri invece fanno un respiro profondo e poi trattenendolo, chiudono occhi, naso e bocca, preparandosi come possono al duro colpo dell’impatto di quel che accade e del suo racconto. E così boccheggiano, tra un’onda e l’altra e la pioggia. L’atmosfera è satura ma si è rarefatto l’ossigeno.
Siamo all’ipossia! Riduzione della memoria a breve termine e della capacità di imparare cose difficili, perdita di abilità conoscitiva, frequenza cardiaca aumentata e coloritura bluastra dell’interfaccia, perdita di coscienza, coma.
Bluastri, anche in primo piano scompariamo gradualmente sullo sfondo di onde e pioggia, indistinguibili dentro una cornice claustrofobica, evanescenti, mentre l’orizzonte incombe, e chiassosamente tace.
L’informazione è una macchina celibe, produce soltanto la proiezione di se stessa come in una casa degli specchi, e di bacheca in bacheca si riflette e rimbalza il ritratto coloratissimo e senza spessore dell’umano contemporaneo, che tutto commenta e quasi più nulla conosce.
La comunicazione, emblema dell’attualità, non riguarda più né il fare relazionale né la negoziazione di significati, e come disse Goffman, l’individuo è l’effetto drammatico creato dalla stessa scena rappresentata, una maschera della messa in scena sociale.
Umberto Eco pubblicava nel 1964 “Apocalittici e Integrati”, citando anche le ricerche compiute da Francesco Alberoni sul “divismo” nella società contemporanea, e sulle “élite irresponsabili”, composte di persone il cui potere è nullo e che quindi, non sono mai chiamate a rispondere del loro comportamento di fronte alla comunità ma i cui gesti, tuttavia, si propongono come modelli, e non per merito aggiungo io, ma per insistenza, amplificazione e tormento!
Citando Temesvart richiama la genesi dei ruoli culturali fittizi, e a poche pagine dalla fine ricorda che il pubblico di una società di massa ha la memoria labile e il desiderio facile. Segue una disamina sull’immagine orrifica, certamente non a caso!
Dovrei forse citare anche “Opera aperta”, ma a che servirebbe! È in circolazione dal 1962, e l’anno prossimo compirà cinquant’anni, evidentemente trascorsi non soltanto senza aver superato i problemi che con lungimiranza preannunciava, ma senza neanche averne avuto contezza.
Potrei forse proseguire chiedendo chi sono oggi gli “intellettuali”, ma ancora chiedendomi a che servirebbe; del resto, lo si può sempre chiede a Google, e restare sconvolti dalle risposte!
Viviamo in un mare di chiacchiere, anzi anneghiamo, e tutto intorno è ovattato frastuono.