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Richiedenti asilo e sistema di accoglienza

Le ultime modifiche normative hanno in parte ripristinato il modello di accoglienza dei richiedenti asilo sovvertito dai decreti Salvini, che avevano puntato su grandi centri gestiti dalle prefetture e sganciati dal territorio. Ma il coinvolgimento dei Comuni resta su base volontaria e ciò rischia di condizionare l’effettività del sistema.

Il decreto legge n. 21 ottobre 2020 n. 130, di recente convertito in legge, che modifica i cosiddetti decreti Salvini, incide su due aspetti fondamentali del sistema di accoglienza per richiedenti la protezione internazionale: l’accesso al sistema di seconda accoglienza (ora denominato SAI, Sistema di integrazione e accoglienza) e la tipologia di servizi riservata alle persone accolte. I cambiamenti ripristinano in parte il modello di accoglienza delineato dal decreto legislativo n. 142 del 2015, cioè un sistema unico per richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale seppur diviso per fasi: primo soccorso e accoglienza apprestati nei punti di crisi presenti nei principali luoghi di sbarchi e arrivi, prima accoglienza volta ad assistere il richiedente nell’avvio della procedura di asilo, seconda accoglienza operata in centri di piccole dimensioni, non lontani dal centro cittadino o comunque ad esso ben collegati, con una proporzione tra operatori e accolti tale da assicurare una effettiva interazione e utilità del percorso di accoglienza.

Pur con estrema vaghezza, propria come vedremo anche delle attuali modifiche, il decreto legislativo n. 142 aveva positivamente previsto che il richiedente asilo facesse ingresso nel sistema di seconda accoglienza il prima possibile. Ciò, tuttavia, era vero solo sulla carta. I centri straordinari (cosiddetti CAS), la cui attivazione era – ed è – disposta dalla Prefettura in caso di mancanza di posti nel sistema ordinario, rappresentavano oltre il 70% delle strutture dove i richiedenti asilo erano e sono accolti. Solo una minima parte di richiedenti asilo riusciva ad accedere al sistema di seconda accoglienza i cui progetti erano – e sono – ad adesione volontaria da parte dei comuni e i cui posti, dal 2011 in avanti, sono sempre stati gravemente insufficienti a coprire il fabbisogno. Il decreto sicurezza n. 113/2018 e il parallelo schema di capitolato d’appalto avevano, poi, profondamente modificato il quadro, di fatto adeguando il dettato normativo alla situazione esistente, sufficientemente caotica e inadeguata per sostenere la propaganda di costi inaccettabili del sistema che si riversano sul tessuto ospitante, penalizzandolo: il risultato era stata la creazione di un sistema ad hoc per richiedenti asilo, parallelo e separato da quello dei titolari di protezione internazionale (denominato Siproimi), e l’impedimento all’accesso alla seconda accoglienza per i richiedenti asilo e per i titolari di protezione umanitaria e speciale, i quali avevano dovuto repentinamente lasciare i centri dove erano ospitati senza alcun riguardo alla conclusione dei percorsi di autonomia individuale. A questo, si era affiancato un capitolato d’appalto per i servizi di prima accoglienza, indicato alle prefetture dall’allora ministro dell’interno come vincolante, che aveva drasticamente abbassato i costi, azzerato i servizi e previsto un numero di operatori irrisorio  rispetto al numero di accolti (un operatore per 50 accolti), di fatto favorendo la creazione di grandi centri gestiti da multinazionali o organizzazioni a scopo di lucro ed estromettendo dal panorama dell’accoglienza moltissime delle piccole Onlus e cooperative che avevano operato nel settore con professionalità ed esperienza, dunque annullando le ricadute positive sul territorio in termini di occupazione e di reddito per il tessuto ospitante. La seconda accoglienza era divenuta così, anche sulla carta, una fase di accoglienza parallela ed eventuale nel percorso di un richiedente asilo in Italia. Quali erano la logica o lo scopo ufficiale? Destinare le risorse di una tutela effettiva solo a chi aveva ottenuto il diritto a una protezione. Ma con quale effetto? Esattamente l’opposto: un enorme investimento di fondi per un’accoglienza che era mero albergaggio – ovvero una prima accoglienza espletata principalmente in centri straordinari con servizi solo essenziali e nessun supporto per l’integrazione e l’orientamento al lavoro e nessuna assistenza psicologica – con rinvio a una data incerta per l’inizio di un effettivo percorso di autonomia e chiare ricadute sui costi in termini economici e sociali.

È in questo scenario che si colloca il decreto legge n. 130/2020 il quale, restituendo al richiedente asilo la legittima aspettativa di accedere quanto prima al sistema di seconda accoglienza, ha nuovamente concepito l’accoglienza come un sistema unico per richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale e speciale, a fasi progressive. Dunque, un ritorno al futuro del sistema di accoglienza delineato nel 2015 che il decreto sicurezza del 2018 aveva drasticamente troncato. Al sistema SAI – che resta principalmente destinato ai titolari di protezione internazionale e ai minori stranieri non accompagnati – potranno inoltre accedere altre persone straniere con titoli di soggiorno non necessariamente afferenti al diritto d’asilo, qualora non accedano a percorsi di accoglienza dedicati. In particolare, confermando quanto già previsto per il Siproimi, potranno accedervi i titolari di un permesso di soggiorno per calamità, per sfruttamento lavorativo, per violenza domestica e protezione sociale, per cure mediche e per particolare valore civile. Inoltre, potranno accedervi i titolari di permesso per protezione speciale nonché i titolari di un permesso per casi speciali, ovvero coloro che avevano ottenuto una protezione umanitaria e i neo maggiorenni in prosieguo amministrativo, i quali ne erano stati esclusi dalla riforma del 2018. Come in passato, però, resta il forte limite della volontarietà dell’adesione da parte dei comuni al sistema di seconda accoglienza e quindi della scarsa disponibilità di posti in tali progetti. Resta anche, e di conseguenza, il limite dell’indeterminatezza circa l’effettivo passaggio da centri di prima accoglienza a centri SAI e di un’estrema vaghezza sui tempi in cui ciò può avvenire.

Le nuove norme assicurano il passaggio in tali centri solo «nei limiti dei posti disponibili», lo fanno seguire all’espletamento di non meglio precisati adempimenti necessari all’avvio della procedura di esame della domanda di asilo e limitano la permanenza nei centri straordinari eventualmente attivati a tempi indicati come «strettamente necessari». Anche nel prevedere come “prioritario” l’accesso alla seconda accoglienza per i soggetti vulnerabili, esse non pongono alcuna condizione perché ciò possa in concreto avvenire. Dunque una aspettativa che, seppur legittima, nuovamente potrebbe essere: la tipologia di servizi di cui i richiedenti asilo possono beneficiare. Forse per la consapevolezza del prolungarsi della prima accoglienza ben oltre i tempi essenziali e strettamente necessari, si sono previsti anche per tale fase servizi di assistenza psicologica, mediazione culturale, corsi di lingua italiana, orientamento legale e al territorio: tutti servizi che il capitolato d’appalto del 2018 aveva cancellato ma la cui effettiva consistenza dipenderà dalle previsioni del nuovo capitolato non ancora adottato. I servizi sono gli stessi di cui beneficeranno i (non molti) richiedenti asilo che accederanno al sistema SAI prima del riconoscimento di una protezione internazionale o speciale. Qui, i richiedenti asilo potranno beneficiare solo di servizi di “primo livello” i quali non includono il supporto all’integrazione, alla ricerca e all’orientamento al lavoro e alla formazione professionale, riservato ai titolari di una protezione internazionale e speciale. Una scelta che replica la logica – errata – che era propria anche del decreto sicurezza e secondo la quale le risorse per un’effettiva integrazione vanno riservate a chi dimostra di avere un titolo certo per restare in Italia: certezza che può arrivare anche dopo molti anni se pensiamo alle lungaggini processuali e a quelle amministrative attualmente dovute all’emergenza epidemiologica.

Nel frattempo, sebbene per legge i richiedenti possano lavorare decorsi due mesi dalla domanda di asilo, non potranno beneficiare, né nella prima né nella seconda accoglienza, di un supporto nella riconquista dell’autonomia forzatamente perduta dopo la fuga dal Paese di origine o provenienza, obiettivo che, ragionevolmente, dovrebbe orientare l’accoglienza.

Caterina Bove

da Volerelaluna