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Le prigioni di provincia

Ci sono morti che pesano come piume: le grandi verità non tramontano mai. Nove morti vagano nella nebbia umida di pianura, persi, come fantasmi. Sono spettri che non spaventano nessuno. Se li incontri nella notte non li riconosci, perché non hanno volto, non hanno storia, non sono il retaggio di vite vissute. Nove morti nel giorno effimero della mimosa. Nove morti all’alba della prima ondata pandemica, nel cuore dell’ultimo avamposto progressista. La rivolta del carcere di Sant’Anna, a Modena, è una scoria radioattiva che continuerà a lungo a emettere luci velenose; hanno provato a interrarla, questa scoria, descrivendola come un suicidio di massa. L’autoassoluzione dell’istituzione, travolta dalla pazzia umana: migliaia di reclusi in agitazione in tutta Italia, raccontati alla stregua di una mandria impazzita che si precipita nel vuoto. Otto marzo. Tredici morti. Nove suicidi a Modena. Un “malore attivo” di massa.

La provincia sta diventando anonima, livida, cattiva e smemorata. Un tempo non era così – quelle erano le caratteristiche che i provinciali attribuivano alla metropoli; la provincia era conformista, di ristrette vedute, ma non così carogna da passare con disinvoltura sopra nove cadaveri. E Modena rappresenta l’epitome della provincia emiliana, la “piccola città” smarrita nella nebbia liquida dei giorni d’oggi. Il suo carcere di prima campagna, in località Sant’Anna, un luogo grigio, poco visibile, a misura del contesto circostante. Mi vengono a mente queste elucubrazioni malinconiche sulle “piccole città”, mentre ammiro in tv per la millesima volta Stefano Satta Flores che interpreta il personaggio del prof. Nicola Palumbo in C’eravamo tanto amati, l’eroe di Ettore Scola, simbolo dell’intellettuale di provincia, della sua crocifissione e delle sue solitarie genialità.

Tra l’altro io conoscevo il “vero” Nicola Palumbo, l’uomo reale che ispirò il personaggio: si tratta della buonanima di Camillo Marino, pirotecnico e lunare super-esperto di neorealismo, giornalista sportivo, sceneggiatore e polemista filosovietico – insomma: il matto estroso, roboante, colto, intellettuale di provincia che si inventò un prestigioso festival del cinema neorealista in Irpinia, nel contesto più alieno immaginabile; ogni anno registi bulgari e film vietnamiti piombavano nella democristianissima provincia avellinese e il contrasto da teatro dell’assurdo rispetto al territorio, era più “cinematografico” e letterario di tutto quello che veniva proiettato sullo schermo durante la rassegna: lo spettacolo era il festival stesso, il suo leader ispiratissimo, la placida indifferenza del paesaggio circostante (che era abbastanza neorealista di suo, con le sue rovine e suoi baraccati, senza bisogno di rappresentazioni filmiche). Perle surreali di provincia, bagliori di umanità, cultura popolare. E oggi, la provincia, cosa genera?

La perfetta indifferenza. Il silenzio dei suoi intellettuali, la pavida acquiescenza dei tristi amministratori di condominio che la guidano, le gazzette locali preoccupate soprattutto di sopravvivere. Pietà l’è morta, ma anche pathos, vita, indignazione civile. Quanto ci vorrebbe un Nicola Palumbo, con l’impermeabile liso e il basco (era così anche l’originale), pronto all’indignazione, capace di soffiare dentro qualche tromba segreta che sappia risvegliare i suoi conterranei dormienti – va bene, concittadini, siamo strapaese, siamo provinciali, siamo sobri, però per Dio, ne sono morti nove, e non erano animali. E non siamo animali. A questo servirebbero gli intellettuali di provincia, se ce ne fossero. E i poeti, abituati a cercare fantasmi nella nebbia.

Cos’è un carcere? Un posto magico sottratto alla realtà o solo un pezzo di città delimitato dal filo spinato? È il non luogo dove vengono risucchiati ladri, trafficanti, malversatori, jhiadisti e camorristi? Cosa succede alle persone, quando finiscono in quel buco nero? Il provinciale distratto di oggi non se lo chiede. Forse pensa che entrino in una dimensione ineffabile, fuori dal tempo e dallo spazio, immune ai virus, insensibili al dolore delle bastonate, degli anfibi sulla testa, alla paura delle pistolettate che fischiano intorno alle orecchie.

Una volta Renato Curcio raccontò del senso di straniamento che provarono nel 68/69, le prime avanguardie studentesche che finivano in galera per reati di piazza. Si ritrovavano attoniti dentro carceri borbonici e fatiscenti, in cui regnava l’arbitrio delle guardie e la violenza tra detenuti. Luoghi abbandonati da Dio ed impermeabili ad ogni retorica costituzionale. E queste avanguardie, spesso di origine piccolo borghese, destinate comunque a uscire in tempi brevi, si chiedevano perplesse: ma come ha potuto la giovane Repubblica permettere tanto abbandono? Com’era possibile che una Repubblica fondata da un ceto politico i cui esponenti migliori erano passati per le patrie galere, avesse permesso un simile degrado? La risposta era facile. Per i padri nobili dell’antifascismo e della Costituente, – e poi a seguire per molti altri dopo di loro – il carcere restava un luogo estraneo, anche se erano stati costretti dalla contingenza storica ad attraversarlo. Loro non si sentivano gente da galera; permaneva un pregiudizio di classe inestinguibile; il carcere era il luogo necessario e irredimibile in cui la società nascondeva le sue vergogne; perciò appena usciti se ne dimenticavano, come ti dimentichi di una terra maledetta dopo averla visitata.

Chi è Stato? Cosa è stato? Non è facile ricostruire gli scenari che hanno fatto da sfondo alla tragedia di Modena e delle altre carceri. Le vicende italiane si lasciano sempre dietro una scia di cadaveri, come una favola di Pollicino piena piena di orchi. Nel caso della strage di Sant’Anna sono rimasti, muti testimoni, solo nove mucchietti di cenere – disseminati qua e là, tra Acerra e Casablanca – e un po’ di verbali autoptici. Polvere siete e polvere tornerete, nei crematori che purificano le verità non dette. Potendo, le autorità avrebbero sicuramente evitato di accanirsi in inutili indagini. Il Governo, il Dap, le forze politiche, i sindacati del personale penitenziario: tutti avevano provato a chiudere alla svelta l’annosa vicenda: “si, qualcosa successo, là dentro, ma che vuoi mai? Le circostanze, il caso, la regia delle cosche, la durezza delle cose, la disperazione – tossici, spacciatori, ladruncoli, lasciamoli riposare in pace e amen”. Peccato siano saltati fuori questi scoccianti testimoni diretti, le voci prima anonime e poi messe a verbale di chi racconta un’altra storia – perché c’è sempre, sempre, un’altra storia.

Certo se non c’è scandalo collettivo non c’è neanche colpa istituzionale. E qua lo scandalo non c’è, almeno a Modena. La città tace, anzi acconsente. Ipotesi di omicidio, tentato omicidio, tortura, falsa testimonianza, omissioni di soccorso, tradimento di ogni giuramento – dalla Costituzione repubblicana a Ippocrate: questo, per chi non l’ha capito, aleggia sulla vicenda modenese e su tutte altre, questo raccontano i testimoni, tra le crepe di una versione ufficiale a cui non crede più nessuno. Ma non è abbastanza per scandalizzare la provincia moderna. “Le guardie avevano le divise piene di sangue” – racconta in televisione un detenuto occultato come un collaboratore di giustizia; ma non era sangue loro, sangue di guardiano, non era il sangue dei giusti. Quelle divise sono state riportate nelle lavatrici domestiche, nelle case normali dove vivono i giusti, lavate e sterilizzate a 80°. Non c’è, in giro, un Nicola Palumbo, non c’è Don Chisciotte. C’è solo la cenere asettica, dentro le urne funerarie, purissima, priva di virus, mondata dalle macchie umane che segnano le fedine penali e le vite per sempre.

C’è qualcosa di indecifrabile in un carcere di provincia che improvvisamente divampa. È il mistero di una città che non lo conosce, che ne ha rimosso l’esistenza, affidandolo alle cure solerte di amministratori e guardiani della discarica. E all’improvviso, la cittadina vede fuoco, fumo, sirene, e si ricorda che quello è una galera, non un istituto per ciechi o una caserma.

Modena, Rieti, Santa Maria Capua Vetere, Foggia; ma perché è proprio nelle prigioni di provincia che è scoppiato in forme più virulente l’incendio? Che rapporto c’era tra queste città e le loro prigioni, tecnologiche o vetuste che siano? La rimozione totale? E Modena, in particolare: c’entrano qualcosa le fiamme di Sant’Anna col fatto che ormai da un paio d’anni in questa città si registra un numero inquietante di denunce e rinvii a giudizio per centinaia di cittadini accusati di vertenze sindacali e sociali? Esiste una misteriosa relazione tra la degenerazione del clima “dentro” e “fuori”, ad là e al di qua del filo spinato? Cittadini e detenuti, hanno respirato la stessa aria, sia pur in condizioni drammaticamente diverse?

Gli sbirri di provincia. Il maresciallo arguto delle fiction, il secondino che in fondo è un buon padre di famiglia – perché la provincia non può generare aguzzini, è noto. Saranno decine e decine le guardie che verranno indagate per i fatti relativi ai disordini e alle stragi dell’otto marzo. Si sospetta l’organizzazione di rappresaglie coordinate e di massa – nei luoghi delle rivolte, e dove furono trasferiti i rivoltosi. Se i magistrati avranno davvero voglia di indagare, troveranno tutto un mondo da esplorare – secondini, medici, agenti di PS e carabinieri. Ma la società ha il dovere di arrivare prima delle inchieste giudiziarie, e porsi delle domande difficili e necessarie. A partire dalla fondamentale: visto che gli sbirri di provincia sono uguali a quelli di metropoli, visto che quelli di oggi sono uguali a quelli della Diaz, che a loro volta erano uguali a quelli di Kossiga, nessuno sente il bisogno di interrogarsi su questa continuità generazionale inter-corpi? Ogni volta che scoppia un bubbone – l’ultimo il caso Cucchi – ci dicono che i tempi sono cambiati e le divise sono state rilavate di fresco e “che non si può rimanere ancorati al passato”. Ce lo spiegano generali moderni, educati e compunti; e funzionari di polizia che sembrano Pr : ma quand’è che questo benedetto paese riconoscerà di avere un problema con i corpi armati dello Stato? Ed è chiaro che le verità scomode vengono fuori dentro le condizioni straordinarie – le strade di Genova o le rivolte nelle carceri: un chirurgo lo giudichi mentre opera, mica quando prende il caffè. Ci chiediamo quale traccia genetica residui dentro le nostre forze di polizia – un DNA nero, terribile, che persiste nel tempo, come le anime metalliche dei manganelli Tonfa, invisibili e micidiali.

Cosa è successo davvero nei corridoi e nelle celle delle carceri italiane, nella notte tra l’otto e il nove marzo e nelle ore immediatamente successive al ristabilimento – terribile – dell’ordine? Chi ha coordinato la campagna di rappresaglia post-rivolta in mezza Italia? Perché se l’azione è stata spontanea è quasi peggio – assume il senso di un automatismo, di una prassi sottaciuta. Nessuno parla, al momento, nei ranghi dello Stato. Tra le forze di polizia che tradiscono la Costituzione ci sono meno pentiti che nella ‘ndrangheta.

I morti di Modena sono importuni, fastidiosi. Lo erano in vita, lo sono ancora più oggi. La provincia padana ha ben altre rogne da pelare. La casa circondariale è stata ristrutturata di fresco come a lavare anche la memoria dei suoi fantasmi. E i fori di proiettile nei muri – se c’erano, come dicono i testimoni – saranno stati ben stuccati. I paginoni di giornale, e le trasmissioni televisive, prima o dopo passeranno. Qua c’è una città in panne, che vuole “ripartire” come dice la retorica del barista e del sindaco. Il tortellino piange. Anche Pavarotti, bronzeo e benedicente, con le braccia aperte come Woityla, ha un’aria preoccupata, nel tramonto rossastro e violaceo d’Emilia. Non c’è tempo per parlare dei ladri e delle puttane di Sant’Anna. C’era una volta la provincia.

Giovanni Iozzoli

da carmilla