La cacciata dei senzatetto dal centro cittadino a Torino è solo l’ultimo tassello del puzzle della città decorosa voluta da Chiara Appendino, nel solco delle giunte targate PD che hanno governato per decenni Torino.
Il decoro si sostanzia nel rendere invisibili i poveri, cacciandoli dai salotti buoni, disgregando ed annullando i luoghi dell’economia informale con cui campano, distruggendo le baraccopoli, sgomberando i posti occupati, formali ed informali della città.
In piena pandemia hanno completato lo sgombero strisciante delle casette di legno e lamiera di via Germagnano, hanno cacciato i migranti che vivevano nei capannoni dell’ex Gondrand, hanno gettato in strada i 50 occupanti di corso Giulio 45, hanno allontanato i senzatetto che dormivano sotto i portici cittadini, distruggendo e gettando in discarica coperte e cartoni.
“Nella nostra città i poveri sono diventati alieni, da nascondere, cacciare, allontanare in quanto soggetti che cercano di sviluppare delle autonome strategie di vita. Non è per nulla interessante, e molto sbagliato, ricoprire la povertà di un velo nostalgico, leggerla necessariamente come una resistenza politicizzata, o farne una storia rivoluzionaria o, ancora peggio, morale. Non sono strategie di resistenza esplicita, se non in alcuni casi, ma vere e proprie strategie vitali, la sostanza stessa del tentativo di migliorare la propria condizione accettando pienamente i più ampi fini sociali ed economici.
Riconoscere questo, fa cadere due castelli di carta in un colpo solo: da un lato quello di pensare alla strategia neoliberale di governo urbano come a una riproposizione dei meccanismi del laissez-faire e della deregulation. L’attuale governo delle città si muove su un piano di regolazione e progettazione in cui lo stato – eventualmente nelle sue articolazioni locali – è un attore centrale nel permettere o non permettere, nel lasciar fare o nel chiudere spazi. L’altro è il discorso sull’autonomia e la partecipazione. L’attivazione degli abitanti, un impegno sociale che venga riconosciuto e ritenuto legittimo da parte delle autorità, è quello ben incasellabile in forme conosciute e normate, che possano rientrare nella definizione di volontariato o cittadinanza attiva. Attivazione sì, quindi, ma solo a certe condizioni. Questo aiuta a smascherare un sostrato, un’atmosfera, all’opera in questa città, così pronta a cancellare ogni sussulto dal basso, ogni occupazione, ogni tentativo di sbarcare il lunario fuori dallo stretto recinto del legale. Questo recinto non è però naturale, ma l’effetto di una attività normativa, simbolica e materiale dello stato stesso.
Piuttosto, è importante riconoscere una irriducibilità, una incomprensibilità, una fatica nel relazionarsi con l’informale, l’a-normale. Quello che abbiamo visto con tanta forza in questi anni, in questi giorni, è uno sguardo costitutivamente moralizzante e paternalista, che non riesce a tollerare – forse ancora di più, a concepire – l’esistenza di zone d’ombra, di complessità, degli effetti di una povertà diffusa e atroce che non sa né vuole affrontare se non scaricando sugli stessi poveri la responsabilità di cercarsi un lavoro, che sia “normale”, accettabile e decoroso. E allora la soluzione diventa quella di scacciarli, lasciando intatta la povertà. È una resa alle complessità del mondo, una burocratizzazione della vita sociale ammantata dalla retorica della libera impresa, un’accumulazione di dispositivi di governo volti ad allontanare il tangibile senso di impotenza per ciò che non riesce a contare, a bandire, a appaltare.”1
Radio Balck Out ne ha parlato con Tommaso Frangioni, ricercatore di sociologia all’Università di Torino
1 In “Cronaca partigiana di un mutamento urbano di Cecilia Pasini e Tommaso Frangioni”