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Maria, incensurata, rubò un paio di scarpe dal valore di 20 euro: otto anni sotto processo

Quasi tre anni di indagini, otto di processo e decine di udienze ovviamente tutte a carico dei contribuenti. Sembra il procedimento penale del secolo. Ma gli accusati non sono assassini, mafiosi o corruttori, bensì una signora che ha tentato di rubare in un centro commerciale un paio di scarpe dal valore di 19,99 euro. Incredibile ma vero.

È l’ennesima storia che definisce i contorni di una giustizia schizofrenica. Troppo spesso lenta, macchinosa, capace però di tirare fuori le unghie, senza pietà, con i più deboli. La rappresentazione plastica del sistema giustizia ingolfato da processi come questi che non dovrebbero neanche essere istruiti.

Condannata in primo grado a un mese di reclusione e al pagamento di 50 euro di multa, pochi giorni fa Maria (il nome è inventato) è stata assolta dalla Corte d’Appello per “la particolare tenuità del fatto”.

Il prezzo pagato, però, è stato altissimo: “La giustizia nel nostro paese funziona molto male“, dice Maria. “Io ho commesso – continua – un errore, ne sono consapevole e mi sono sin da subito pentita. Ma quello che mi ha causato più dolore è stato non poter più vivere con tranquillità. La mia vita è stata condizionata. Non ho potuto presentare domanda, a causa dei carichi pendenti, a diversi concorsi pubblici, ho rinunciato a una candidatura in politica. Psicologicamente è stato frustrante. Nonostante tutto continuo a credere nella giustizia ma molte norme vanno cambiate e la legge va applicata in modo corretto“.

L’odissea di Maria, al tempo 32 anni, inizia il 24 maggio 2013. Siamo a Palermo, quartiere San Filippo Neri.

La donna – incensurata con un lavoro part-time e ragazza madre di un figlio allora minorenne – esce dal negozio ‘Pull & Bear’ sito all’interno del centro commerciale Conca d’Oro. All’uscita scatta l’allarme: Maria viene bloccata dal titolare e, subito, in lacrime tira fuori dalla borsa il paio di scarpe che aveva tentato di rubare. Valore 19,99 euro.

Maria riconsegna la merce e, vergognatasi del gesto, è pronta a pagarla. Il titolare del negozio, però, denuncia il tentato furto ai carabinieri. Che, ovviamente, contestano il reato per il quale si procede d’ufficio. I pezzi del mosaico sono tutti al loro posto: le scarpe sono state restituite, la donna ha confessato, non ci sono indagini da fare. Eppure il pubblico ministero tiene aperto il fascicolo per quasi tre anni. Si arriva così a ottobre 2016.

Il pm – spiega l’avvocato Mauro Barraco, legale della donna – aveva due possibilità: avanzare richiesta d’archiviazione per particolare tenuità del fatto in quanto nel 2015 era entrata in vigore una norma che prevede l’assoluzione quando un soggetto incensurato, non abituale a commettere reati, commette un reato che non desta allarme sociale e la cui pena non supera i cinque anni. Una norma utile a evitare ingolfamenti al sistema giustizia per reati bagatellari. Oppure chiedere il rinvio a giudizio“. È stata scelta la seconda opzione. La prima udienza di un processo surreale inizia il 12 maggio 2017.

Per far sì che la mia cliente rimanesse incensurata – spiega Barraco – decidiamo di chiedere la messa alla prova Di farle svolgere, dunque, un programma di tre mesi di volontariato per riabilitare la propria posizione. Il tribunale, invece, ha ritenuto che questo programma svolto per tre mesi fosse troppo blando e ha così emesso un’ordinanza spiegando che il programma sarebbe dovuto durare almeno un anno“.

Per Maria è impossibile accettare un anno di servizi sociali. Avrebbe perso il posto di lavoro, ma soprattutto non avrebbe potuto seguire al meglio il figlio. La donna non dà il consenso e viene giudicata in abbreviato. Nonostante la richiesta d’assoluzione per tenuità del fatto supportata da molte altre sentenze della Cassazione che hanno assolto protagonisti di casi molto più gravi, Maria il 6 novembre 2019 viene condannata in primo grado a un mese di reclusione e al pagamento di 50 euro di multa. Il pm, addirittura, aveva chiesto una pena di quattro mesi di reclusione e 200 euro di multa.

Nelle motivazioni della sentenza il giudice sottolinea la sussistenza del reato di tentato furto e l’aggravante di “aver commesso il fatto – scrive – su cose esposte per necessità alla fede pubblica” e che “il valore economico della merce sottratta (19,99 euro, ndr), per quanto modesto, non può considerarsi di entità irrilevante e pertanto non consente di applicare la particolare tenuità del fatto”. La giustizia, però, arriva in ritardo con la Corte d’Appello che, lo scorso 9 febbraio, accoglie la tesi della difesa dichiarando il fatto “non punibile“.

Ci sono situazioni incomprensibili – dice Barraco – a partire dal fatto che certi fascicoli che non richiedono indagini rimangano sul tavolo del pm così tanto tempo. La magistratura inquirente non ha accolto la norma del 2015. Secondo alcuni pm questa norma consente una sorta d’impunità. Ma intanto esiste e non si può decidere di non applicarla“.

Giorgio Mannino

da Il Riformista