Come usa la polizia italiana il riconoscimento facciale?
- febbraio 24, 2021
- in misure repressive
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Adoperato soprattutto per prevenire il terrorismo e l’immigrazione clandestina, non è mai stato oggetto di dibattito pubblico. E ora arriva anche da noi una raccolta di firme che ne chiede la messa al bando.
Negli ultimi anni, la tecnologia del riconoscimento facciale è stata spesso al centro della cronaca: città come San Francisco od Oakland, per esempio, hanno recentemente messo al bando quest’applicazione dell’intelligenza artificiale (che permette di riconoscere la persona ripresa da una videocamere confrontando l’immagine con il database fotografico a disposizione dell’algoritmo), mentre un esponente politico di spicco come la deputata statunitense Ocasio-Cortez si è scagliata contro le discriminazioni nei confronti delle minoranze etniche causate dall’impiego di questi software.
Una questione globale – Sarebbe però sbagliato pensare che questa controversa tecnologia sia un affare soltanto statunitense. Dalle sperimentazioni avvenute a Londra fino all’utilizzo nelle scuole superiori francesi, è sempre più evidente come il riconoscimento facciale si stia diffondendo anche in Europa. Italia inclusa. Almeno a partire dal 2018 (quando ha ricevuto il via libera dal garante della privacy), la polizia italiana usa infatti un sistema noto come Sari Enterprise, un software che permette di confrontare i fotogrammi ripresi dalle videocamere di sorveglianza con i nove milioni di volti archiviati nel database AFIS, che contiene non solo le foto segnaletiche di chi ha compiuto crimini, ma anche quelle di migranti e richiedenti asilo.
Sari Realtime – C’è però un secondo strumento per cui la polizia italiana – come ha svelato un’indagine condotta da Irpimedia – ha recentemente indetto una gara d’appalto: Sari Realtime, software in grado di analizzare in tempo reale i volti dei soggetti ripresi dalle telecamere, confrontandoli con un database di circa diecimila persone. Come spiega a La Stampa Riccardo Coluccini, vicepresidente della ong per i diritti civili in ambito digitale Hermes Center, “nei documenti della gara d’appalto è scritto nero su bianco che l’obiettivo delle forze dell’ordine è utilizzare questo software per monitorare le attività di sbarco dei migranti”.
Si tratta di uno strumento utilizzato già oggi, visto che la gara d’appalto riguarda il suo aggiornamento? “Non è chiaro”, prosegue Coluccini. “Il ministero degli Interni non ha rilasciato comunicazioni a riguardo e non ha risposto alle domande in merito. Per la stessa ragione non si sa nemmeno a quale scopo lo si vuole impiegare: per identificare gli scafisti che ormai sappiamo non restare più a bordo? Per identificare potenziali terroristi? Nessuno lo sa, perché il ministero non ha mai chiarito questi aspetti”.
C’è un altro aspetto fondamentale, ovvero che l’utilizzo di Sari Realtime non è mai stato approvato dal garante della privacy: “Il garante della privacy ha aperto un’istruttoria tre anni fa”, prosegue il vicepresidente di Hermes Center. “La richiesta di fare una valutazione d’impatto – in base ai documenti che abbiamo ottenuto – non ha però mai ricevuto risposta dal ministero. Ma senza l’approvazione del garante, questi strumenti non si potrebbero utilizzare”.
I rischi – Quali sono i rischi? Prima di tutto, è ormai ampiamente documentato come questi software abbiano un tasso di accuratezza non sufficientemente elevato; una mancanza che negli Stati Uniti ha già provocato – almeno in tre casi – l’arresto e l’incarcerazione di persone di colore innocenti. “Ma se anche funzionassero alla perfezione, questi sono strumenti che disumanizzano le persone, trattate quasi come codici a barre viventi”, prosegue Coluccini. Se non bastasse, il timore è che strumenti di questo tipo vengano un domani impiegati anche per sorvegliare la popolazione nel suo complesso: è ormai noto da tempo come videocamere dotate di riconoscimento facciale siano infatti state in azione nella città di Como e come se ne stia sperimentando l’utilizzo anche a Firenze, Torino e altrove. Al di là dei casi che hanno riguardato alcuni comuni, la sensazione, conclude Coluccini, “è che il ministero dell’Interno stia tirando dritto senza nemmeno instaurare un dialogo con la società civile e, a quanto pare, senza nemmeno coinvolgere il garante della privacy”.
“Ridateci la faccia” – È anche per questo che la coalizione Reclaim Your Face – di cui fanno parte l’Hermes Center, l’Associazione Luca Coscioni, Privacy Network e altri – ha lanciato la raccolta firme per la messa al bando del riconoscimento facciale. Un’iniziativa che mira a raccogliere un milione di firme in sette paesi UE nell’arco di 12 mesi e che è stata organizzata all’interno del programma ECI (Iniziativa cittadini europei) dell’Unione Europea. Se avrà successo, Reclaim Your Face obbligherà la Commissione Europea ad aprire un dibattito sul tema con gli stati membri del Parlamento Europeo e a valutare la messa al bando di una tecnologia che mette in serio pericolo la privacy di tutti i cittadini.
Andrea Daniele Signorelli
da La Stampa