Dell’eccidio di persone detenute avvenuto nelle carceri un anno fa sono due le cose che maggiormente colpiscono: il numero senza precedenti delle vittime, 13, e la spessa coltre di silenzio immediatamente calata al riguardo; anch’essa inaudita, quanto meno nell’essere pressoché generalizzata. Eppure, proprio il drammatico numero dei morti e le voci di pestaggi di massa subito circolate avrebbero dovuto mobilitare l’attenzione almeno di una parte dei media, oltre che delle associazioni che sul carcere normalmente sono impegnate.
In passato è spesso avvenuto, ma non questa volta. Solo tardivamente, molti mesi dopo i fatti, il mainstream sembra essersi timidamente risvegliato, prima con il quotidiano “Domani”, poi con un’inchiesta de “la Repubblica” e una di “Report” sulla RAI.
Occorre chiedersi il perché di quel muro compatto, iniziato dalle non-risposte fornite al Parlamento dall’ex ministro Bonafede. Plausibile chiamare in causa la lettura fornita da ambienti e procure antimafia delle rivolte che hanno preceduto la strage: acriticamente amplificata dai media, indicava una regia e pianificazione da parte della criminalità organizzata.
Ipotesi non suffragata da alcun elemento, né al momento né in seguito, eppure capace di allineare la politica, catalizzare l’informazione e intimidire le voci critiche o dubbiose. Segno dei tempi, o, meglio, risultato di decenni di logica e di leggi di emergenza che hanno sedimentato una cultura giuridica e una prassi giudiziaria improntate al “diritto del nemico” e che hanno cristallizzato poteri esuberanti l’alveo costituzionale, godendo di consenso bipartisan ed essendo insuscettibili di contestazione, riserva o anche solo contenimento.
Fatto sta che assieme – o forse in conseguenza – a quelle culture e pratiche si è insediato un sentimento pubblico che vede la persona detenuta come priva e privabile di ogni considerazione e cittadinanza. Scarti sociali, la cui incolumità, salute e la stessa vita non sono da considerarsi beni da tutelare, diritti da riconoscere. Voluti e trattati come non-uomini e non-donne, da consegnare per un tempo più lungo possibile alla invisibilità e alla rimozione. Alla vendetta e alla punizione corporale, perché infine di questo si tratta.
A chi osa protestare, tocca spesso la rappresaglia fisica, oltre alla sanzione disciplinare e a quella penale. Così per quelle rivolte sono in corso procedimenti e processi contro decine e decine di reclusi, accusati di violenza o resistenza, ma le inchieste sulle 13 morti del marzo 2020 non hanno prodotto alcuna attribuzione di responsabilità, né penale, né politica, né amministrativa.
Il muro si è incrinato solo laddove i pestaggi per ritorsione siano avvenuti a distanza di tempo e comprovati da riprese video, come nel carcere di Santa Maria Capua Vetere; la locale procura ha infine messo sotto accusa ben 144 agenti penitenziari nell’inchiesta chiamata significativamente “La mattanza della Settimana Santa”.
Ovviamente, giudizi definitivi vanno rinviati all’esito delle sentenze, ma è facile sin d’ora presumere che – al di là di esse – si tratta di un’eccezione, che rischia di vedere confermata la regola dell’impunità. Tanto più intollerabile mentre ci si prepara al ventesimo anniversario della scuola Diaz e di Bolzaneto, dove i massacri e le torture potettero contare sull’esplicita copertura di vertici politici e istituzionali.
Per ragionare di tutto ciò, per ricordare, denunciare e proporre, il “Comitato nazionale per la verità e la giustizia sulle morti in carcere” nato all’indomani della strage (cfr. https://www.dirittiglobali.it/coronavirus-morti-carceri-appello), assieme ad altre associazioni, ha promosso un webinar il 9 marzo 2021, dalle 17.30, che potrà essere seguito in diretta sui social.
da il manifesto