A dieci anni dalla caduta del regime di Zine el-Abidine Ben Ali, la Tunisia torna a fare i conti con la repressione poliziesca e giudiziaria. Il paese è attraversato da un’ondata di arresti senza precedenti dai tempi della rivoluzione, tanto che le principali organizzazioni della società civile mettono in guardia contro un possibile ritorno allo stato di polizia. Mentre l’alternarsi di ministri e governi altera da più di un anno il regolare funzionamento delle istituzioni in piena crisi economica e sociale, i sindacati delle forze dell’ordine, sempre più autonomi, continuano a rafforzarsi.
DA METÀ GENNAIO, le pagine Facebook e gruppi Whatsapp dei sindacati di polizia pubblicano le foto di alcuni manifestanti, spesso scattate tramite il drone che sorvola le proteste, incitando ad un generale «ritorno all’ordine». Così nella capitale è in corso un vero e proprio braccio di ferro tra polizia e attivisti politici. Sono sempre meno i giovani che si ritrovano nelle strade dei quartieri di periferia – i primi a scendere in piazza a gennaio 2021 – o in Avenue Bourguiba per manifestare: chi protesta è cosciente di rischiare l’arresto.
Dopo l’ultima manifestazione di sabato 6 marzo, tre noti militanti della sinistra tunisina – Mondher Souidi, Mahdi Barhoumi e Sami Hmayed – sono stati arrestati dopo un’incursione domenica notte della polizia nell’abitazione di uno di loro, poi rilasciati dopo due giorni di detenzione in attesa del processo. Secondo l’ultimo rapporto dell’Associazione Tunisina per la Prevenzione contro la Tortura (Atpt), basta un post su Facebook per finire in manette. È accaduto ad Ahmed, a cui la polizia ha confiscato cellulare portatile e computer senza autorizzazione giudiziaria, come a Houssem, arrestato a Ben Arous per aver pubblicato un post a sostegno dei movimenti di protesta, spiega l’Atpt, che sta esaminando i dossier di decine di manifestanti che avrebbero subito violenze in commissariato.
ALLE POLEMICHE sul caso di Ahmed Gam, 21 anni, prelevato sul posto di lavoro e picchiato fino alla perdita di un testicolo, il portavoce del sindacato nazionale della polizia Jamel Jarboui ha risposto che «si tratta di errori individuali» e le forze dell’ordine hanno saputo «mantenere l’autocontrollo nonostante le provocazioni». Secondo l’avvocato Charfeddine Kellil, citato dai media locali, numerosi giovani si sono però ritrovati in detenzione arbitraria «senza che alcuna procedura venisse rispettata», in assenza di un avvocato, spesso ancora minorenni. Gli arresti sono ormai più di 1700 secondo la Lega tunisina per i diritti umani.
Tra i giovani condannati al carcere con un processo rapido, c’è Rania Amdouni, volto delle recenti proteste nella capitale, arrestata il 27 febbraio dopo essersi presentata spontaneamente in commissariato per denunciare una campagna denigratoria nei suoi confronti in quanto attivista femminista queer. Dal commissariato, però, la militante tunisina non è più uscita: il 4 marzo è stata condannata a sei mesi di carcere in nome dell’articolo 226 bis del codice penale, con l’accusa di «attentato al pudore».
LA REPRESSIONE di polizia, infatti, va a braccetto con quella giudiziaria: «anche i giudici sono in prima linea e, senza che il governo intervenga, stanno partecipando a un ritorno al passato», commenta sulla stampa tunisina Nadia Chaabane, ex deputata ai tempi della Costituente. Il codice penale del paese nordafricano – risalente ai tempi del protettorato francese, apertamente liberticida ma ancora in vigore – giustifica le misure repressive adottate nei confronti di chi viene fermato dopo le proteste, spesso davanti a casa o in un luogo pubblico come è accaduto in pieno centro, nei caffè della capitale. Di conseguenza, da inizio gennaio ad oggi, anche le priorità della piazza sono cambiate: gli striscioni su pane e giustizia sociale vengono rimpiazzati dalle foto dei manifestanti arrestati, per cui la piazza continua a chiedere la liberazione.
Il caso di Abdessalem Zayen, ventinovenne diabetico, morto in carcere perché privato dell’insulina dopo esser stato arrestato a inizio marzo a Sfax e accusato di aver aggredito verbalmente un poliziotto, ha contribuito a ravvivare il dibattito su pesanti condanne ingiustificate, che vanno da sei mesi a un massimo di quattro anni di prigione. Mentre si moltiplicano gli appelli per lo scioglimento dei sindacati di polizia, un collettivo a sostegno dei movimenti sociali in Tunisia si è rivolto al presidente Kais Saied chiedendo di concedere la grazia presidenziale ai giovani detenuti. Per l’associazione Al-Bawsala, invece, è necessario che sia il parlamento a sottoporre ad audizione il primo ministro Hichem Mechichi, perché risponda delle violazioni delle forze dell’ordine. Ieri pomeriggio, i sindacati di polizia si sono riuniti proprio di fronte alla Kasbah per chiedere un aumento del proprio stipendio e migliori condizioni di lavoro.
da il manifesto