Nell’arcipelago governato dall’autoritario presidente in una giornata 9 omicidi mirati, dopo un invito da parte dello stesso Duterte a «eliminare tutti i comunisti»
Il governo autoritario di Rodrigo Duterte nelle Filippine continua a seminare morti e sangue nella totale impunità, attraverso una violenza inaudita e nel sostanziale silenzio della comunità internazionale.
Domenica 7 marzo è stata già nominata il “Bloody Sunday” filippino: nove attivist* sono stati uccisi in modo brutale in esecuzioni mirate compiute da forze di sicurezza dello stato filippino. Gli attivisti così uccisi appartenevano a diverse organizzazioni della società civile.
Emmanuel “Manny” Asuncion era un attivista sindacale dell’associazione BAYAN-Cavite, che si occupava di denunciare gli abusi delle forze di polizia nella regione di Calarbazon, luogo in cui sono stati compiute tutte le esecuzioni. Michael “Greg” Dasigao, Abner e Edward Esto, e Mark Lee Bacasno facevano politica nell’organizzazione SIKKAD-K3 che si occupa di diritto alla casa nel villaggio di Kasiglahan.
Puroy dela Cruz and Randy “Pulong” de la Cruz erano invece attivisti del gruppo indigeno Dumagat Sierra Madre, che lotta per i diritti dei popoli originari. Infine la coppia Chai Lemita Evangelista e Ariel Evangelista erano membri dell’associazione di pescatori UMALPAS KA nella città di Nasugbu e lottavano contro lo sfruttamento minerario, il land grabbing e gli effetti del cambiamento climatico. I familiari e i compagni degli uccisi rifiutano categoricamente le accuse governative che sostengono che questi fossero armati o facessero parte della guerriglia comunista del New People Army.
Ci sono voluti 4 giorni perché i corpi degli assassinati venissero restituiti alle loro famiglie.
Un elemento inquietante della vicenda è che venerdì 5 marzo il presidente Duterte aveva dichiarato «Ho detto ai militari e alla polizia che, in caso di scontro armato con i ribelli comunisti, li ammazzino, facessero bene attenzione a farli fuori e controllassero che non rimangano vivi, basta che poi si restituiscano i loro corpi alle rispettive famiglie […] dimenticatevi dei diritti umani […] è il mio ordine e se andrò per questo in prigione non è un problema, non ho riserve a fare le cose che devo fare».
Duterte è al potere dal 2016, e la retorica di “mettere fine” all’insorgenza armata della guerriglia NPA, di ispirazione maoista, ha sempre marcato il suo discorso pubblico all’interno di una precisa tattica di controinsorgenza.
Quello che invece sta accadendo negli ultimi tre anni è un allargamento dei soggetti presi di mira a tutte le organizzazioni della società civile impegnate nella critica al suo crescente autoritarismo.
Nel mese di agosto 2020 erano stata assassinate l’attivista sociale Zara Alvarez dell’organizzazione Karatapan e Ka Randi Echanis della stessa organizzazione. Ricordiamo che parte centrale della strategia repressiva di Duterte è segnalare la persone come “comuniste” all’interno di liste pubbliche (red tagging) e in seguito procedere con arresti o, nei casi più tragici, con esecuzioni extra-giudiziarie come quella di domenica 7.
Human Rights Watch ha duramente criticato l’accaduto dicendo che «questi attacchi sembrano essere parte di un piano coordinato da parte delle autorità per perquisire, arrestare e persino uccidere gli attivisti nelle loro case e uffici. […] questa campagna non fa più distinzione tra ribelli armai e combattenti nonviolenti, o leader sindacali o difensori di diritti umani».
L’organizzazione internazionale ha fatto anche notare che tutti e nove gli assassini sono avvenuti in province sotto la giurisdizione del generale Antonio Parlade jr. Tale generale è il capo della task force costruita da Duterte per mettere fine al conflitto con la guerriglia comunista.
Lo stesso generale è stato responsabile dell’inserimento di decine di attivisti nelle liste di proscrizione, il red tagging, appunto. Anche alcuni senatori dell’opposizione hanno accusato il generale Parlade di essere il regista dei fatti tragici di domenica 7 marzo.
Secondo alcuni analisti la dittatura di Duterte ormai si avvicina sempre più per crudeltà e violenza al dittatore filippino Marcos, a cui il presidente attuale ha detto senza pudore di ispirarsi.
Duterte sta cercando con questa campagna repressiva di distogliere l’attenzione dai drammatici problemi del paese: la crisi economica aggravata dai cambiamenti climatici che hanno un effetto dirompente nelle Filippine, ma anche la gestione della pandemia, il forte livello di corruzione interno.
Il presidente sta inoltre utilizzando le stesse pratiche e modalità attuate nei primi anni della sua presidenza contro il crimine organizzato, cioè arresti di massa, scomparse forzate, esecuzioni extra-giudiziarie generalizzate.
La “guerra contro la droga” di Duterte è stata sanguinaria e violenta e ha subito varie critiche a livello internazionale proprio per la sua arbitrarietà. Le organizzazioni di diritti umani hanno calcolato circa 27.000 morti in esecuzioni extra-giudiziarie dall’insediamento di Duterte a oggi, cioè in cinque anni.
Se si aprisse, come tutto fa pensare, una guerra analoga nei confronti della intera società civile di sinistra, gli effetti potrebbero essere disastrosi. Si avvicinano le elezioni presidenziali del 2022 e Duterte ha bisogno di argomentazioni per presentarsi alla popolazione, ancora più ora vista l’assenza di Trump nello scenario mondiale.
Il presidente Usa e quello filippino sono sempre stati molto vicini anche per le loro affinità caratteriali e di gestione di politiche pubbliche. Sarà necessario vedere se e come si modificheranno le relazioni con il nuovo presidente Usa.
Ricordiamo che nel corso del 2021 la Corte Internazionale dell’Aja dovrà decidere se Duterte può essere processato per crimini di guerra, proprio per le esecuzioni extra-giudiziarie di massa che caratterizzano il suo mandato.
Rimane la questione di fondo, le Filippine sono da sempre un’area strategica in tutto il sudest asiatico, non a caso furono per molti anni colonia statunitense. La loro rilevanza geopolitica unita all’estrattivismo dell’industria agroalimentare (frutta tropicale, canna da zucchero e olio di palma) hanno reso l’isola serva di interessi neoliberisti e neocoloniali del capitale globale.
In questo contesto la gestione accentratrice e violenta di Duterte favorisce il mantenimento dello status quo all’interno di questo quadro.
Ricordiamo che Global Witness ogni anno stila la classifica dei paesi in cui lottare per i diritti dell’ambiente e della terra è più pericoloso. Nel 2019 Filippine e Colombia sono stati i paesi in cui le violazioni, minacce e uccisioni verso attivisti ambientali sono state le più numerose al mondo.
Purtroppo la maggior parte di queste violenze nel paese del sudest asiatico rimangono nel silenzio o nell’indifferenza mediatica a livello internazionale, come è stato per il drammatico Bloody Sunday di domenica 7 marzo.
Nonostante questa situazione, la società civile filippina rimane profondamente attiva e in costante mobilitazione, come hanno dimostrato importanti proteste studentesche per chiedere interventi nel settore dell’educazione, susseguitesi nel finale del 2020.
da DINAMOPress