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Regno Unito: Il virus del sovranismo

Il Regno Unito si trova in questi mesi ad affrontare i problemi legati alla gestione della pandemia, oltre a dovere fare i conti con i primi effetti relativi alla Brexit. Se sotto il primo aspetto sembrano delinearsi note confortanti, sotto il secondo si profila una situazione che, già difficile di suo, rischia di aggravarsi nel medio e nel lungo termine.

A un primo sguardo, se tentiamo di collegare i due aspetti, Londra sembrerebbe addirittura avere tratto vantaggio dall’uscita dall’Unione Europea. Grazie al fatto che il Regno Unito non è più parte dell’EMA (European Medical Agency), è stato infatti possibile per il governo di Downing Street importare i vaccini preposti a contrastare la pandemia, sottoponendoli a criteri di valutazione indipendenti da quelli degli ex-partners europei. In questo modo, è stato possibile avviare per primi la vaccinazione, e ottenere risultati positivi. Se a gennaio i nuovi casi di positività al COVID si aggiravano attorno ai 60.000 al giorno, con una mortalità che si è attestata sui 1000 casi fino a metà febbraio, e punte di 40.000 ricoveri nello stesso periodo, adesso sembra vedersi la luce in fondo al tunnel, coi casi giornalieri dieci volte minori, i ricoveri in calo del 75% e i morti in misura minore di 5 volte. Questi risultati si debbono anche alla scelta, da parte del primo ministro, di dare finalmente ascolto alle raccomandazioni del SAGE (Scientific Advisory Group for Emergencies), che ha insistito a lungo per introdurre un lockdown nazionale unico e chiudere scuole e università fino all’8 marzo. La riapertura successiva ha riguardato solo l’istruzione primaria e secondaria, mentre gli atenei hanno ripreso quelle attività pratiche che richiedono la presenza nei campus. Nella prudenza, Johnson ha dimostrato di saper tenere il punto, sfidando i parlamentari del suo stesso partito che volevano riaprire tutto dopo l’8 marzo.

Vaccini e prudenza sembrano avere premiato BoJo, che vola nei sondaggi ad oltre 15 punti di distacco dai laburisti. Sono stati dimenticati in fretta i 120.000 morti e la superficialità iniziale del premier, che all’inizio voleva puntare sull’immunità di gregge e invitava i suoi connazionali a rassegnarsi a perdere i propri affetti più prossimi come fosse una necessità ineluttabile. I Tories viaggiano col vento in poppa, tanto da scombinare le carte a Keir Starmer, leader laburista che ha costruito la sua reputazione come avvocato dei diritti umani e anti-razzista, fino a sospendere per tre mesi dal partito il suo predecessore Jeremy Corbyn per presunto anti-semitismo. L’altrettanto presunto successo anti-COVID ottenuto da Johnson ha spinto il Labour a inseguire i conservatori sul terreno del populismo sovranista. Ecco allora delle uscite degne del miglior Farage, come la richiesta da parte di Starmer di mettere in quarantena in appositi alberghi, a loro spese, tutti quelli che “approdano sulle nostre rive”. La sfida a destra si alterna all’appoggio pedissequo al governo in carica su tutti i temi, dalla pandemia alla Brexit. La mancanza di un argine al populismo dilagante, sta provocando la ripresa di gravi episodi di razzismo, pompati dalla Brexit e dall’orgoglio sovranista per avere affrontato la crisi pandemica da soli. Per esempio il 1 marzo, a Southampton, città portuale, roccaforte laburista da sempre, Wang Peng, un docente universitario di origine cinese, è stato insultato da quattro persone  in macchina mentre faceva jogging. Alla sua reazione verbale, è seguita un’aggressione a calci e pugni, che ha provocato all’uomo gravi lesioni alla faccia e alle vertebre. Episodi come questo sono ricorrenti nel Regno Unito sin dalla vittoria dei leavers nel giugno 2016, ma, dalla vittoria di Boris Johnson alle elezioni del 2019, la Anti-Nazi League ha registrato un aumento esponenziale degli attacchi razzisti.

In realtà, dietro gli apparenti successi sanitari, la cui efficacia andrebbe valutata più avanti, si nascondono le fragilità economiche e sociali di un paese che rischia di rendersi conto, presto o tardi, di avere compiuto un salto nel vuoto. Non si tratta solo della recessione, che ha colpito tutti i paesi industrializzati in seguito alla pandemia. Esiste anche un problema relativo alla disoccupazione, temporanea o definitiva, che l’elargizione del furlough, l’equivalente della cassa integrazione italiana, riesce a stento ad attenuare. Inoltre, alcuni settori che in questi anni avevano registrato una crescita costante, come il settore universitario, vedono adesso una caduta verticale. Non soltanto la pandemia ha scoraggiato le iscrizioni da parte degli studenti britannici, ma anche la Brexit ha comportato una drastica riduzione degli aspiranti laureandi provenienti dall’Unione Europea. In alcune università si registra una perdita di iscritti del 30% rispetto all’anno scorso, tanto che alcune università dalla reputazione accademica consolidata, come Liverpool, hanno annunciato trenta redundancies (esuberi) di personale docente, facilitati dal fatto che gli atenei britannici sono enti privati che riservano ai loro dipendenti un trattamento del tutto analogo a quello delle aziende. Inoltre, la crisi dovuta al Covid 19 rappresenta per i datori di lavoro, pubblici e privati, un’ottima scusa per congelare, o addirittura rigettare, le richieste di aumento degli stipendi. Ci troviamo così nella situazione paradossale per cui gli stipendi degli operatori sanitari, in questo periodo particolarmente esposti, fanno registrare una svalutazione reale del 9% rispetto a 10 anni fa. La pandemia è diventata così il pretesto, per il capitalismo britannico, per operare una ristrutturazione massiccia, a colpi di esuberi che rappresentano anche dei veri e propri ricatti per i lavoratori che riescono a mantenere un’occupazione, comprimendo il costo del lavoro. Ne consegue un impoverimento generalizzato, che la Brexit è destinata ad aggravare. I principali quotidiani britannici, il 12 marzo, hanno pubblicato dei dati che mostrano un calo del 40,7% delle esportazioni britanniche verso l’Unione Europea, che si traduce in 6.5 miliardi di sterline di mancati ricavi, dall’entrata in vigore della Brexit, ovvero dal 1 gennaio 2021. Il rincaro di un terzo del prezzo dei beni provenienti dagli ex partner commerciali, minaccia di deteriorare ulteriormente il potere d’acquisto dei consumatori di Oltremanica. Queste potrebbero essere solo le avvisaglie di un deterioramento economico causato dall’uscita dalla UE. Per esempio, i 4 milioni di lavoratori UE occupati nel Regno Unito, potrebbero seguire l’esempio di molte imprese e abbandonare il Regno Unito per spostarsi in Irlanda o nei Paesi Bassi, come già sta avvenendo. Se a questo si aggiunge la richiesta di un visto e della conoscenza obbligatoria della lingua inglese anche per i lavoratori ex UE, introdotta tra nuovi  i criteri per lavorare nel Regno Unito dopo la Brexit, l’afflusso di personale potrebbe diventare un problema, in particolare nei settori della conoscenza, delle costruzioni della sanità, dei servizi finanziari, della ristorazione, che si appoggiavano sulle prestazioni di manodopera, spesso qualificata, targata Bruxelles o Strasburgo.

Il virus del sovranismo potrebbe rivelarsi peggiore del Coronavirus. Con buona pace di mister Starmer.

Vincenzo Scalia

da palermograd