Quando l’invocazione della legalità formale traduce un gesto di autodifesa del potere. Nei casi come quello della condanna del Tribunale di Lecce a decine di attivisti No Tap, le decisioni giudiziali autocertificano una distanza dalla realtà sociale spiegabile solo in due modi: l’incapacità, più o meno volontaria, di conoscere e comprendere il contesto sociale da cui è scaturita l’azione incriminata e la conseguente chiusura verso quel contesto, in nome del perseguimento di una legalità settoriale, letterale, formale e astratta, che si impone come autorità di potere sulle persone giudicate.
La condanna penale, comminata in primo grado dal Tribunale di Lecce a decine di attivisti NoTap, ha già sollecitato commenti e prese di posizione assai critiche, in merito soprattutto all’aumento delle pene deciso dal Giudicante rispetto alle richieste, molto più miti, formulate dalla pubblica accusa. Una valutazione tecnica specifica di questo profilo dovrà necessariamente passare dalla lettura delle motivazioni della sentenza. Prescindendo da queste, tuttavia, è possibile commentare la decisione nel contesto generale di riferimento della vicenda Tap, su due fronti.
Il primo fronte investe il fatto che l’opera Tap è anch’essa sub iudice, risultando pendenti due procedimenti: uno di contenuto penale, a carico della società e di altri soggetti, vertente, tra gli altri profili, sulla questione della carenza di valutazione dei c.d. “impatti cumulativi” del gasdotto nel confronto con altre opere presenti e future del territorio italiano; l’altro di contenuto amministrativo, consistente nella prima causa climatica italiana, promossa dai residenti di Melendugno verso il Ministero dello Sviluppo Economico, per assenza di valutazione dell’utilità e compatibilità del gasdotto nel quadro della triplice emergenza planetaria (climatica, ecosistemica ed energetico-fossile), accertata dalla scienza e dichiarata da diverse istituzioni, a partire dall’ONU per arrivare al Parlamento europeo. Un simile scenario consegna una prospettiva intorno a Tap, destinata a permanere conflittuale sul piano legale e civico.
Il secondo fronte coinvolge la solidarietà cittadina e il suo significato in comparazione con la severità della condanna giudiziale. Nei riguardi degli attivisti condannati, la solidarietà si è manifestata numerosa ed esplicita a livello sia locale che nazionale e persino internazionale, ancorché non sia stata per nulla narrata dall’informazione di quotidiani e telegiornali.
Il dato della solidarietà è però interessante, perché fa emergere la non corrispondenza tra la percezione pubblica delle condotte di dissenso dei militanti NoTap e la stigmatizzazione formale espressa dall’abnorme condanna penale del giudice.
In questo iato risiede la scarsa credibilità della sentenza in sé, indipendentemente dalle sue motivazioni. L’accertamento giudiziale di qualsiasi reato dovrebbe rendere la società consapevole del proprio ordine morale e del senso di giustizia violata.
Di riflesso, la sanzione del giudice dovrebbe assumere il ruolo di strumento attraverso il quale la società si ricompatta nel discutere le proprie rappresentazioni simboliche e normative dello stare insieme.
Quando questo non accade, decisioni giudiziali di pesante condanna autocertificano una distanza dalla realtà sociale, che si può spiegare solo in due modi, entrambi riferibili all’organo giudicante: da un lato, la sua incapacità (volontaria o meno, poco importa) di conoscere e comprendere il contesto sociale da cui è scaturita l’azione incriminata; dall’altro, la conseguente chiusura verso quel contesto, in nome del perseguimento di una legalità settoriale, letterale, formale e astratta, che si impone come autorità di potere sulle persone giudicate.
Alla fine, un decisum così distaccato e formale scade in legalismo tecnico e rivela quello che uno dei più importanti studiosi del diritto comparato del processo penale ha definito il volto del giudice nella sembianza del potere di disposizione della vita altrui, invece che in quella dello sforzo di conoscenza della realtà altrui (M.R. Damaška, I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo, trad. it., Bologna, il Mulino, 1991).
Non a caso, sempre nella letteratura comparatistica, questo genere di sentenze “legaliste” viene rubricato come strumento di Lawfare, meccanismo formale che stigmatizza e reprime soggetti e comportamenti indipendentemente dai contesti di vita; mentre, nel linguaggio costituzionale statunitense, le sentenze Lawfare sono definite atti “maggioritari” (ossia di immedesimazione nel potere che produce la legalità astratta), invece che “contro-maggioritari” (ossia di considerazione delle condizioni reali di vita dei cittadini giudicati, anche quando in minoranza, da cui comunque dipende qualsiasi potere di legalità astratta e in nome dei quali la giustizia concreta è esercitata).
È appena il caso di ricordare che la Costituzione italiana legittima solo la proiezione “contro-maggioritaria” dell’esercizio di qualsiasi potere, compreso quello del giudice, ovvero pro persona, non pro auctoritate.
Ciononostante, la degenerazione di giudizio pro auctoritate ricorre proprio nei conflitti ambientali. In pratica, i giudizi sui conflitti ambientali offrono la cartina al tornasole della funzione “maggioritaria” o “contro-maggioritaria” dei giudici nelle democrazie costituzionali.
Diversi studi ne hanno fornito riscontro, sia sul piano dell’osservazione empirica dei processi socio-territoriali, anche con riguardo ai conflitti sulle infrastrutture fossili (cfr., per esempio, A. Barry, Material Politics: Disputes Along the Pipeline, London, Wiley-Blackwell, 2013), sia su quello dei cortocircuiti prodotti dalla legalità formale (cfr. A. Di Landro, La responsabilità per l’attività autorizzata nei settori dell’ambiente e del territorio, Torino, Giappichelli, 2018).
La legalità formale che si impone sull’ambiente genera inevitabilmente una figurazione divisiva delle concezioni territoriali della vita.
Quando i giudici sono chiamati a esprimesi su questa divisione, la loro reazione si orienta spesso in direzione della rinuncia a interrogarsi fino in fondo sul conflitto, per applicare a loro volta in modo impositivo la legalità formale come unica chiave di lettura dei comportamenti umani e via di fuga dalla complessità della realtà.
L’invocazione della legalità formale, in altri termini, traduce un gesto di autodifesa del potere.
Dura lex, sed lex, si potrà dire; ma senza dimenticare che una simile modalità ottusa di giudizio indebolisce l’autorevolezza del giudice e la sua credibilità di istituzione sociale prima ancora che normativa, perché riconosce la verità processuale nella sola forma della legge e la ragione di quella verità nelle esigenze psicologiche del giudice di scrollarsi di dosso le proprie responsabilità di contestualizzazione concreta delle vicende umane, come invece vorrebbe la Costituzione italiana con la sua grammatica dei diritti, sulla cui base giudicare “in nome del popolo” e non del potere stesso.
Lo ricordava Danilo Dolci, alla luce delle sue sofferte esperienze di ingiusta condanna penale, testimoniando con amarezza il “labirinto di tranelli” del giudicare le condotte umane attraverso la mera legalità formale del potere (D. Dolci, Processo all’articolo 4, Palermo, Sellerio, 2011).
Il Lawfare è duro e spietato verso i giudicati, ma svela la debolezza civile del giudicante, oltre che la sua lontananza intellettuale dalla Costituzione.
Michele Carducci – docente di Diritto climatico presso Unisalento
da Comune-Info