Da Crotone arriva la proposta di alcuni consiglieri che, per alcune categorie specifiche di detenuti, prospettano lavori “forzati” e gratuiti, ma l’ordinamento penitenziario individua il lavoro anche come sostentamento per il carcerato
Si torna a discutere sull’esclusione dai benefici penitenziari e dai permessi premio dei detenuti per reati di mafia e terrorismo, che non hanno mai voluto collaborare con la giustizia. Sollecitata dalla Suprema Corte, è attesa in questi giorni la discussione in seno alla Consulta in merito alla legittimità costituzionale degli artt. 4 bis, comma 1 e 58 ter ord. penit. 3 e dell’art. 2 D.L.13 maggio 1991, n. 152, che sbarrano l’uscita temporanea a queste categorie di prigionieri.
In anni recenti, sia la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che la stessa Consulta – quest’ultima con sentenza n° 253/2019 – avevano assestato duri colpi al regime penitenziario italiano che con la scusa della “guerra alla mafia” si ostina a mantenere in piedi la misura disumana e incivile dell’ergastolo ostativo.
Si riapre quindi anche il dibattito su quali possano essere gli strumenti rieducativi del condannato.
In Calabria, a Crotone, fa discutere l’iniziativa dei populisti pitagorici che per alcune categorie specifiche di detenuti prospettano lavori “forzati” e gratuiti. È la proposta avanzata da quattro consiglieri e poi avallata dall’intero consesso (tranne due consiglieri del Pd). Il progetto prevede che i detenuti della casa circondariale si occupino della manutenzione a costo zero del verde pubblico.
Manovalanza gratis per ottenere lavoro di competenza del Comune. «È un abominio. Il lavoro gratuito per i detenuti è lavoro coatto, quindi forzato. Ricordiamo che Auschwitz-Birkenau era un campo di lavoro forzato, da allora vietato dal diritto internazionale», ribattono i militanti di Liberi per Crotone, pugnace organizzazione sociale attiva sul territorio.
«Le regole penitenziarie europee impongono che il lavoro penitenziario debba essere considerato come un elemento positivo del trattamento e della formazione del detenuto perciò deve essere previsto un sistema equo di remunerazione. Il lavoro è principio fondante della nostra società e della nostra Costituzione, che lo tutela in tutte le sue forme, a partire dal diritto alla retribuzione», aggiunge Filippo Sestito, della presidenza nazionale Arci.
È vero che l’ordinamento penitenziario sancisce la partecipazione dei detenuti a progetti di pubblica utilità. Ma trattasi di percorsi virtuosi retribuiti, orientati all’acquisizione di professionalità, al reinserimento sociale e lavorativo, non allo sfruttamento.
«Di certo non ci serve condannare due volte chi paga già con la privazione della libertà personale il proprio debito con la società», concludono gli attivisti crotonesi. Contro la proposta del comune pitagorico insorgono le molte associazioni che in Calabria si occupano dell’universo carcerario.
«Usare i detenuti per la manutenzione a costo zero del verde pubblico presenta una grave falla giuridica e storica. L’idea che il lavoro renda liberi è una chiara reminiscenza dei lager – incalza Sandra Berardi presidente dell’Associazione Yairaiha – A nulla serve mistificare attraverso una retorica populista ciò che non potrà mai conformarsi a quanto dettato dalle norme fondanti. Un’attività produttiva, solo se gratificante e remunerata, può favorire l’acquisizione di un ruolo sociale e di una maggiore consapevolezza delle proprie capacità e della coscienza».
L’art. 15 dell’ordinamento penitenziario, legge 26 luglio 1975 n. 354, individua il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo stabilendo che, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurata un’occupazione lavorativa.
Svolgere un’attività produttiva, contribuisce al sostentamento del detenuto o fornisce una fonte di sostegno economico alla famiglia.
Solo in tal senso il lavoro può avere come fine ultimo la rieducazione e la risocializzazione del condannato in attuazione del disposto costituzionale secondo cui «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Ma anche da un punto di vista giuslavorista le critiche non mancano.
«Con riferimento al lavoro dei detenuti bisogna partire dall’art. 20 della legge sull’ordinamento penitenziario per cui deve essere favorito il ricorso al lavoro e alla formazione professionale. Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato – spiega Mirko Altimari, docente di Diritto del lavoro alla Cattolica di Milano – L’organizzazione del lavoro penitenziario deve riflettere quella del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale. Prescindendo dalla dubbia competenza di un Consiglio comunale a regolamentare questo ambito, la legge è chiara: non si possono usare i detenuti come manovalanza a basso (o peggio ancora nessun) costo».
Gli attivisti continuano la loro lotta per il ritiro del provvedimento. Pronte interrogazioni parlamentari alla ministra Cartabia e ricorsi giudiziari. Perché non è affatto vero che “il lavoro rende liberi”.
da DINAMOpress