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Nelle carceri italiane si continua a morire di covid-19

La storia di un detenuto costretto a passare i suoi ultimi giorni in cella dice molto di un sistema che non protegge né chi ci lavora né chi ci è rinchiuso.

L’ultima volta che Daniela Ernesti ha sentito la voce di suo marito era il 26 febbraio 2021. Alle 13.58 è squillato il telefono, la chiamata arrivava dal carcere di Orvieto. Erio Pettinari, 62 anni, le aveva telefonato anche qualche ora prima e il motivo era sempre lo stesso: non stava bene. Da qualche giorno era scoppiato un focolaio di covid-19 nella struttura umbra ed Ernesti temeva per la salute del marito. Aveva ragione di preoccuparsi.

La sera del 27 febbraio Pettinari è stato portato all’ospedale di Terni: “Polmonite sars-cov-2 relata”, si legge nel verbale di ricovero. Il giorno prima, al telefono, non sapeva nemmeno di essere positivo. Tre settimane dopo, il 22 marzo, è morto da solo nell’ospedale di Terni, dov’era stato trasferito d’urgenza.

“Lo stato non ha tutelato mio marito”, denuncia Ernesti, 60 anni, paziente oncologica e disoccupata. Quando in autunno il marito era stato condannato, nel bel mezzo della seconda ondata del 2020, lei sperava che avrebbe ottenuto una pena alternativa, dice al telefono da Zagarolo, dove vive. Del resto era stato portato in carcere per vecchi reati, aveva 62 anni ed era già gravemente malato. Ma niente è riuscito a fargli evitare la galera: ha passato gli ultimi giorni della sua vita in cella, così com’è successo ad altri 18 detenuti morti di covid-19.

Dal febbraio 2020 le persone detenute che si sono ammalate sono state migliaia. Spazi stretti, poca pulizia e assenza di dispositivi di protezione individuale hanno favorito la circolazione del nuovo coronavirus molto più che all’esterno. Nel dicembre 2020 in media ogni diecimila detenuti c’erano 179 positivi, mentre fuori i positivi erano 110 ogni diecimila persone; nel febbraio 2021 c’erano 91 positivi ogni diecimila detenuti, mentre fuori il rapporto era di 68 positivi ogni diecimila persone. Alle morti dei detenuti si aggiungono quelle degli agenti della polizia penitenziaria, che sono state dodici. Nella storia di Erio Pettinari si ritrovano i limiti di un sistema che non ha saputo o potuto proteggere né chi ci lavorava né chi ci era rinchiuso. Raccontarla dall’inizio aiuta a capire perché.

La prima volta in cella e la malattia
Da giovane Erio Pettinari aveva lavorato come ambulante in un mercato rionale di Roma. Negli anni novanta aveva perso la licenza e per guadagnarsi da vivere si era messo a rubare automobili e a rivenderle con le targhe cambiate. Nel 2001 e nel 2011 era stato condannato per ricettazione, ma visto che si trattava di reati non particolarmente gravi e di condanne brevi, le pene gli erano state sospese.

Nel 2013 invece l’avevano arrestato in flagrante mentre rubava un’auto ed era entrato per la prima volta in carcere, in attesa del processo. A Rebibbia però era rimasto poco. Lamentava dolori lancinanti alla testa, causati dalla sindrome rara di cui soffriva, la Arnold Chiari, una malformazione cranica caratterizzata dalla discesa della parte inferiore del cervelletto nel canale spinale, tanto da provocare la riduzione o il blocco del passaggio del fluido cerebro-spinale.

“Non ci sono medicine per curarla, può essere asintomatica o comportare forti mal di testa, difficoltà a camminare, insensibilità alle mani e ai piedi, percezione di scariche elettriche su tutto il corpo”, spiega Carlo Celada, presidente dell’Associazione italiana siringomielia e Arnold Chiari. “È una malattia che può rendere difficile la vita di tutti i giorni”. Celada dice che “per chi è sintomatico è difficile che i problemi passino, il più delle volte ci si porta dietro un malanno che si aggrava con l’età”.

A leggere i certificati medici di Pettinari sembra che la sua malattia sia stata segnata da questa traiettoria. Era anche lui sintomatico, nel 2007 l’avevano operato alla testa per cercare di alleviare i sintomi, ma il suo stato di salute peggiorava in modo costante. Quando ha messo per la prima volta piede a Rebibbia aveva 54 anni e, visti i dolori, dopo qualche mese gli avevano fatto delle risonanze magnetiche. I risultati avevano convinto il magistrato prima a trasferirlo ai domiciliari e poi, nel febbraio 2014, a liberarlo in attesa della sentenza definitiva.

L’Arnold Chiari peraltro non era l’unica malattia di cui soffriva. Nel tempo aveva dovuto fare i conti con delle ernie e delle ischemie. Nel 2018, dopo aver perso un figlio di 25 anni per un linfoma, alle sofferenze fisiche si erano aggiunte quelle psicologiche, con vuoti di memoria e difficoltà a parlare. I certificati medici parlano di “sindrome depressiva reattiva di entità severa”. Per le sue patologie aveva un’invalidità del 67 per cento, ma nel 2020 aveva chiesto l’aggravamento.

Non ha fatto in tempo a ricevere la risposta perché intanto era arrivata la sentenza definitiva, e così la notte del 19 ottobre 2020 Pettinari è finito di nuovo in carcere, questa volta a Orvieto. Oltre ai quattro anni e dieci mesi per i reati del 2013, il procuratore generale aveva ripristinato anche le pene che gli erano state sospese in passato, e così per il cumulo di pena gli anni erano saliti a otto.

Pettinari ha avuto un crollo e dopo appena una settimana nel carcere umbro ha tentato il suicidio. Non era la prima volta che provava a togliersi la vita. Tutto faceva pensare che potessero essere concesse misure alternative alla detenzione, ma così non è stato.

Il contagio in Italia
Intanto, in tutte le carceri d’Italia i contagi si moltiplicavano in maniera preoccupante. Per evitare il peggio il ministero della giustizia ha approvato una serie di provvedimenti che hanno diminuito le carcerazioni preventive e permesso di finire di scontare pene per reati non gravi a casa o in comunità. In totale, nell’anno della pandemia, i detenuti sono passati da 61mila – per circa 47mila posti disponibili – a 53mila.

Ma i provvedimenti, oltre a generare molte polemiche, non hanno risolto il problema del sovraffollamento cronico delle carceri in Italia, e così i contagi alla fine del 2020 sono cresciuti.

Alla metà dell’ottobre 2020, quando Pettinari è stato portato a Orvieto, i positivi nelle carceri italiane tra detenuti e agenti erano circa 200. A dicembre dello stesso anno quasi duemila. Nel febbraio 2021, quando nella struttura umbra è scoppiato un focolaio, più di mille.

Il focolaio in Umbria
A Orvieto le cose hanno cominciato a precipitare il 20 febbraio, quando ai tamponi sono risultate positive 13 persone: otto agenti della polizia penitenziaria, quattro detenuti e un medico. Nel giro di pochi giorni i casi erano 47, 22 tra il personale penitenziario e 25 tra i detenuti, di cui due gravi. Erio Pettinari era uno di loro. Inizialmente era stato messo in isolamento perché era stato a contatto con un positivo. “Il tampone rapido era risultato negativo, poi gli hanno fatto il molecolare”, racconta Daniela Ernesti. “Continuava a lamentarsi. Quando ci siamo sentiti, il 26 febbraio, stava male ma ancora non sapeva di essere positivo”.

La sera del 27 febbraio Ernesti riceve una chiamata dall’ospedale di Terni: il marito è arrivato in ambulanza dopo che l’hanno trovato nella cella privo di sensi, con del sangue per terra. “Ha un polmone liquefatto”, le dice un medico. “Non sono mai più riuscita a parlargli né a vederlo. Ha passato tre settimane ricoverato, poi il 22 marzo è morto”, racconta. Quando Ernesti raggiunge l’ospedale il medico legale le conferma il decesso per covid-19.

Erio Pettinari è solo uno dei tanti morti di coronavirus delle carceri italiane. Scorrendo la lista di chi non ce l’ha fatta ci si imbatte in storie di tutti i tipi: un detenuto di 82 anni con patologie croniche è morto nel carcere di Livorno; uno di 76 anni, cardiopatico, diabetico e con problemi polmonari non ce l’ha fatta a Bologna; uno di 56 anni era malato terminale ma ha passato i suoi ultimi giorni a Opera. E così via, in una conta che riguarda carcerati due volte vulnerabili di fronte al virus, perché in molti casi anziani e malati.

“Il carcere è un luogo dove in generale ci si ammala, è un luogo patogeno, e le condizioni sanitarie dei detenuti sono peggiori di quelle dei cittadini liberi”, dice Claudio Paterniti, ricercatore dell’associazione Antigone. “La salute dipende anche dalle condizioni socioeconomiche, e in galera sono quasi tutti poveri e con tassi d’istruzione bassi. Il covid-19 ha aggravato una situazione già difficile. Ci si è trovati di fronte alla necessità di bilanciare diritto alla salute ed esigenze di sicurezza. La soluzione più ricorrente è stata quella di tenere i detenuti in cella, mentre si poteva fare più ricorso alle misure alternative. Ricordiamoci che la costituzione parla di pluralità delle pene, ma è stato fatto troppo poco”.

Da quando è scoppiata la pandemia 18 persone ne hanno pagato le conseguenze, morendo. Paradossalmente, Pettinari non è conteggiato tra loro. Il 5 marzo, mentre era in ospedale, il magistrato di sorveglianza ha infatti emesso un’istanza di scarcerazione. E così, formalmente, Pettinari è morto da uomo semi-libero, quella libertà che la famiglia chiedeva da tempo proprio per evitare il peggio.

da Internazionale