Le inchieste contro i leader di Podemos, la persecuzione dell’indipendentismo catalano e la destra negli organismi giudiziari sono segnali di un potere conservatore che usa gli apparati dello Stato per bloccare qualsiasi cambiamento
intervista di Nicola Tanno a Pedro Vallín
La politicizzazione del sistema giudiziario e delle forze di polizia sono al centro di un dibattito crescente in Spagna. I continui procedimenti penali contro i leader di Podemos, la persecuzione giudiziaria contro l’indipendentismo catalano e la perenne maggioranza di destra negli organismi giudiziari sono segnali di un potere conservatore che usa gli apparati dello Stato – in sinergia coi mezzi di comunicazione – per bloccare qualsiasi cambiamento profondo della struttura istituzionale. A tal proposito anche nel paese iberico si parla sempre più spesso di lawfare, un concetto emerso negli ultimi anni in Sud America consistente nell’uso indebito di strumenti giudiziari e informativi per la distruzione dell’avversario politico – come avvenuto in Brasile contro Lula e Dilma Roussef. Su questi temi – la partecipazione attiva degli apparati dello Stato nella battaglia politica contro la sinistra e l’indipendentismo catalano – riflette Pedro Vallín in uno dei saggi più commentati degli ultimi tempi, C3PO en la corte del rey Felipe. La guerra del Estado Profundo español contra la democracia liberal (Arpa). Nel suo testo Vallín, notista politico del quotidiano barcellonese La Vanguardia, seppur con uno stile smaliziato e continue citazioni cinematografiche (da qui viene il nome del volume), denuncia il rapporto contaminato tra giustizia e mezzi di informazione. L’autore ha risposto ad alcune domande di Jacobin Italia.
Il tuo libro usa una categoria piuttosto discussa, quella di «Stato profondo» o «Deep State», che in Italia è nota soprattutto per l’uso che ne ha fatto Donald Trump. Era lui, infatti, che accusava i funzionari dello Stato statunitense di tramare contro la sua azione politica. Tu rifuggi da qualsiasi lettura complottista e anzi affermi che lo Stato profondo in Spagna non risponde a piani prestabiliti ma che al contrario opera meccanicamente e nel rispetto della legge. Dunque, da chi è composta questa entità e in che modo spiega ciò che sta accadendo in Spagna negli ultimi anni?
È importante capire che mentre la democrazia spagnola esiste da quarant’anni, è da mezzo millennio che opera un apparato statale spagnolo. Questo apparato funziona per inerzia, ha dei valori propri e reagisce automaticamente verso quelle che percepisce come minacce. Non risponde direttamente alla politica. Il patto costituzionale del ’78 fu capace di contenere il potere di questa struttura, ma negli ultimi dieci anni tutta una serie di accordi consensuali della politica spagnola sono venuti meno e hanno bloccato il processo di ammodernamento delle istituzioni. Questo «Stato profondo» davanti al Procès indipendentista catalano e a Podemos ha reagito con spirito di conservazione in un modo che non sempre si è rivelato compatibile con la democrazia. Non solo: è stata la stessa politica a delegare all’apparato statale (giudici e polizia soprattutto) la soluzione dei problemi politici, con effetti perniciosi per tutto il sistema democratico. Ma è bene sottolineare che lo Stato profondo non è uno Stato deviato. Quando parlo di «Deep State» non mi riferisco alle pur numerose azioni illegali commesse da settori della polizia contro indipendentisti e sinistra, ma ad azioni di tipo reazionario commesse nel rispetto della legge.
Accusi la grande stampa centrista di aver reagito in maniera isterica di fronte all’ascesa di Podemos dando sponda all’estrema destra e alla guerra giudiziaria. A riguardo fai un paragone con la Francia di Vichy, dove i moderati e liberali si piegarono al fascismo. Come spieghi che i grandi mezzi di informazione e gli intellettuali più importanti siano stati così chiusi davanti un programma politico – quello della sinistra – che tu reputi tutto sommato moderato?
La demonizzazione di Pablo Iglesias e di Pedro Sánchez è avvenuta principalmente da parte di settori moderati e progressisti, non dall’estrema destra. Prima di candidarsi, Iglesias era noto a tutti come opinionista de La Sexta ma fece capire da subito che non era un tipo addomesticabile. Sánchez, da par suo, venne fatto fuori nel 2016 dal gruppo dirigente del Psoe per il suo rifiuto di consentire al Pp di governare in minoranza. Nessuno dei due deve niente ai grandi gruppi massmediatici di centrosinistra. E da qui si spiega il «sequestro» del voto del 2015, quando già era chiaro che era possibile l’alleanza Psoe-Podemos. Con l’obiettivo di eliminarli politicamente sono stati lanciati in pompa magna Albert Rivera – ex-leader del partito liberale Ciudadanos – e Íñigo Errejón – tra i fondatori di Podemos e fautore di una scissione interna – presentati a tutti come i bravi ragazzi che avrebbero modernizzato la società spagnola. Ma gli elettori sono cocciuti e hanno ripetutamente bocciato queste alternative. Solo che questo processo ha generato effetti perversi. Da una lato si è dovuto aspettare quattro anni e quattro elezioni per veder nascere il Governo di coalizione, e dall’altro, trattando come estremiste le posizioni moderate e keynesiane di Iglesias, la «Spagna di Vichy» ha via via legittimato il clerico-fascismo di Vox trattandolo come qualcosa di accettabile.
Sottolinei il fatto che a differenza di altri Stati europei, in Spagna il partito dell’estrema destra in ascesa, Vox, non è rappresentativo tanto della piccola borghesia spaventata ma piuttosto di alti funzionari dello Stato. Questo ha a che fare col funzionamento dello «Stato profondo»? E come si spiega questa differenza nella struttura sociale di Vox?
Ha a che fare con Podemos e con l’indipendentismo catalano. Il Procès ha generato una reazione di autoconservazione dello Stato che politicamente si è trasformato in puro nazionalismo spagnolo – un nazionalismo profondamente anti-catalano e anti-basco. Mariano Rajoy [ex-presidente del Governo tra il 2001 e il 2018, ndr] ha commesso il grave errore di assegnare a giudici e polizia la responsabilità di risolvere un problema politico. Questo ha accresciuto la convinzione dello «Stato profondo» – giudici, avvocati dello Stato, alti funzionari, militari – di dover partecipare alla vita politica, e Vox è la traduzione di questo fenomeno. Se uno osserva la composizione sociale del gruppo parlamentare di questo partito non troverà commercianti e piccoli proprietari agricoli – le vittime della globalizzazione – ma i rappresentanti dello «Stato profondo» come magistrati in permesso, membri della riserva militare o anche rentier con stretti rapporti con lo Stato. Tutto ciò differenzia molto Vox dagli altri partiti dell’estrema destra europea.
L’indipendentismo catalano, per l’appunto, è stata l’altra vittima della guerra giudiziaria. Ciò che sorprende è che lo Stato spagnolo, pur potendo avvalersi di strumenti giuridici sufficienti e garantisti, abbia invece preferito compiere vere forzature delle garanzie costituzionali. Valgano come esempio il ruolo del Tribunale Costituzionale di «guardiano» che impedisce al Parlamento catalano di discutere liberamente il proprio ordine del giorno, la decisione di svolgere il processo a Madrid e non Barcellona o l’impedimento ai dirigenti condannati di svolgere il ruolo di deputati. Perché lo Stato spagnolo ha scelto questa via, che pure rischia di generare annullamenti per parte del Tribunale dei Diritti Umani?
Esiste la tentazione di trovare risposte nella «leggenda nera» della Spagna. Si dice che Franco avrebbe potuto terminare vittoriosamente la Guerra Civile del ’36 molto prima di quanto non accadde, ma non volle perché il suo obiettivo non era conquistare il potere ma eliminare tutti i «nemici» della Spagna – che in fondo sono gli stessi di oggi: rossi e separatisti. In questo senso si può dire che la sentenza del Procès si adatta a questo stereotipo. Il tema portante del processo ai leader indipendentisti è stato sulla punizione più esemplare e se dunque il reato compiuto fosse stata la ribellione o la sedizione. A mio giudizio vi era stata solo disobbedienza e l’incandidabilità sarebbe stata la sanzione coerente con i fatti accertati. E invece si è preferito trattare i dirigenti indipendentisti come dei pericoli pubblici. Non bisogna dimenticare neanche quanto accadde in giro per la Spagna nei giorni del referendum del 2017, quando vennero proibiti dalla magistratura atti di solidarietà verso gli indipendentisti, un qualcosa che ricorda uno stato d’eccezione antidemocratico.
Uno degli elementi chiave per capire il sistema politico spagnolo è il Psoe. È forse il partito che più ha creduto all’accordo che ha dato vita alla Costituzione de 1978 e da quarantacinque anni si comporta come un partito-istituzione. Il Psoe conosce lo «Stato profondo», ha applicato il neoliberismo e ha sempre difeso la monarchia. Tuttavia è anche un partito che è stato ed è vittima di lawfare (accusato di nascondere la verità dell’attentato terrorista del marzo del 2004 o della pericolosità del Covid19). Come si spiega questo equilibrio? Fino a quando il Psoe potrà continuare a essere il pilastro del Regime del ’78 e allo stesso tempo essere bersaglio della destra?
Dice Enric Juliana [vice-direttore de La Vanguardia, ndr] che il Partito Socialista è l’unico Partito di Stato. Tuttavia a me pare che l’atteggiamento del Psoe non è di chi ha intenzione di riformare e modernizzare le istituzioni ma piuttosto di chi non vuol causare problemi. Si comportano come dei guardiani di una seconda casa che non è loro. La famiglia – il Psoe – ci vive tutto l’anno ma sa che quella casa non gli appartiene, che d’estate verranno i veri proprietari – l’apparato dello «Stato profondo». E quindi in quella casa non può o non vuole cambiare niente. Il Ministro degli Interni, l’ex giudice Fernando Marlaska, è cosciente dell’infiltrazione di settori dell’estrema destra nella polizia? La Ministra della Difesa, l’ex giudice Margarita Robles, sa che l’esercito è pieno di fascisti? Sì, lo sanno, ma non fanno nulla per risolvere il problema e non vogliono neanche denunciarlo. Questo atteggiamento ha effetti perniciosi non solo per lo Stato ma anche per il Psoe stesso. Se i socialisti capissero che lo Stato è «loro» – e lo dico nel miglior senso possibile – capirebbero che è fondamentale migliorare la qualità di tutto l’organico dello Stato: poliziotti, militari, giudici, medici ecc. E invece il Psoe si comporta come se non succedesse nulla o se nulla potesse fare. Faccio un esempio per farlo capire meglio. Le operazioni degli agenti antisommossa della polizia presso il quartiere popolare di Vallecas, a Madrid, sono molto diverse da quelle nei quartieri più ricchi della città, come nel quartiere Salamanca – dove la destra in pieno confinamento ha dato luogo a grandi proteste contro il Governo senza nessun intervento delle autorità. Le sezioni del Psoe dei quartieri popolari hanno presentato diverse proteste interne al partito per il comportamento della polizia ma il Governo sembra non voler far nulla al riguardo.
Al contrario dell’Italia, i partiti in Spagna continuano a essere pilastri della vita politica. Molte di essi – non solo il Psoe e il Pp, ma anche il catalano Erc e il basco Pnv – sono strutture antiche, organizzate e gerarchiche. Lo si è visto in occasione della grazia ai dirigenti indipendentisti, dove due partiti vecchi 142 e 81 anni – il Psoe e Erc – hanno realizzato un accordo tutto politico annullando una sentenza penale. In realtà il partito liquido esiste soprattutto a sinistra. Come valuti questa presenza duratura e imponente dei partiti politici spagnoli?
A me pare che non ci sia una coincidenza tra organicità dei partiti e forza elettorale, che poi è ciò che conta veramente. Nelle recenti elezioni della Comunità di Madrid la capillare presenza del Psoe sul territorio non gli ha permesso di evitare un pessimo risultato. E la candidata di Más Madrid, Mónica García, è giunta seconda solo grazie al suo personaggio. Lo stesso si potrebbe dire a livello statale, dove Pablo Iglesias nelle seconde elezioni del 2019 – convocate per distruggere una volta per tutte Unidas Podemos – è riuscito a salvare il suo partito solo per via del suo carisma. E parliamo di un partito che dalla sua fondazione discute di come radicarsi territorialmente. Da par suo Izquierda Unida è tutt’ora molto presente sul territorio ma quanto vale? Pochi anni fa aveva un solo deputato e moltissime sedi. Podemos, invece, è vero che è poco radicata ma gode di una decina di migliaia di militanti irriducibili e finanche nei referendum interni più inutili partecipano molte più persone che negli altri partiti. Riguardo al Psoe direi che crede di essere una struttura eterna ma nulla lo è, anche i grandi partiti prima o poi finiscono. Ci si dimentica a volte che pochi anni fa il Psoe è stato a un passo dal vivere lo stesso destino del Pasok greco.
Nonostante le operazioni di lawfare contro la sinistra, assistiamo al passaggio della leadership da un personaggio divisivo e conflittuale come Pablo Iglesias a uno molto più trasversale e dialogante come Yolanda Díaz. Quest’ultima ha conquistato consensi grazie ai molti accordi per l’estensione della cassa integrazione e fa continuo appello al dialogo e alla protezione sociale. Possiamo dunque dire che è finita del tutto la fase del populismo di sinistra?
Io la vedo in maniera differente. A Podemos è stata molto utile la personalità di Iglesias: rocciosa, virile, basata su atteggiamenti molto maschili, di resistenza, necessari per difendersi dagli attacchi che Podemos ha subito per terra, aria e mare. E tieni in considerazione che i voti che nel corso degli anni Unidas Podemos ha perso in Spagna e nelle diverse Comunità Autonome non sono stati riconquistati dal Psoe ma da altre formazioni di sinistra, come Más Madrid nella capitale, il Bng in Galizia e EH Bildu nel Paese Basco. Il Psoe non ha recuperato niente nel corso degli anni. Tuttavia, questa personalità di Iglesias, dopo le elezioni del 2019 in cui è riuscito a difendersi dal Psoe e da Íñigo Errejón, è diventata un limite perché ancorata a una posizione di resistenza, non di slancio in avanti per conquistare territorio. Lui stesso lo ha ammesso quando si è dimesso, lamentando che la sua figura genera la mobilizzazione della destra. In questo senso la figura di Yolanda Díaz [Ministra del Lavoro, ndr] ha la capacità di tornare al clima del 2015, ovvero di conquistare la maggioranza dell’elettorato e non solo di difendere il progetto dagli attacchi della destra. Lei ha grandi capacità negoziatrici, un certo fascino personale che conquista anche chi è diverso da lei, come dimostrano i tanti accordi che ha siglato con le parti sociali. E credo che abbia una certa presa anche verso l’elettorato più anziano del Psoe. A mio avviso nelle prossime elezioni potrebbe ottenere più voti di Pedro Sánchez e conquistare l’egemonia nel quadro politico spagnolo.
Pedro Vallín è notista politico del quotidiano La Vanguardia. Nicola Tanno è laureato in Scienze Politiche e in Analisi Economica delle Istituzioni Internazionali all’Università La Sapienza di Roma. Vive e lavora da anni a Barcellona.