E’ venuta a mancare Carmen de Min, compagna del Movimento, combattente comunista, antifascita e Madre antifascista del Leoncavallo, figura storica una rivoluzionaria, sempre piena di energie.L’ultimo saluto a Carmen sarà Martedì 8 Febbraio alle ore 14:30 in Villa Pallavicini, via privata Antonio Meucci, 3
Pubblichiamo questo articolo biografico scritto da Adriana Maestrelli Meyer per l’«enciclopedia delle donne»
Sono nata nel 1934 in un paese della provincia di Belluno, vicino a Vittorio Veneto. Durante la guerra ne ho viste di tutti i colori. Era un paese a 700 metri lungo la Val D’Alpago, un posto pieno di partigiani che combattevano sulle montagne nei dintorni.
La mia famiglia era antifascista da un mucchio di tempo. Se penso alla violenza che le SS e le camicie nere facevano nella mia zona, mi viene ancora oggi da rabbrividire… Gli uomini dai 16 ai 45 anni erano tutti spariti, o li internavano nei campi di concentramento in Germania o se li portavano via per lavorare nelle loro fabbriche. Mio padre era ormai anziano e non gli fecero nulla, così ai miei fratelli in quanto molto giovani. Ma cugini, zii, amici e conoscenti scomparvero nel giro di pochi mesi nell’autunno del 1943. Molti non sono più tornati.
I partigiani che scappavano dalla pianura venivano spesso a rifugiarsi nelle grotte dalle mie parti, mio padre li aiutava a trovare i nascondigli più sicuri. Non c’era abbastanza da mangiare neanche per noi, eppure un po’ di polenta dovevamo sempre avanzarla per qualche partigiano. Ma c’erano delle spie in paese e più di una volta fummo prelevati dai fascisti dentro casa e poi costretti ad andare contro un muro con i mitra puntati addosso. Rivolgevamo loro la schiena e sentivamo caricare le armi… Volevano sapere dove erano nascosti i partigiani. Fingevano di ucciderci come in un plotone di esecuzione. Al muro mia madre, mio padre, i miei fratelli più piccoli e io.
Per forza sono cresciuta antifascista convinta !! Nel dopoguerra mi sono trasferita in Svizzera per lavorare e verso l’inizio degli anni Sessanta sono arrivata a Milano. Mia figlia Ornella era nata nel 1957 e Manuela nel 1958. Nel 1962 mi sono iscritta al sindacato, a quei tempi partecipare all’attività sindacale non era semplice, dovevi agire in semi-clandestinità altrimenti c’era il rischio del licenziamento. La parola d’ordine di allora era: «Dobbiamo resistere due minuti più del padrone».
A Milano abitavamo in via Guerrini, non lontano dal Casoretto. Proprio sotto casa c’era una sede del Msi. Quando le mie figlie hanno cominciato a uscire da sole subivano delle provocazioni dai fascisti, dovevano sempre stare attente e io avevo i denti avvelenati. Nel 1976 tutte e due hanno iniziato a frequentare il Centro Sociale Leoncavallo, erano ancora minorenni e io stavo in pensiero. Magari tornavo tardi dal lavoro, non le trovavo e così andavo a cercarle… Le vedevo lavorare al ciclostile o fare striscioni per i cortei, non mi facevo neanche notare perché ero contenta di vederle così attive a quella loro giovane età. Ero tranquilla insomma. Manuela andava alla magistrale in piazza Novelli insieme a Iaia: pranzavamo molte volte tutte insieme prima del mio turno pomeridiano. Tante sere venivano tutti a casa mia, Iaia, suo fratello Iaio e altri giovani compagni a suonare la chitarra con le mie figlie o a organizzare riunioni e manifestazioni.
Siamo diventati così amici…Era il 18 marzo del 1978. Due giorni prima di quel sabato, il giorno dell’assassinio di Fausto e Iaio, c’era stato il sequestro di Aldo Moro e il clima, sia per le strade che sul lavoro era parecchio teso. Non mi dimenticherò mai quello che ho sentito al telegiornale: «Sono stati uccisi due ragazzi al Casoretto per un regolamento di conti tra drogati». Mi pareva strano. Solo la mattina ho saputo con sgomento che erano proprio Fausto e Iaio i compagni assassinati!«Non è vero! Non è vero!», non potevo crederci, non era possibile… Ho pianto poco, perché una rabbia micidiale mi soffocava: loro semmai stavano lavorando a un libro bianco contro gli spacciatori!
… Mi salivano alla mente gli incubi peggiori. Rivedevo le immagini del mio paese in tempo di guerra, conoscevo bene la ferocia dei fascisti. Gli assassini non potevano che essere loro, ne ero certa. Pensavo: «Adesso inizieranno a uccidere i compagni in giro per le strade…» Il telegiornale non parlava già più di Fausto e Iaio, le notizie si concentrarono esclusivamente sulle indagini per Aldo Moro… Non mi davo pace.
Dovevo fare qualcosa!
Le mie figlie mi hanno dato le loro agendine, mi sono messa a telefonare a tutti chiedendo, non del ragazzo e della ragazza, ma delle loro madri… Volevo parlare con la mamma. E parlavo, parlavo, dicevo che i giornali e la televisione raccontavano bugie. «Guardate che qui è un altra storia, c’è sotto qualcosa di brutto… Come hanno ucciso quei due ragazzi potrebbero domani farlo ai nostri figli…». La gran parte delle mamme che mi rispondevano si mettevano a piangere. «Anch’io ho paura per mia figlia, anch’io per mio figlio… Anch’io, anch’io, anch’io…» Un’angoscia, una cosa straziante, però quella sera siamo riuscite, non so come, a farci forza… Alcune hanno proposto di andare tutte insieme ai funerali con uno striscione, altre di organizzare una riunione tra noi mamme…..
Le mie figlie ed io con la mia vicina di casa ci siamo messe a fare uno striscione su un lenzuolo: «Le mamme di tutti i compagni piangono i loro figli!» Poi sono andata a ordinare una corona con la firma: «Le Mamme del Leoncavallo» e l’ho fatta portare all’obitorio, dove noi mamme avevamo l’appuntamento. Ai funerali c’era un sacco di gente. Centomila persone, molti rischiando il licenziamento perché anche i sindacati erano contro: non appoggiarono i lavoratori che volevano dimostrare, scioperare o semplicemente ottenere un permesso..
Fuori dall’obitorio, noi mamme che non ci conoscevamo ancora, ci siamo incontrate per la prima volta, davanti alle due bare di Fausto e Iaio sormontate dalla nostra corona. Poi il corteo, tutte insieme a tenere lo striscione: «Le mamme di tutti i compagni piangono i loro figli!»Nei giorni dopo il funerale le nostre riunioni continuavano ed erano sempre più numerose. Un pomeriggio ci siamo trovate in più di trecento, una più arrabbiata dell’altra… La tesi dei fascisti la sostenevamo all’unanimità, il nostro compito era quello di dirlo a più gente possibile e nello stesso tempo tranquillizzare i nostri ragazzi disperati e spaventati; erano paralizzati, vivevano nel terrore. L’assassinio di Fausto e Iaio è stata una cosa spaventosa. Molti giovani non si sono ripresi più, hanno smesso di fare politica, qualcuno ha anche cambiato zona.
Le mamme di compagni uccisi, come la mamma di Varalli, di Franceschi, di Brasili e naturalmente Danila, la mamma di Fausto, e Iaia, la sorella di Iaio e tantissime altre donne, volevamo la verità… Qualcosa cominciava a saltare fuori: i fascisti romani, la banda della Magliana, i servizi segreti deviati, il covo delle Brigate Rosse davanti alla stanza di Fausto e da tempo controllato dalla polizia. La pista fascista si faceva sempre più evidente, ma nello stesso tempo la situazione diventò difficilissima per tutti noi. Più i contorni della storia si facevano nitidi e più i nostri spazi si restringevano. Andavamo ormai tutti i giorni al Leoncavallo, e spesso a parlare con il giudice Spataro al Palazzo di Giustizia.
Per vent’anni siamo andate al Tribunale, con o senza appuntamento, per incontrare o protestare con i giudici che cambiavano in continuazione. Una volta eravamo in cento, una volta in quindici, un’altra volta in sei. Per vent’anni… Io mi sono contata persino tutti i gradini che ci volevano per arrivare all’ufficio dei giudici… 940 scalini… 940 scalini per conoscere la verità: «Chi li ha uccisi e perché». Solo questo: «Chi li ha uccisi e perché».
Poi invece purtroppo c’è stata l’archiviazione. Nelle motivazioni c’era scritto: «archiviazione nonostante ci siano i nomi di personaggi fortemente indiziati appartenenti alla banda della magliana di Roma e ai Nuclei Armati Rivoluzionari», gruppo famigerato responsabile di tante stragi di quegli anni, compresa la stazione di Bologna e nonostante alcuni volantini di rivendicazione. Sui mandanti poi non si è mai voluto nemmeno indagare. Penso che la morte di quei due giovani, avvenuta poche ore dopo il sequestro Moro, sia stata una cosa pazzesca, una ferita ancora aperta che rappresenta una tremenda svolta storica, altrimenti non si spiegherebbe come mai il 18 di marzo di ogni anno, in via Mancinelli, dove sono stati uccisi, si ritrovi così tanta gente, dopo 32 anni.
Un segno di vita per Fausto e Iaio, due invisibili per la giustizia istituzionale.
Questa è la storia per cui si è formato nel 1978 il gruppo delle Mamme Antifasciste, su mia iniziativa. Il nome ce lo ha suggerito durante un’ assemblea Lydia Franceschi, la mamma di Roberto il ragazzo della Bocconi ucciso da un poliziotto durante una manifestazione e noi siamo diventate così le MAMME ANTIFASCISTE del Leoncavallo. Il gruppo delle Mamme Antifasciste era un gruppo eterogeneo, alcune donne non avevano mai fatto politica, altre erano impegnate in attività femministe, qualcuna sindacalista, alcune laureate, altre con licenza elementare, dai 40 ai 70 anni , arrivavano da tutte le zone di Milano al Leoncavallo di via Leoncavallo, il vecchio Leo.
Davanti a tutte vedo Danila, la mamma di Fausto, mai con le spalle piegate, dignitosa nel dolore , diretta nelle accuse, implacabile contro i fascisti, in attesa ancora di giustizia. Ricordo Rosanna che negli anni 80 dall’hinterland di Milano inforcava la bicicletta , attraversava tutto il Parco Lambro anche dopo mezzanotte per tornare a casa, Luciana che arrivava da Mac Mahon con 2 ore di viaggio tra andata e ritorno, Emilia che aveva già 70 anni ed era stata combattente e partigiana, Rosa partigiana che nei momenti di tensione con la polizia si faceva mettere sul petto tutte le medaglie del marito ucciso dai fascisti, Luciana la falegnama forte e dolcissima, Francesca la più giovane con tanta voglia di fare.
E ancora: l’altra Rosa che piano piano con le sue capacità riuscì a organizzare il gruppo, a tenerlo insieme e a dargli una struttura ; Carmen 2a che esordì la prima volta in una riunione numerosa dicendo ad alta e chiara voce: «Me ciami Carmen, ma me disen Pirelli in lotta» (mi chiamo Carmen, ma sono soprannominata Pirelli in lotta). Ed Edda che, prendendo le difese di tutti i giovani e schierandosi contro i pregiudizi sente che questo è il modo migliore di proteggere i suoi 7 figli. Ho negli occhi Maria, sempre disponibile a tutte le battaglie, pur portando nel cuore il dolore di parenti e amici persi a Marzabotto.
E Adriana la memoria storica del gruppo. Ed Enrica, arrivata qualche anno dopo con la sua preziosa capacità di analisi politica e ancora, Franca pronta a battersi e sempre disponibile, Bianca sempre ricca di proposte e fantasia. E poi Maria Teresa Rossi, la professoressa del Liceo Classico Parini di Milano, protagonista del famoso caso della Zanzara.
Ma in mezzo a tante altre compagne, di due in particolare vorrei dire qualcosa di più. Una è Dina che nel ’79 ebbe l’idea di occupare, noi tutte, Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, per convincere il sindaco Aniasi a non dare piazza Duomo ai fascisti per una manifestazione. Che occupazione è stata! Una cinquantina di donne fino a notte fonda con mariti e figli fuori davanti ai cancelli e noi mamme dentro, nelle dorate stanze.
Dina ha lavorato come mamma antifascista con il primo gruppo sperimentale contro la droga di via De Amicis, dove medici, psicologi e volontari davano le sostanze, morfina e metadone a scalare ai tossicodipendenti, dimostrando che questi così riuscivano a reinserirsi nel lavoro e nella vita, senza spacciare, senza rubare e senza morire. Peccato che i nostri governanti non abbiano mai capito niente: il premio per tutta l’equipe è stata una denuncia a tutti per spaccio, compresa la nostra Dina.
Dina ha preso la licenza media negli anni 80, dovrebbe essere una laurea per la sua speciale intelligenza e apertura mentale. I suoi temi quasi sempre parlano di Fausto e Iaio, perché tutto deve essere detto e ricordato. E poi Nina, una gran donna e una donna grande, grossa, felliniana.
È una forza della natura, un gran vocione, spesso parla in milanese. La sua presenza é travolgente, spinge il gruppo ad affrontare nuovi problemi e a studiare: «a fa’ i coss, minga sta cu i man in man a ciciarà» (fare le cose, non stare con le mani in mano a discutere).
In occasione di un’intervista anni fa si è dichiarata contro la violenza ma alla domanda: «Nina, ai fascisti cosa faresti?». Con la sua solita ironia risponde: «ai fassisti, mi ghe daria quater sciaffun». Anche Nina come Dina ha preso il diploma di 3° media con le 150 ore, è una poetessa naturale, leggera e dolcissima. Nina è morta da 6 anni. In questi anni abbiamo incontrato anche donne di altri paesi: le Madri de Plaza de Mayo, le donne indiane, i senza terra brasiliani, i militanti del Chiapas, i rom di casa nostra, abbiamo ospitato immigrati “clandestini” da tutti i paesi. Li abbiamo vestiti, nutriti, incoraggiati e aiutati a ricongiungersi alle famiglie in Europa.
Abbiamo lottato per il diritto all’aborto, contro il caro vita, contro gli spacciatori, contro il nucleare, per la libera informazione, portando volantini via per via, casa per casa, instancabili. (Per esempio informando le donne dell’esistenza e dell’utilità dei consultori). E quante denunce ci siamo prese!!Oggi siamo un po’ più vecchie, però molte di noi sono presenti e attive nell’Associazione Familiari e Amici di Fausto e Iaio, e comunque tutte lavoriamo sempre per affermare l’antifascismo e i diritti dei più deboli.
Il gruppo delle Mamme Antifasciste è stata l’esperienza più bella della mia vita, della nostra vita. Noi, come tutte le donne pensiamo e sentiamo nel cuore proprio le cose che così bene hanno scritto le Mamme di Roma Città Aperta:«Le madri generano e non possono accettare che le vite dei loro figli siano spezzate: dalle lame, dalla precarietà del lavoro, ad un posto di blocco, durante una manifestazione.
Le madri generano e non possono accettare che i sogni dei loro figli siano spezzati da contratti non rinnovati, da spazi negati, dall’impossibilità di amarsi e generare. Le madri vogliono poter generare e rigenerare vite, sogni e memoria come hanno fatto le madri argentine e le madri di ogni paese violentato dalla guerra. Partendo dal sangue dei figli, un gruppo di donne si è messo in cammino.
Le Mamme Antifasciste hanno imparato dai giovani, dai loro figli, loro le hanno aiutate a crescere. Oggi, queste donne non smettono di trasmettere forza e memoria alle nuove generazioni.
Articolo pubblicato su enciclopedia delle donne
Il suo ricordo a Radio Onda d’Urto Ascolta o scarica
Prendo atto con dispiacere della scomparsa di Carmen De Min, originaria di Chies d’Alpago, territorio che conosco molto bene e su cui avevo scritto questo articolo anni fa. Tra l’altro si parla di un suo parente, il comandante partigiano Luigi de Min (“Squalo”) di Lamosano. Ricordo per i “foresti” che Lamosano, Montanes, Chies – dove c’è la sede comunale – sono praticamente contrade del medesimo paese.
In ricordo e onore del Veneto di allora, quando il popolo resisteva agli oppressori.
Ora e Sempre…
GS
ALPAGO RESISTENTE
(Gianni Sartori)
Dalla chiesa di Montanès (provincia di Belluno), dedicata a San Martino, si domina il Lago di Santa Croce. Lo sguardo si spinge dal Cansiglio al Col Visentin e alle dolomitiche pareti della Schiara.
In lontananza si distinguono il Grappa e l’Altopiano di Asiago dove “Piccoli maestri” partigiani scrissero altre pagine significative.
Tra il ’43 e il ’45 molte furono le vicende di questa conca verde circondata dalle cime suggestive di Col Nudo, Teverone, Crep Nudo, Antander, Messer…
Su alcuni episodi della Resistenza in Alpago ero stato informato dal compianto Luigi De Min di Lamosano, comandante di un battaglione della Brigata Fratelli Bandiera, nome di battaglia “Squalo” per il servizio militare svolto in Marina, nei sommergibili.
Altre notizie le avevo poi avute da Nino De Marchi (il comandante “Rolando”), autore del libro “Memorie 1943-1945”.
Per saperne di più avevo poi incontrato Carlo Barattin, classe 1925, di Montanès.
“Nel 1943 –mi spiegava- anche noi dell’Alpago siamo stati annessi alla “Grande Germania” del Reich, come l’intera provincia di Belluno insieme a quelle di Bolzano, di Trento e al Friuli Venezia Giulia. Era il territorio dell’Alpenvorland, governato direttamente dai tedeschi”.
Proprio riferendosi a questo evento Nino de Marchi affermava che “la nostra lotta fu, senza dubbio, guerra di liberazione ed anche di indipendenza”.
Racconta Carlo Barattin: “Personalmente ero già stato alla visita di leva italiana, ma nel novembre ’43 venni richiamato dai tedeschi. A Montanès eravamo in 8 del ’25 e in un primo momento non ci presentammo. Poi, minacciati dal Podestà (sosteneva che in tutto l’Alpago solo noi non ci eravamo presentati), andammo a Puos per la visita. Ripensandoci è stato un errore. Da quel momento avevano nomi e cognomi precisi di ogni renitente e se ti prendevano eri spacciato”.
La cartolina arrivò dopo quindici giorni e “noi abbiamo preso la corriera verso Ponte nelle Alpi. D’accordo con l’autista siamo scesi in una zona disabitata e per due mesi siamo rimasti nascosti nei boschi”.
A questo punto il gruppo di renitenti decise di integrarsi nella Resistenza, alcuni in Cansiglio, altri in Alpago. Qui operava la Brigata Fratelli Bandiera comandata da Nino De Marchi, ex ufficiale di Artiglieria Alpina. In seguito De Marchi doveva diventare il comandante della Brigata Nino Bixio. Nella piana del Cansiglio si era insediato il Comando di Divisione Nino Nanetti (dedicata ad un esponente delle Brigate Internazionali caduto, con il grado di generale, sul fronte basco al comando di una divisione dell’Esercito popolare) che comprendeva le brigate del Gruppo Vittorio Veneto: Cairoli, Fratelli Bandiera, Bixio (con i battaglioni Manara, Nievo e Manin) oltre alle brigate Mazzini, Tollot e Piave.
“Ad un certo punto –continua Carlo Barattin- ci siano spostati a Pian Cajada, sopra Longarone e Fortogna, dietro il monte Serva. Poi siamo andati alle casere Stabali, sotto al Monte Dolada e al Col Mat, verso Venal di Montanes. Con noi c’era anche il comando del CLN. Ricordo che con Giorgio Betiol e Attilio Tissi dovevamo fare la guardia ad un gruppo di tedeschi. Grazie al parroco di Padola, don Weiss, organizzammo uno scambio di prigionieri alle “paludi”, vicino al canale sotto Tignes. Noi abbiamo consegnato otto tedeschi e contemporaneamente, in base all’accordo, a Bolzano venivano liberati alcuni prigionieri dal campo di concentramento”.
Naturalmente nel gruppo dei giovani partigiani “c’era un po’ di paura. Noi eravamo in quattro (più il parroco) con otto prigionieri. Di fronte, in mezzo alla strada, c’era un maresciallo tedesco con quattro soldati”. Carlo ricorda che in quel periodo vennero attaccati il presidio di Puos, quello di Bastia e di Santa Croce. Una volta un attacco è fallito perché “dovevamo attraversare un ghiaione e il rumore dei sassi che cadevano ha messo in allarme i nemici che hanno cominciato a sparare”.
Un evento particolare nella storia dell’Alpago è rappresentato dall’arrivo del maggiore Harold William Tilman. Del mitico comandante della missione alleata Beriwind, conosciuta come Simia, mi avevano parlato sia Luigi De Min che Nino De Marchi.
Nato nel 1898, Tilman,noto alpinista-esploratore con esperienze himalaiane, viene ricordato per la prima ascensione del Nanda Devi nel 1936, all’epoca la più alta vetta mai raggiunta. Al suo attivo scalate sui monti Kenya, Ruwenzori. Kilimanjaro e in Patagonia, oltre a tre tentativi sull’Everest.
In Alpago e Cansiglio Tilman manteneva i collegamenti con le truppe sbarcate nel sud d’Italia e garantiva la possibilità di ricevere rifornimenti paracadutati dagli aerei.
Carlo fece parte del gruppo incaricato di incontrare Tilman (arrivato a piedi dall’Altopiano di Asiago dove era stato paracadutato pochi giorni prima) e di portarlo in Alpago.
“Siamo andati a prenderlo sul Piave, nella zona tra Castion e Sagrogna, nel maggio del 1944, di notte. Durante il ritorno, eravamo appena arrivati a Puos e ci eravamo fermati per riposare, è iniziato l’attacco di un altro gruppo di partigiani al presidio. Naturalmente siamo ripartiti immediatamente”.
Tilman rimase a lungo con il gruppo di Carlo esplorando le vette circostanti. In particolare “cercava un passaggio da utilizzare per sfuggire ai rastrellamenti raggiungendo Cimolais e la valle del torrente Cellina (in Friuli) attraverso i monti”. Spesso queste esplorazioni si concludevano in piena notte. Del maggiore ricorda anche che “in pieno inverno scendeva dal Col Nudo (quota 2471) e per lavarsi si tuffava nell’acqua gelida”.
Tilman “riceveva e trasmetteva in codice, senza che neppure il marconista, un toscano, potesse comprendere. L’interprete era un tenente di artiglieria di Trento”.
Ai partigiani era affidato il compito di recuperare i piloti inglesi e americani colpiti dai tedeschi. Racconta che “ne avevamo sempre una dozzina nascosti. Una volta in Cansiglio cadde una fortezza volante; tre piloti morirono, ma altri tre sopravvissero. Tra questi c’era un capitano di nome Tom”. A Montanès si ricordano anche di un certo “Tech”. Rimasero tutti nascosti per mesi nelle casere sopra il paese.
“Un altro pilota –prosegue Carlo- lo abbiamo recuperato in Fadalto, vicino al Lago di Santa Croce. La vita non era facile. C’era poco da mangiare e non era semplice procurarsi del cibo”.
Inizialmente i paracadute venivano bruciati “poi li usammo per fare delle camicie”.
Ogni tanto “i piloti sparivano. Tilman trovava il modo di mandarli verso Venezia, verso Trieste, verso il mare…dove venivano recuperati”. E’ significativo che dopo la guerra alcune famiglie di Montanès abbiano avuto un riconoscimento benemerito dalla RAF.
Bisognava inoltre recuperare il materiale paracadutato dagli aerei. I “lanci” avvenivano soprattutto in Cansiglio e Pian Cavallo, dove era facile nascondere le armi e i viveri nelle numerose cavità naturali.
Luigi De Min mi aveva raccontato di quando con Tilman aveva risalito il Venal di Montanès fino al Passo di Valbona, tra il Col Nudo e la Cima della Pala del Castello per poi inoltrarsi lungo il sentiero impervio delle Landres Negres, già nel Friuli. Al ritorno il maggiore si levò il giubbotto e con quello scese per il ripido pendio ricoperto di neve “come se fosse sopra ad uno slittino”.
Ma anche i tedeschi erano alla ricerca del passaggio.“Una volta –racconta il nostro interlocutore-prelevarono alcune persone a Montanès tentando di raggiungere il Passo di Valbona con i muli”. Sembra che siano riusciti ad “arrivare fino a Claut, forse a Barcis. Uno dei sequestrati è riuscito a scappare: gli altri due poi sono stati rilasciati…era solo un giro di esplorazione”.
Ben più grave quella che accadde durante un rastrellamento quando “i tedeschi arrivarono da Farra, mentre il nostro gruppo si trovava a Col Indes (sopra Tambre). Il primo morto lo hanno fatto a Sant’Anna dove allora c’era soltanto la malga”. Era l’epoca dei grandi rastrellamenti che colpirono anche sulle montagne vicentine: dalla valle di Posina (in agosto, Malga Zonta), all’Altopiano (ne parla Meneghello in “Piccoli maestri”), al Grappa. Poi, in settembre, toccò al Cansiglio e all’Alpago. Durante il rastrellamento del settembre 1944 i tedeschi “hanno ucciso anche alcuni malgari in Val Salatis, la valle che risale verso il Monte Cavallo. A Spert i partigiani catturati e uccisi sono stati appesi ai ganci, esposti come in una macelleria”.
Carlo ricorda con commozione anche un’altra vittima dei nazifascismi, il “Comandante Zero”, originario da Soccher, del battaglione Piave. Era stato fatto prigioniero e avrebbe dovuto portare i soldati in Venal di Montanès, alle casere Stabali dove erano nascosti i partigiani e il comando del CLN. Finse di sbagliar strada portandoli in Venal di Funès, sull’altro versante del Teverone. Naturalmente “quando si resero conto di essere stati ingannati i tedeschi lo ammazzarono. Il corpo del comandante Zero venne ritrovato nei boschi da Tilman, vicino alla Crosetta. Noi pensavamo che dopo la cattura fosse stato deportato. Con il suo sacrificio –sottolinea – ha salvato una cinquantina di persone, tutte quelle che in quel momento si trovavano a Stabali”.
E prosegue ricordando che “nel gennaio del 1945 da Tambre vennero deportate una cinquantina di persone, in maggioranza renitenti. Alcuni finirono a Mathausen e solo tre o quattro ritornarono a casa. Uno in particolare ritornò distrutto psicologicamente. Nel campo di concentramento era stato costretto a bruciare i cadaveri dei suoi compagni”.
Il 20 febbraio alla casera di Montanès venne ucciso Vittorio Barattin (nome di battaglia Faè) un partigiano amico e coetaneo di Carlo. L’episodio è stato raccontato anche da Nino De Marchi. In quel momento il comandante partigiano si trovava proprio a Montanes dove era stato mandato per riorganizzare la sua vecchia brigata, la “Fratelli Bandiera”.
“Quel giorno a Montanès i tedeschi avevano rinchiuso nelle stalle una trentina di civili che sicuramente sarebbero stati uccisi per rappresaglia se ci fosse stato uno scontro a fuoco, se Nino avesse tentato di sganciarsi combattendo”. Invece il “comandante Rolando”, rischiando di essere catturato, riuscì a restare nascosto durante il rastrellamento e le perquisizioni. Alla fine i tedeschi se ne andarono senza distruggere il paese.
Lorenzo Barattin, anche lui del ’25, ricorda che “la sera prima avevo dormito nella casera di Montanès con mio fratello e con Vittorio , ma per ben tre volte avevo fatto un sogno angoscioso. Entrava nella casera un cacciatore e si metteva a dormire vicino a noi. Sempre lo stesso sogno per tre volte. Ne parlai con mio fratello e decidemmo di traslocare”. Invece Vittorio aveva incontrato in paese alcuni partigiani e rimase con loro nella casera. “Morì –racconta-per una pallottola che entrò dalla spalla e forò il polmone”.
Finita la guerra, nonostante avessero partecipato alla Resistenza (“pagando il prezzo del biglietto di ritorno alla democrazia”) Carlo, Lorenzo e altri partigiani dell’Alpago furono obbligati a fare anche il militare. Poi se ne andarono a lavorare in Svizzera, in Francia o in Belgio.
Quanto a Tilman, l’ultima immagine che Carlo conserva è quella del maggiore mentre sale su una jeep americana a “la Secca”, sulla strada che collega Vittorio Veneto a Ponte nelle Alpi. La sua vita avventurosa si concluse nel 1977 quando, navigando verso le isole Falkland, scomparve misteriosamente nell’Oceano Atlantico.
Gianni Sartori