Sono 170 i prigionieri di coscienza attualmente in carcere in Nicaragua per aver violato una serie di leggi inventate ad hoc dal regime orteguista all’indomani della rivolta popolare del 2018, convertendo di fatto il paese in uno stato di polizia.
Di essi 14 sono donne, delle più differenti estrazioni politiche: la più giovane Samantha Jirón, 22 anni appena compiuti in cella dopo che nel novembre scorso era stata arrestata per aver documentato via twitter e whatsapp la farsa elettorale che ha perpetuato per la quarta volta consecutiva il “fu” comandante Daniel Ortega al potere. Per lei è stata chiesta una condanna a otto anni per “cospirazione ai danni dell’integrità nazionale”.
«Ho lottato per la libertà e la democrazia del mio paese; sono innocente». Così ha ribattuto in tribunale Samantha, attivista dell’amplia coalizione oppositrice Unidad Nacional Azul y Blanco e che era stata pure fra le studentesse che avevano partecipato alla ribellione di tre anni orsono, soffocata nel sangue con almeno 325 vittime.
Delle altre detenute politiche che hanno sfidato il clan familiare degli Ortega, diverse hanno o sfiorano i settant’anni; come Violeta Granera, la più anziana, che in cella ha perso già venti chili oltre che quasi tutti i denti. O Cristiana Chamorro, temibile sfidante presidenziale prima che nel giugno scorso fosse posta (per sua fortuna solo) agli arresti domiciliari. Anche lei la scorsa settimana ha dovuto comparire di fronte ai giudici per presunto «riciclaggio con fini terroristici» dei fondi della Fondazione intitolata a sua madre, la ex presidente Violeta de Chamorro.
Ma un disprezzo particolare è riservato alle quattro prigioniere ex compagne di lotta di Ortega ai tempi della dittatura somozista. A cominciare dalla mitica comandante guerrigliera Dora Maria Tellez (66 anni) ministro della Sanità durante la rivoluzione, condannata la scorsa settimana a otto anni per misteriosi «atti contro l’indipendenza nazionale», in una specie di processo che si è svolto nello stesso penitenziario senza che avesse potuto mai incontrare un legale. Dora Maria era stata tra le fondatrici del Movimento per la Rinnovazione Sandinista, messo fuori legge da Ortega già nel 2008 e rilanciato recentemente sotto la sigla di Unión Democrática Renovadora (Unamos); rinunciando così improvvidamente all’appellativo del General de Hombres Libres Sandino, usurpato da Ortega che continua ad essere anche il sempiterno segretario del Fronte Sandinista.
È un trattamento talmente disumano e degradante quello riservato ai dissidenti reclusi che ha indotto negli ultimi giorni i loro aguzzini a trasferirne alcuni (per ragioni di salute) agli arresti nelle loro abitazioni per non rischiare che muoiano di stenti in galera. Come è crudelmente toccato l’11 febbraio scorso all’ex guerrigliero e generale dell’esercito sandinista Hugo Torres, ricoverato in un ospedale della polizia dopo diversi svenimenti nella cella dove era stato rinchiuso (sano) otto mesi prima.
Come se non bastasse, in questo amaro 8 marzo in Nicaragua da tre anni non più festeggiato in piazza ma intensamente rievocato sui social, è giunta al culmine pure la progressiva chiusura di tutte le associazioni e ong che si occupavano di diritti delle donne. A cominciare (dopo 31 anni) dal Colectivo de Mujeres de Matagalpa, che difendeva le condizioni di genere nelle aree rurali del centro del paese. Per finire con la più recente Asociación de Mujeres Trabajadoras y Desempleadas Maria Elena Cuadra, inserita nella Rete Centroamericana di Solidarietà con le Lavoratrici delle Maquilas, ovvero delle fabbriche straniere di assemblaggio e confezionamento (esentasse) di prodotti per l’esportazione. Che impongono infimi salari e tremende condizioni di sfruttamento; e dove i sindacati sono banditi.
A tirare le fila della disastrosa deriva al femminile è la co-presidente della repubblica (nonché consorte) di Ortega, Rosario Murillo, che prova a ostentare come il Nicaragua sia oggi il terzo paese al mondo con più deputate in parlamento. Ma si tratta proprio dell’assise che ha messo fuorilegge ogni istanza organizzata femminista. Del resto fu lei nel 2007, all’esordio del fatale nuovo corso di Daniel Ortega, a introdurre una legge che vieta per la prima volta in Nicaragua l’aborto anche nel caso di violenza o di pericolo di salute per la gestante? E che qualche anno prima aveva sconfessato sua figlia Zoilamerica (oggi riparata in Costarica) che aveva denunciato il padrastro Ortega di aver approfittato di lei quando era minorenne?
A molti torna in mente il già incredibile inciampo di quell’8 di marzo 1988, alla vigilia dell’ardita Operación Danto contro le basi dei contras in Honduras, quando da ancora “primus inter pares” quale era (fra i nove comandanti che dirigevano la rivoluzione) Daniel Ortega invitò le donne nicaraguensi a «generare figli per la patria».
da il manifesto